Il buono e il cattivo
Alvarez è tornato a essere Maravilla, Kaká resta un mistero
Adesso sì che possono chiamarlo Maravilla, pur se questo soprannome non gli è mai piaciuto tanto. Anche perché con il calcio non c'entra alcunché. Tutta colpa di un Ricky Maravilla, argentino di professione cantante. Quando hanno visto Riccardo Alvarez proporre cose interessanti a neanche vent'anni, l'assonanza è nata immediatamente. Applausi che hanno accolto un altro Riccardo, Kakà, al primo giorno in Italia. Proprio lui, quello che aveva sportivamente ucciso Alvarez in un raffronto sempre impietoso a San Siro e rientrato per sfidarlo in un confronto anche cittadino.
Adesso sì che possono chiamarlo Maravilla, pur se questo soprannome non gli è mai piaciuto tanto. Anche perché con il calcio non c'entra alcunché. Tutta colpa di un Ricky Maravilla, argentino di professione cantante. Nessun collegamento diretto, tranne nome e nazionalità. Ma tant'è. Il giornalismo sportivo si accoccola pigro e abitudinario su termini che dovrebbero colpire l'immaginario collettivo. Quando hanno visto Riccardo Alvarez proporre cose interessanti a neanche vent'anni, l'assonanza è nata immediatamente. E pesantemente, perché certi appellativi marchiano, soprattutto se sul campo non dai seguito alle meraviglie che raccontano di te. Un problema per Alvarez, sbarcato in Italia sovraccaricato di aspettative nel periodo meno brillante (eufemismo) dell'Inter. Quello che in patria aveva vinto due campionati Clausura con il Velez, del quale si descrivevano colpi formidabili a livello tecnico, in serie A aveva finito per diventare uno dei tanti stranieri a cavallo tra insignificante e bidone. Presentato come il nuovo Kakà, e non soltanto per l'identico nome, era stato ben presto considerato il fratello sfigato, e un po' tonto, del brasiliano. Partite senza senso, errori marchiani, più panchine che campo: una collezione di orrori che aveva fatto finire Alvarez agli ultimi posti della classifica di gradimento dei tifosi nerazzurri e al primo nella lista dei cedibili. Ma nel calcio, e non solo, occorre avere la fortuna di fare un incontro decisivo per la propria vita. Nel caso di Alvarez questo volto assume le fattezze di Walter Mazzarri. L'avvento dell'ex tecnico del Napoli ha coinciso con la proposta di un progetto di gioco chiaro, semplice e lineare, possibile per tutti, anche per i reietti. L'estate è trascorsa via tra limature e insegnamenti, il risultato in campionato è stato finora clamoroso. Alvarez è tornato quello cui tutti pronosticavano un futuro radioso. I movimenti oggi sono fluidi, le idee precise, la fiducia cresciuta in maniera esponenziale. Il Bignami della resurrezione dell'argentino sta tutto nel modo in cui ha posto da solo le basi per l'illusoria rete di Icardi contro la Juventus: palla strappata di forza a Chiellini, resistenza fisica – e non è facile – al tentativo di rientro del bianconero e invito geometricamente perfetto per il connazionale. Attenzione, determinazione e tecnica, tutto in pochi secondi per trasformare in applausi convinti i fischi di un tempo.
Applausi che hanno accolto un altro Riccardo, il già ricordato Kakà, al primo giorno in Italia. Proprio lui, quello che aveva sportivamente ucciso Alvarez in un raffronto sempre impietoso a San Siro e rientrato per sfidarlo in un confronto anche cittadino. Il brasiliano era la ferita aperta di Adriano Galliani, l'amministratore delegato del Milan non aveva mai metabolizzato la cessione al Real Madrid. Ogni estate suonava puntuale il ritornello Kakà rossonero, in quella del 2013 il fato si è compiuto. Una mossa nostalgica su cui il Milan avrebbe dovuto essere avvertito, visto i precedenti negativi di Gullit e Shevchenko in campo e di Sacchi e Capello in panchina. Galliani l'ha venduta come un'operazione di prestigio e pure tecnica, nell'ottica di un ritorno al trequartista dietro le punte, secondo i suggerimenti presidenziali. Ma stavolta tocca al Ricky più grande affacciarsi a Milano nel momento meno propizio, con Max Allegri più in bilico di un presidente del Consiglio e con una presunta apertura ai giovani trasformatasi in pochi mesi in un ritorno all'apprezzamento delle virtù degli anziani. Kakà doveva riaccendere le fantasie in ribasso del popolo rossonero, rischia di trasformarsi nella foglia di fico che deve nascondere ciò che è evidente a tutti. La prima controprova si è avuta sabato, nel nuovo debutto italiano in casa del Torino: una prestazione deprimente del Milan, peggiore ancora – se possibile – di quanto visto all'esordio a Verona; una serata sottotono per il brasiliano, mai brillante come sua abitudine. Un'abitudine in verità persa negli anni del Real, tra problemi fisici propri e l'ostracismo di José Mourinho. E sorgono sospetti legittimi, se Carlo Ancelotti – uno che aveva costruito le sue fortune milaniste proprio su Kakà – l'ha lasciato andar via dalla Spagna senza innalzare barricate. Anche di semplice facciata.
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