La metafora della Concordia non è l'Italia ma il “general intellect”
Hanno tuittato nell’ordine: Roberto Saviano, scrittore, “un impronunciabile sogno: che con la nave possa raddrizzarsi anche l’Italia”, Nichi Vendola, governatore, “il naufragio della Concordia è l’8 settembre dell’Italia contemporanea”, ancora Nichi Vendola politico nazionale della famosa serie “Nichi ma che stai a di’”, “affondati nella vergogna di insopportabili abusi che navi da crociera compiono in nome di un ideale del consumismo”, Enrico Letta, presidente del Consiglio in carica, “tutti quelli che stanno lavorando lì sono un grande orgoglio italiano”.
Hanno tuittato nell’ordine: Roberto Saviano, scrittore, “un impronunciabile sogno: che con la nave possa raddrizzarsi anche l’Italia”, Nichi Vendola, governatore, “il naufragio della Concordia è l’8 settembre dell’Italia contemporanea”, ancora Nichi Vendola politico nazionale della famosa serie “Nichi ma che stai a di’”, “affondati nella vergogna di insopportabili abusi che navi da crociera compiono in nome di un ideale del consumismo”, Enrico Letta, presidente del Consiglio in carica, “tutti quelli che stanno lavorando lì sono un grande orgoglio italiano”. Diciamo che non stiamo messi molto bene. Qualcuno nel coro è arrivato a dire che se l’impresa è riuscita oggi è perché l’economia mostra segni di ripresa. Comunque tra lo scrittore serioso e il premier molto riflessivo che da quattro mesi e mezzo aspettava l’occasione per gonfiare il petto a carena di pollo, molto meglio le personalissime ossessioni di Vauro: in una vignetta sul Fatto di ieri si vede il Cav. che guarda il relitto, gli lancia una confezione di Viagra e gli dice “raddrizzati”.
Siamo ebbri di realtà virtuale: la realtà reale riusciamo a leggerla solo per metafore, a trasfigurarla in reality. Eppure le immagini delle operazioni al Giglio, trasmesse dal canale dedicato di Sky, un giorno e una notte senza soluzione di continuità, senza commenti, senza schemi, senza spiegazioni più o meno dotte, un paio di telecamere fisse, lasciando parlare il silenzio, solo lo sciabordio sinistro del mare, e qualche rada parola che si scambiavano le persone impegnate nel recupero suscitavano inquietudine, distillavano angoscia: all’inizio, nel conforto del salotto casalingo, ci siamo sentiti come il marinaio che Orazio descrive sereno, già in porto, mentre i compagni sono ancora alle prese con la tempesta, vergognosamente felici di non essere mai stati sulla Concordia, di non aver mai fatto naufragio e meno che mai di dovere stare lì nell’oscurità a scrutare rotazioni di decimi di grado, a maledire una carcassa. Questa realtà non ammetteva metafore, non consentiva di leggere nel relitto qualcosa di diverso dall’ammasso di minacciosa, sgraziata, materia gettataci tra i piedi per una volta non dalla natura matrigna.
O se metafora proprio deve essere, lo è della potenza del general intellect, la dimostrazione di quello che si riesce a fare quando ci si organizza collettivamente e si usa tutta l’intelligenza tecnica e scientifica di cui si dispone. C’era certamente tanta buona Italia al Giglio, ma non solo Italia. Inglesi, belgi, tedeschi, sudafricani, uomini e donne. E quello con una faccia alla Russell Crowe che ha guidato missioni dalla Nuova Guinea al Messico, ha recuperato petroliere incendiate dai pirati al largo della Somalia e nella stanza di controllo si fregiava del titolo e dell’onere del “senior salvage master”, colui che dà il via alle operazioni e a cui tutto fa capo. Sommozzatori, piloti di Rov, i robot subacquei, progettisti, ingegneri informatici, specialisti nel funzionamento dei martinetti idraulici e degli strand jack, nel controllo della zavorra. Cinquecento persone, fianco a fianco in una ferrea organizzazione del lavoro, per un giorno e una notte hanno controllato le immagini trasmesse dalle telecamere ad alta definizione poste sullo scafo per coglierne la minima oscillazione, ascoltato da microfoni ipersensibili ogni stridio, ogni gemito dell’acciaio sotto sforzo, i lamenti di una bestia deforme lunga trecento metri che di tonnellate ne pesa 114 mila.
Non era facile, anzi sembrava impossibile, basterebbe rileggere i commenti scettici, le facili ironie quando nella primavera del 2012 si seppe della tecnica che la società vincitrice dell’appalto avrebbe utilizzato: il web pullulava di commenti tronfi, disinformati e discretamente iettatori sui danni che l’eventuale fallimento avrebbe causato all’ambiente. Si diceva che si poteva lavorare anche a trecento metri di profondità ma navi di quelle dimensioni e di quel peso non si poteva tirarle su senza tagliarle, farle a pezzi. E qualche genio, iddio sa quanti ce ne sono in rete, voleva che il relitto fosse fatto scivolare e definitivamente sepolto nelle acque del Tirreno.
Invece ce l’hanno fatta. E senza strumenti particolarmente sofisticati, anzi: le catene pesano centinaia di tonnellate, ogni singolo anello ha un diametro di due metri, ma la tecnica è ancora quella delle due funi, una in un senso una nell’altro, con cui si facevano rotolare i barili in secoli lontani. Forse anche per questo la pagina che una varia umanità ha scritto nella notte del Giglio è particolarmente bella.
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