Tre palle un soldo
Quello che Letta dimentica quando parla dello “stato di diritto che funziona”
Enrico Letta ha formalmente ragione e sostanzialmente torto quando dice che “in Italia lo stato di diritto funziona” e si giustifica asserendo che “sarebbe paradossale se nel momento in cui presentiamo un piano per l’attrazione degli investimenti esteri passasse il messaggio contrario”. Infatti, l’assenza di una giustizia – civile e penale – affidabile, capace di decidere in tempi ragionevoli, non è un’opinione, né discende da questioni relative a una persona (Berlusconi, nella fattispecie), ma si tratta di un fatto oggettivo, certificato dall’Ocse, comprovato dall’essere il paese con più condanne comminate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e vissuto sulla propria pelle da decine di migliaia di italiani.
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Enrico Letta ha formalmente ragione e sostanzialmente torto quando dice che “in Italia lo stato di diritto funziona” e si giustifica asserendo che “sarebbe paradossale se nel momento in cui presentiamo un piano per l’attrazione degli investimenti esteri passasse il messaggio contrario”. Infatti, l’assenza di una giustizia – civile e penale – affidabile, capace di decidere in tempi ragionevoli, non è un’opinione, né discende da questioni relative a una persona (Berlusconi, nella fattispecie), ma si tratta di un fatto oggettivo, certificato dall’Ocse, comprovato dall’essere il paese con più condanne comminate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e vissuto sulla propria pelle da decine di migliaia di italiani. Ed è verissimo, purtroppo, che costituisca un forte ostacolo, forse il principale tra tanti, agli investimenti stranieri nel nostro paese. Ma c’è di più: la malagiustizia, unita a un pesante clima di persecuzione mediatico-giudiziaria nei confronti di qualsiasi attività economica dovuta a un pregiudizio di natura ideologica, sta diventando uno dei motivi che inducono gli imprenditori nostrani a non investire più un centesimo o, peggio, a delocalizzare o vendere le aziende. Il caso Ilva è lì a indicare, impietosamente, quanto compromesso sia lo stato di diritto e quanto tutto questo si ripercuota sull’economia italiana. Non prenderne atto da parte di un governo per la sola preoccupazione di non apparire indulgente verso un uomo politico impegnato, a torto o a ragione non importa, in una personale guerra contro la magistratura, è un errore strategico di primaria grandezza. E non prendere atto che dalla riforma della giustizia – quella complessiva che Berlusconi non ha mai (colpevolmente) realizzato, non quella personale a suo uso e consumo – transita necessariamente un pezzo importante della risposta che si vorrebbe dare al nostro declino economico, quello strutturale che preesisteva alla crisi mondiale ed europea e non solo la recessione degli ultimi anni, significa costringere il paese a rimanere prigioniero della sua ormai strutturale decadenza.
Giuseppe Berta ha scritto magistralmente (Secolo XIX del 16 settembre) che “la gravità della crisi italiana sta nel fatto che il paese, al contrario degli altri partner europei, ha smarrito la percezione del proprio sistema economico, è ormai privo di un’identità economica precisa, non conosce e non difende le radici su cui si basa la sua ricchezza, mentre un tempo comprendevamo quali erano le forze profonde che sorreggevano la nostra crescita”. Ecco, uno dei motivi di questa perdita di identità sta proprio nell’aver ridotto la “questione giustizia” alla “questione Berlusconi”, e aver lasciato che mille emergenze riempissero le agende dei governi e della politica della Seconda Repubblica. Non riconoscere unanimemente da parte delle forze politiche che l’equilibrio che ci deve essere tra il potere esecutivo e legislativo, da un lato, e la funzione della magistratura, dall’altro, non può essere compromesso in nome della pur giusta autonomia che quest’ultima rivendica, significa assestare un colpo mortale alla possibilità che l’Italia possa ridefinire la fisionomia del suo sistema economico e imprenditoriale. Per esempio, la decimazione delle grandi imprese, di cui l’Ilva è solo l’ultimo anello di una lunga catena, o la svendita diffusa del nostro patrimonio produttivo, come succede quotidianamente con i gioielli del made in Italy e come rischiamo che sia se aziende strategiche come le Ansaldo di Finmeccanica venissero malamente cedute per far cassa, sono fenomeni figli anche e soprattutto di questo cupio dissolvi di cui siamo prigionieri, che trae origine da quel maledetto impasto che somma la deresponsabilizzazione della politica e l’essere sopra le righe di magistratura e media.
Naturalmente, non è questo l’unico motivo del declino economico italiano. Per esempio, da tempo immemore da questa tribuna mi affanno a ricordare come il nostro capitalismo si sia attrezzato tardi e male nel tentativo di adeguarsi agli standard imposti dalla globalizzazione, come il potenziale della nostra industria manifatturiera e dei servizi sia compromesso dai difetti strutturali (numero eccessivo di imprese di piccole dimensioni e scarsità di grandi, in settori poveri di tecnologia e con poca capacità di innovazione, sottocapitalizzate, scarsamente managerializzate e insufficientemente internazionalizzate) che la politica ignora o comunque ritiene siano di esclusiva competenza degli imprenditori. Ma se oggi, come denuncia Berta, l’Italia “rischia di essere estromessa dai circuiti dello sviluppo”, non sono solo gli imprenditori e i politici a doversi fare un esame di coscienza.
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