Berlusconi al penultimo atto

Stefano Di Michele

La disgrazia ci fa conoscere strani compagni di letto. Che consolano del gelo, e di certe solitudini che la disgrazia stessa si trascina dietro. Dudù attende l’ora tarda in cui io mi infilo sotto le coperte, poi mi raggiunge. Sa molte cose, ma ho almeno la certezza che mai se le farà sfuggire davanti alle telecamere, come un qualsiasi sottosegretario in agguato: lui presta l’orecchio a tutti, solo a qualcuno la sua voce, sente le idee di tutti ma pensa solo a modo suo. Ci fissiamo nella penombra, e io certe notti rido – ah, ci vedesse Putin, piccolo Dudù… Consola mica poco, il suo muso gioioso di cane fedele, dopo aver passato giornate intere a osservare facce che ti giurano fedeltà: così, ogni paragone di più alla verità avvicina.

    “Succeda quel che succeda, i giorni brutti passano, esattamente come tutti gli altri” (William Shakespeare).

    La disgrazia ci fa conoscere strani compagni di letto. Che consolano del gelo, e di certe solitudini che la disgrazia stessa si trascina dietro. Dudù attende l’ora tarda in cui io mi infilo sotto le coperte, poi mi raggiunge. Sa molte cose, ma ho almeno la certezza che mai se le farà sfuggire davanti alle telecamere, come un qualsiasi sottosegretario in agguato: lui presta l’orecchio a tutti, solo a qualcuno la sua voce, sente le idee di tutti ma pensa solo a modo suo. Ci fissiamo nella penombra, e io certe notti rido – ah, ci vedesse Putin, piccolo Dudù… Consola mica poco, il suo muso gioioso di cane fedele, dopo aver passato giornate intere a osservare facce che ti giurano fedeltà: così, ogni paragone di più alla verità avvicina. Dicono che gli amici che hai messo alla prova dovresti aggrapparli alla tua anima con uncini d’acciaio, ma nel buio hai il sospetto che quegli uncini l’anima trascinano via, anziché difenderla. E’ una notte agitata, questa che sta passando – e quale notte ormai non lo è? Insonne e inquieta sul guanciale, ho sentito recitare una volta, è la testa che porta una corona. Il sonno non arrivava – magari fosse vero che la nostra piccola vita dal sonno è circondata – così ci siamo alzati e abbiamo percorso nella penombra il lungo corridoio verso la cucina: lui tutto di pelo bianco, io tutto bianco nel mio pigiama – due complici fantasmi che nel buio della notte inciampano uno nei pensieri più profondi dell’altro. Ho preso uno yogurt dal frigorifero, a Dudù un biscotto. Avevo il solito pacco di carte con me, che ossessivamente mi trascino dietro come una volta dicevo di fare con il sole in tasca – carte che mi accusano, carte che non mi hanno difeso, carte dove è brutto il bello e bello il brutto, e basta solo una goccia di male per annerire tutto ciò che è nobile. Eccoli, i veri miei uncini d’acciaio che mi artigliano. Non resta che la lotta, dicevo a Dudù mentre cercavo un cucchiaino. Dudù ha mosso la coda vigile, anch’esso pronto alla battaglia. Ed è stato in quel momento che ho visto il libro sul tavolo.

    Non ci sono mai libri fuori posto, né qui né ad Arcore, né un filo di polvere sui mobili né un cuscino stropicciato sui divani. Si è visto anche nell’ultimo video, come tengo in ordine i miei libri – equilibrio di colori, equilibrio di formati, equilibrio a favore di telecamera. Non doveva essere lì, quel libro. Non era neanche mio: edizione economica tascabile, figurarsi, senza rilegatura, qua e là unto, le pagine con le orecchie, certe parti sottolineate. Non è mio questo libro, una tragedia di William Shakespeare, ho detto a Dudù – però lui già lo sapeva. E poi a me le tragedie non piacciono. Neanche per finzione, neanche nei libri. Ho pensato a chi potesse averlo portato – durante la solita estenuante processione di gente che viene a portare conforto e in realtà si trascina dietro un’inespressa domanda di conferma. Sembrano stanchi anche i loro sorrisi forzati, stanche le loro parole che da anni si inseguono uguali dentro le mie orecchie come versi di un poeta: dubita che le stelle siano fuoco, dubita che il sole si muove, dubita che la verità sia mentitrice, ma non dubitare mai della mia fedeltà, capo… Così comune il desiderio di essere importanti, come banale la tentazione di vivere accanto alla luce di chi lo è. Stancano, vent’anni su questo palcoscenico di matti – e bene vedrei calare il sipario, fossi certo di cosa c’è dopo, dietro l’ombra del sipario che cala. Adesso ho imparato che il dubbio di qualcosa di brutto è più angoscioso di una certezza – è questo che rende le notti insonni e i giorni tormentati. Più affaccendato del laborioso ragno, che trama a fatica la rete per impigliarvi i suoi nemici, è il mio cervello. Una fatica dal tramonto all’alba, e di nuovo dalla luce alla notte successiva. La visione di quel libro, su quel tavolo, mi inquietava proprio perché era un oggetto del tutto estraneo al contesto. Rompeva un equilibrio – del resto, proprio dentro quell’equilibrio un uomo e tutta la sua storia rischiano di diventare pietra corrosa. Pensavo a chi potesse avermelo portato in dono, fosse falco o fosse colomba – Sandro avrebbe lasciato dei suoi versi, le carte di Niccolò ormai le riconosco a fiuto, Denis neanche a parlarne: non è sua competenza, Gaetano sicuramente un babà napoletano, Renato una gondoletta veneziana, Daniela magari una pochette di Hermes… E allora, c’è forse qui dentro un terzo fantasma bianco, oltre a me e a Dudù?

    Ho preso il libro e sono tornato a letto insieme a Dudù – ché alla sua vista si placa la mia pena. L’ho aperto, una pagina a caso: “Ho puntato la mia vita su un tiro di dadi, e voglio stare al gioco e correrne il rischio!”. Non mi restano molte scelte – anzi, non me ne resta alcuna: se non la battaglia finale. Dicono, quelli che non ne hanno bisogno, che al nemico che fugge ponti d’oro vanno costruiti, una via di scampo sempre lasciata aperta, la possibilità di un angolo mai preclusa. Per me non è così – ormai so che così comunque non sarà. Odo il piallare dei legni, l’affilare dei chiodi, il battere dei martelli, il vociare delle folle che si adunano, rumor di fascine che si ammassano. Come per Bettino – e solo per noi due, a parte quelli che su di sé la mano levarono per evitare che la mano altrui si posasse – neanche più un viottolo da percorrere: lui a colare rancore e rabbia su una spiaggia tunisina, io chissà. Né magnanimità né opportunità. Non sopporto più queste notti senza sonno e queste ansie senza risposta. Non sopporto più le voci di quelli che mi chiedono calma e pazienza, questo fuggire di ore in faticoso vagabondare – farsi rieducare, pure questo, rieducare!, io che forse non volevo educare, anzi certo non volevo educare, ma almeno qualcosa di questa nazione cambiare, e non so adesso chi tra noi per primo è cambiato: se io mi sono smarrito, o si è smarrito il paese che plaudente si ammassava. Mi chiedono adesso di fare come l’ultimo imperatore cinese, quel Pu Yi che dalle Guardie Rosse fu rieducato – e mutato in giardiniere e impiegato, e che così domandava a volte: “Credete che un uomo possa tornare a essere Imperatore?”. Ci sono adesso ombre di guardie rosse pure sul bordo della mia esistenza assediata, e affidarmi dovrei, secondo costoro? Per chiedere poi, a qualche misericordioso capace ancora di tendermi l’orecchio, se può un uomo tornare a essere Silvio Berlusconi?

    Una sentenza, una sentenza, una sentenza, l’intera fortuna da consegnare al mio nemico, il seggio di senatore fatto sparire col pollice verso degli avversari, vecchi amici che il cuore artigliano con ramponi d’acciaio e fanno sanguinare, azzardi di nipotine e azzardati profittatori, “noi ci ritroveremo nel tuo petto, pesanti come piombo, e ti trascineremo alla rovina, all’infamia”, mea culpa mea maxima culpa, e ancora e ancora e ancora: una pioggia che non finisce, un incendio che pare indomabile, come la transumanza che tutti i miei giorni ingombra. E ognuno sa per certo, mentre mi si accosta e mi giura fedeltà, cosa sarebbe meglio, non dovendo sulla sua pelle sperimentare il peso del possibile fallimento. Soffiano gelo le parole sul caldo dell’azione, quando non ci toccano direttamente. Macché, non credo né penso, è altrove la soluzione – e non è neanche soluzione, ma unica azione possibile rimasta. Ho continuato a leggere: “Non permettiamo che i nostri sogni pettegoli ci faccian perdere d’animo. La coscienza è soltanto una parola che sogliono usare i vigliacchi, ed è stata inventata apposta per tenere in soggezione i forti. Le nostre braccia robuste siano la nostra coscienza, le nostre spade siano la nostra unica legge!”. Ecco cosa necessita, ecco cosa resta: ora so. Trattare, trattare, trattare, dentro un labirinto da mesi mi aggiro, mi agito, mi dispero e spero, e a questa certezza sono giunto: non ha un’uscita complicata da trovare; è, semplicemente, senza uscita. Ridotto a Minotauro senza salvezza, e col filo rosso d’Arianna vorrebbero strozzarmi. “Tuffatevi giù, nel fondo dell’anima, pensieri”. Da combattere solo è rimasto – senza sapere la sorte che resta. “Si tratta di una masnada di vagabondi, di canaglie, di fuorusciti, feccia di Bretagna, vilissimi bifolchi d’infimo ordine, vomitati dal loro sazio paese per avventure senza speranza e per una certissima distruzione”. Combattere, fosse pure l’ultima volta. Perché è solo amaro guardare la felicità attraverso gli occhi di un altro.

    Credo di essermi appisolato a un certo punto: il libro nella mano destra, e sul libro la testa di Dudù addormentato anche lui. Lo so, l’ho imparato: i sogni sono figli di mente vagabonda, pieni soltanto di vana fantasia, che hanno meno sostanza dell’aria e più inconsistenza del vento. Lo so… Ma forse fu in sonno, forse fu in veglia – lo stesso mi sono di più identificato con la sorte di Riccardo III che lì al mio fianco giaceva. Lui feroce e sanguinario e vendicativo – come nella tragedia appariva, ché la tragedia al racconto di Tommaso Moro si ispirava, ma Moro fu santo ma certo non veritiero; io dai gazzettieri di contumelie coperto, e mi verrebbe da invocare a volte: parlate di me quale io sono!, e invece mai mi ritrovo, insieme occultato e gettato al centro dell’arena – nascondi chi sono, e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni. Sono il Caimano, la feroce bestia; sono il Cainano, l’avida bestiola – e quasi vorrebbero che facessi come Riccardo III, che prendessi per mie le loro parole, così come lui prende per sue le parole con le quali lo avevano ritratto, “cui la natura fraudolenta ha sottratto ogni onesta sembianza di figura umana, io, che son deforme, non finito, mandato anzi tempo in questo spirante mondo, senza che m’avessi neppur plasmata a mezzo la forma”. Per gli storici, fu migliore del crudele che la scena ha tramandato; sarà l’esempio illuminato che stanotte ha inciampato nel mio sonno che fuggiva davanti all’incerta sorte che il dolore dà. Quel dolore nascosto che, simile a un forno chiuso, brucia il cuore fino a incenerirlo. “Così io, non potendomi mettere a fare il cascamorto come costuma in questi anni smammolati, sono deciso a riuscir scellerato, in odio a questa stagione troppo allegra”.

    Ieri sono andato a visitare la nuova sede del partito – né Rosa Bianca né Rosa Rossa, solo fiacco e glorioso tricolore che fu. Forza Italia! Forza Italia! Tutte facce che mi ridevano attorno, ama tutti e fidati di pochi e non fare torto a nessuno, ognuno a mostrare sapienza da saggio che non teme la sua stessa stupidità e a esibire virile la spada del combattimento, e nel raggelante spropositato anfratto marmoreo, di colonne color piombo e filettature dorate e divani lunghi come tram – insieme un perdersi e l’impossibilità di sfuggire, e quelle mie foto di allora che dominano attorno attorno, un cupo visitarmi tra cent’anni, la sensazione di essere inseguito da me stesso: alzavo la faccia e appeso a un muro, venti volte ingigantito come i venti anni che da quelle foto mi separavano, mi ritrovavo. Devo ridere del mio stesso dubitare: per la maschera che mi imprigiona e per quanto di me e di ciò che sono stato ho da portare in salvo. Devo – e so che fatica si fa: “Il cielo aggrotta la fronte e si ottenebra sul nostro esercito. Preferirei che in questa terra non ci fossero queste rugiadose lagrime”. Ed io ancora col microfono in mano, come allora e come sempre, il glorioso doppiopetto riapparso come necessaria armatura, le mani nell’aria che afferrano e cercano di tenere a bada altrui e mie insicurezze. Cosa resterà? Né la mia rabbia risponde, né risponde la lamentosa cautela di certi – appaiono come gli spettri nella tenda di Riccardo: “Dispera e muori!” – né il vociare continuo di altri risponde. C’è un rumore pieno di silenzi, intorno a me. Però adesso almeno so cosa fare – chissà quale prete un giorno, quale democristiano che si accucciò presso di me, mi citò una frase della Bibbia che ora nella penombra ritrovo: “Io sento le vertigini, ma la vita è ancora tutta in me”. C’erano spade, ricordo, attorno a quella citazione – ma non so chi quelle spade stringeva né su chi quelle spade si abbattevano. Siamo sempre mangiati dal non sapere.

    Però, ripeto, adesso so cosa fare. “Non permettiamo che i nostri sogni pettegoli ci faccian perdere d’animo”. Perché almeno sapere dà una veglia di rabbia e non di abbandono. Dudù si è svegliato, osserva dubbioso, lo accarezzo e riprendo a leggere. Ecco cosa fare, appena l’alba taglierà con un po’ di luce il budello oscuro del Plebiscito. Comincerò a dare disposizioni: “Suvvìa, sbrigatevi! mettete la gualdrappa al mio cavallo… Io avanzerò con i miei soldati nella pianura…”. Ho detto di tornare in campo, ma ho la sensazione di un orizzonte vuoto. Lo dobbiamo creare noi, il campo dove batterci. Tocca a noi scatenare la battaglia. Una bella prigione, il mondo: ma non ci si può stare da prigionieri. Sarà allora Bosworth il campo dove dovremo tornare. Se nessun ponte, né d’oro né di pietra né di argilla, mi è stato dato, quel ponte bisogna allora andarselo a conquistare. E se serve rischiare tutto, pure il regno per un solo cavallo, se quel cavallo è risolutivo per dare scacco alla fanteria avversaria. “Mi accollerò, costi quel che costi, la spesa d’uno specchio”. Eppure, eppure, eppure… “Oh, vigliacca coscienza, quanto mi affliggi! La fiammella della lampada arde di luce azzurra. E’ il cuor della notte… Di che ho paura? di me stesso? non c’è nessun altro qui con me. Riccardo ama Riccardo. E cioè, io sono proprio io”. E come lui, fantasmi e diffamatori nel rumore dello scontro ancora assaliranno – lo so, li patisco, ma non più li temo. Li odo, adesso, nella notte: “Che io possa opprimere di tutto il mio peso l’anima tua nella giornata di domani”. Li sento avanzare – lucidare la tastiera dei computer, presidiare piazze come le truppe del Tudor scrutavano il campo di Bosworth. L’eco loro – che l’ego mio mai sapranno mettere in fuga – risuona di corridoio in corridoio: “Ripensa a me domani, nel pieno della battaglia, e ti cada di mano la spada senza più filo. Dispera e muori!”.

    Eccomi. Pronto. Seppure ancora in bianco pigiama, col bianco Dudù al fianco – né il doppiopetto corazzato è stirato, né la gualdrappa sul mio cavallo è stata posta. Ma è deciso, si va all’ultima lotta. Però, un momento ancora… Riccardo, diffamato e spaventato, sul suo campo lasciò la sua vita. Questo no, questo, cribbio!, scusate, col cazzo! Comincia a filtrare una luce dalle persiane che danno sul Plebiscito. Prime macchine nell’alba. Primi autobus. Qualche voce di ubriaco. Lottare sì – come Riccardo III. La battaglia ultima sì – come Riccardo III. Lasciarci le penne – come Riccardo III, mai. Neanche con un simile mausoleo a San Lorenzo in Lucina già organizzato e inaugurato. La lotta estrema sì, per piacere non l’estrema soluzione o unzione – pur se la vita non è altro che ombra vagante: un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sul palcoscenico. E quale grande attore sono stato io! In scena si muore, ma in scena si torna la sera dopo. A me mica mi ritroveranno, tra cinquecento anni, sotto un parcheggio, tra il Senato e la Cassazione, come l’ultimo dei Plantageneti. Non scherziamo. Toccarsi. L’alba è arrivata. Tra poco ricomincerà la processione dei soliti. Io e Dudù torniamo verso la cucina: altro yogurt per me, altro biscotto per lui. Nel letto, da solo, è rimasto Riccardo III. Dorme beato.