Terzo giorno d'assedio
Colpire Nairobi era il grande tabù dei somali di Shabaab. Non vale più
Una fonte del Foglio a Nairobi che non desidera essere identificata dice che c’è uno scopo ulteriore in questo attacco del gruppo somalo Shabaab, non è soltanto una rappresaglia per la presenza di truppe kenyote nel sud della Somalia
Una fonte del Foglio a Nairobi che non desidera essere identificata dice che c’è uno scopo ulteriore in questo attacco del gruppo somalo Shabaab, non è soltanto una rappresaglia per la presenza di truppe kenyote nel sud della Somalia. Le operazioni oltreconfine delle Kenya Defence Forces sotto il nome in codice “Linda Nchi” – in swahili: Proteggere la nazione – sono cominciate nell’ottobre 2011. Sono passati ormai due anni. I soldati di Nairobi sono entrati e hanno conquistato Chisimaio, il porto sull’Oceano indiano, ed è stato un trauma per il gruppo somalo, garantiva un milione di dollari di tasse sui beni in entrata ogni mese, abbastanza per finanziare parte della guerra contro il governo centrale di Mogadiscio, ma è stato nel settembre 2012. Se questa fosse soltanto una vendetta sarebbe tardiva; invece può essere considerata come un’ouverture, una provocazione sanguinosa – come fecero i pachistani di Lashkar e Taiba nel novembre 2008 a Mumbai: tre giorni di diretta televisiva e Twitter – ieri sera si doveva ancora concludere – con almeno 62 morti ed esplosioni, l’obiettivo è allargare la faglia tra la maggioranza cristiana e la minoranza islamista (undici per cento), due parti che hanno coabitato a lungo ma ora si fronteggiano in tensione. E’ stata un’offesa portata alla nazione con modalità efferate: gli ostaggi sopravvissuti e scappati dall’assedio nel mall Westgate hanno raccontato che il commando armato separava i musulmani dagli altri e li lasciava andare e che talvolta si serviva di un piccolo test sul posto: come si chiamava la madre di Maometto? Chi rispondeva era risparmiato, gli altri erano uccisi (la risposta è: Amina). A Nairobi viene in mente cosa è successo a novembre scorso, quando un attacco con una granata ha ucciso nove persone su un piccolo autobus. La Gioventù cristiana di Nairobi rispose attaccando i musulmani e i loro negozi, Shabaab subito ne approfittò per alzare il livello, “questi attacchi sono una chiara dichiarazione di guerra contro i musulmani e devono difendere le loro proprietà e il loro onore”. Testimoni occidentali raccontano del clima nelle chiese cattoliche della capitale, bersaglio di attacchi compiuti specificamente per esacerbare la tensione. Quest’anno, sono comparsi metal-detector all’ingresso, guardie armate, passaggi a livello per tenere le macchine lontane. Che la strategia funzioni già lo temono a Eastleigh, il quartiere somalo della città, la piccola Mogadiscio. Un bel reportage fatto ieri da Reuters racconta come gli abitanti temano la reazione violenta, dei kenyoti e delle agenzie di sicurezza, che non sono mai state tenere nelle campagne di repressione antiterrorismo.
Due ipotesi sul commando
C’è un secondo elemento su cui ci si interroga a Nairobi. Fin da quando gli Shabaab sono saliti al potere nel 2007 si pensa alla possibilità di un attacco contro i “soft target”, i bersagli più facili e indifesi, nella capitale kenyota, compresi anche i centri commerciali (secondo esperti dell’ambasciata americana, Westgate era tra i primi tre probabili bersagli di un attacco). Il gruppo somalo dispone di un network molto esteso in Kenya – inclusi almeno 500 militanti islamisti kenyoti – e potrebbe colpire con un’azione su vasta scala e con relativa facilità, ma finora non era mai successo. I somali sono una diaspora bene organizzata e in Kenya soprattutto hanno ormai troppi interessi, lucrosi investimenti commerciali che sarebbero messi a rischio da un grande attentato. Se gli Shabaab colpissero – scrive il professore Ken Menkhaus specializzato sulla politica del Corno d’Africa – avrebbero da preoccuparsi della reazione dei loro compatrioti danneggiati nei traffici più che del governo o dell’America o di Israele. Questo tabù è caduto sabato, e due sono le spiegazioni che circolano. Una è che l’attacco sia stato organizzato da una componente esterna, incurante del possibile malcontento somalo – e questo potrebbe trovare riscontro nelle voci non confermate sulla provenienza degli uomini del commando, arrivati non dal territorio somalo ma da paesi occidentali. La seconda è che il gruppo è ormai estremamente debole, sabotato da rivalità interne e senza più risorse, e che quindi avesse bisogno di una spettacolare dimostrazione di forza, quale che fossero le conseguenze. La settimana scorsa, nell’ennesima faida interna è stato ucciso un militante americano, Omar Hammami, da una squadra di sicari mandata dal leader Ahmed Godane.
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