Fantasmi dal passato
Le tribolazioni parallele di Telecom e Alitalia, privatizzate all'italiana
Telecom Italia e Alitalia sono, secondo molti osservatori, la materializzazione del declino del capitalismo di relazione italiano. Sono entrambe ex aziende pubbliche. Sono state oggetto di privatizzazioni “sui generis”, a sentire gli economisti più liberisti, perché hanno contemplato l'ingresso massiccio nella compagine azionaria di banche e imprenditori sotto il vessillo della difesa dell'italianità; sebbene non avessero competenze specifiche negli ambiti d'intervento e rispondessero alle indicazioni della politica.
Telecom Italia e Alitalia sono, secondo molti osservatori, la materializzazione del declino del capitalismo di relazione italiano. Sono entrambe ex aziende pubbliche. Sono state oggetto di privatizzazioni “sui generis”, a sentire gli economisti più liberisti, perché hanno contemplato l’ingresso massiccio nella compagine azionaria di banche e imprenditori sotto il vessillo della difesa dell’italianità; sebbene non avessero competenze specifiche negli ambiti d’intervento e rispondessero alle indicazioni della politica. Ad anni di distanza da quelle “privatizzazioni”, le due compagnie ora devono affrontare gli stessi fantasmi: la resa degli azionisti italiani fiaccati dalle perdite pecuniarie, un enorme debito finanziario accresciuto nonostante i cambi di gestione, l’erosione dell’italianità con l’ascesa contestuale dei partner/concorrenti stranieri, e infine un ritorno dello stato interventista attraverso la Cassa depositi e prestiti (Cdp).
In entrambi i casi, i soci italiani non hanno guadagnato dall’intervento difensivo e meditano di uscire dall’investimento. Nel caso di Telecom, il 28 settembre si deciderà lo scioglimento del patto di sindacato che blinda il 22,4 per cento del capitale della holding Telco. La banca d’affari Mediobanca ha messo a bilancio 319 milioni di svalutazioni dall’investimento e intende uscire dalla partecipazione. L’assicurazione Generali, guidata da Mario Greco, deciso a concentrarsi sul business assicurativo, sembra intenzionata a fare lo stesso. Non è stata chiarita la posizione di Intesa Sanpaolo. Nel caso di Alitalia, invece, la posizione finanziaria e aziendale è più critica: in cassa ci sarebbe meno del 25 per cento di quel miliardo messo a disposizione dai “capitani coraggiosi” nel 2008. I soci, come ad esempio la famiglia Riva che ha visto il suo investimento in Alitalia bloccato dalle vicende giudiziarie dell’acciaieria Ilva, i Benetton o banca Intesa Sanpaolo, stanno accumulando costantemente perdite. Il 26 settembre dovranno decidere se aderire a un aumento di capitale da almeno 300 milioni per arrivare al marzo prossimo con sufficiente liquidità. Constata un imprenditore coinvolto cinque anni fa nel piano di rilancio, il cosiddetto piano Fenice: “Sono passati anni e l’unica cosa che si è vista è lo sperpero del denaro dei soci”.
Le due compagnie si sono molto indebitate, al punto da essere messe sotto scacco dalle agenzie di rating (è il caso di Telecom) o da rendere incerta la continuità aziendale (è il caso di Alitalia). In agosto Moody’s ha dato tre mesi di tempo a Telecom per alleviare i 28 miliardi di debito messi a bilancio ed evitare così un declassamento del titolo a livello “spazzatura”. Per scongiurare il “taglio”, il 3 ottobre Telecom presenterà il piano industriale. Si sa già che per recuperare 500 milioni, diceva Bloomberg, è allo studio la cessione di alcuni ripetitori usati per i telefonini. Il debito di Alitalia invece ha superato il miliardo di euro e, mentre le perdite si moltiplicano di anno in anno, il vettore nazionale nel 2013 ha ceduto il monopolio di fatto sulla rotta Linate-Fiumicino e da marzo deve pagare 10 milioni di euro mensili di tasse aeroportuali sullo scalo romano, dove il gestore ha aumentato le tariffe.
Intervento dello straniero o dello stato?
I soci industriali esteri, Telefonica e Air France-Klm, ora potrebbero approfittare dell’indebolimento delle difese tricolori e conquistare ulteriori quote di Telecom e Alitalia. Il vettore franco-olandese potrebbe salire al 50 per cento del capitale, operazione discussa ieri dal cda della compagnia (nulla è stato comunicato quando questo giornale andava in stampa) e non osteggiata dal governo italiano, al contrario del 2008. Telefonica invece potrebbe rilevare le quote lasciate dai soci italiani di Telecom, ma non è arrivata nessuna offerta, diceva ieri l’Ansa. Rumors vedono gli spagnoli interessati agli asset sudamericani di Telecom, Tim Brasil e Tim Argentina. L’economista Andrea Giuricin dell’Istituto Bruno Leoni pensa sia un misunderstanding: “L’oro di Telecom è in Italia perché è dall’attività nel nostro paese che deriva il 70 per cento dei ricavi aziendali”. Per entrambe le compagnie si è ipotizzato, in forme differenti, un interessamento della Cdp, un intervento più volte invocato ma al momento di difficile realizzazione e criticato. “Dopo certe privatizzazioni andate così malamente – dice Ugo Arrigo, docente di Finanza pubblica alla Università Bicocca – l’intervento della Cdp sarebbe un’aberrazione. Lo stato è uscito dalla porta e rientrerebbe dalla finestra: un caso di privatizzazioni a mo’ di yo-yo dove le perdite pregresse si sono già scaricate sul pubblico e con quelle future potrebbe succedere lo stesso”.
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