Perché chi scappa dal regime nordcoreano non si può salvare davvero

Giulia Pompili

“Non serve molto per essere arrestati in Corea del nord. Puoi essere portato in un campo di lavoro se nomini i leader Kim Il-sung o Kim Jong-il senza anteporre il titolo di ‘compagno tongji’. In Corea del nord la gente fuma il tabacco arrotolato nei fogli di carta. Quando non c’è abbastanza carta, qualcuno al suo posto usa i fogli del quotidiano Rodong. Puoi essere deportato nei campi di prigionia perché magari non hai fatto attenzione all’immagine di Kim Il-sung riportata sul giornale”. Una delle tre voci più interessanti del documentario del tedesco Marc Wiese, “">Camp 14: Total Control Zone”, in uscita nelle sale inglesi il prossimo ottobre, è quella di Hyuk Kwon.

    “Non serve molto per essere arrestati in Corea del nord. Puoi essere portato in un campo di lavoro se nomini i leader Kim Il-sung o Kim Jong-il senza anteporre il titolo di ‘compagno tongji’. In Corea del nord la gente fuma il tabacco arrotolato nei fogli di carta. Quando non c’è abbastanza carta, qualcuno al suo posto usa i fogli del quotidiano Rodong. Puoi essere deportato nei campi di prigionia perché magari non hai fatto attenzione all’immagine di Kim Il-sung riportata sul giornale”. Una delle tre voci più interessanti del documentario del tedesco Marc Wiese, “">Camp 14: Total Control Zone”, in uscita nelle sale inglesi il prossimo ottobre, è quella di Hyuk Kwon, ex comandante delle guardie del campo di prigionia numero 22, uno dei più estesi del regime di Pyongyang. Hyuk è l’unico ad aver filmato dall’interno un gulag nordcoreano, immagini che sono tutt’oggi studiate dagli osservatori e dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, perché quello che succede nei campi di prigionia nordcoreani si intuisce esclusivamente attraverso l’analisi incrociata dei racconti di chi riesce a scappare e dalle immagini che catturano i satelliti. Hyuk ha disertato nel 1999, oggi lavora in Corea del sud, ha un nuovo nome e una nuova vita, e aspetta che suo figlio sia abbastanza grande per capire cosa faceva suo padre, in Corea del nord.

    Il film tedesco è tenuto insieme dalla storia ben nota di Shin Dong-hyuk, trentunenne nordcoreano che è nato e cresciuto nel campo di lavoro numero 14. Shin è scappato nel 2005 attraverso la Cina e la Corea del sud, ha incontrato il giornalista Blaine Harden del Washington Post, gli ha raccontato la sua storia da cui è nato il best-seller “Escape from Camp 14”, non ancora tradotto in italiano. Shin oggi parla alle Nazioni Unite, racconta la sua vita, è attivista dell’associazione “LiNK” e mostra agli occidentali le sue braccia piegate innaturalmente dalle torture subite. Racconta il suo primo ricordo nel campo, a quattro anni, quando assistette alla sua prima esecuzione pubblica. Racconta di quando denunciò sua madre e suo fratello che stavano organizzando la fuga – non pianse, quando le guardie li legarono a un palo e spararono: “Avevo sempre fame, e lei pensava a mettere via il mais per la fuga”, dice Shin.

    La terza voce del documentario è quella di Oh Yangnam, che faceva parte dei servizi segreti di Pyongyang e ora, anche lui, è scappato in Corea del sud: “Non mi sono mai sentito un po’ in colpa, anche se ho ucciso molto spesso, lì. Ricevevamo una razione speciale per ogni esecuzione di un criminale: carne e due bottiglie di alcol. Nei campi di lavoro per dissidenti politici non c’è nessuna ricompensa: quando c’era da uccidere qualcuno, pensavamo semplicemente che fosse la cosa giusta da fare per proteggere il nostro paese. Pensavo che fosse normale. Se non volevamo sporcarci le mani, sceglievamo un gruppo di detenuti e io ordinavo: ‘Se non uccidi uno del tuo gruppo, io uccido tutti voi’. Perché devo fare un lavoro sporco e vedere il sangue sulle mie mani, c’erano altri modi, più semplici. Aspettavo finché uno dei detenuti non veniva colpito a morte da un altro di loro”.
    Secondo il pamphlet di David Hawk “I gulag nascosti”, pubblicato nell’agosto scorso, almeno 130 mila persone sarebbero tuttora detenute nelle “colonie penali di lavoro” nordcoreane, dove vengono sottoposte a malnutrizione, lavori forzati e torture.

     

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.