Mister penombra
L’ho saputo dai media”, ha detto Franco Bernabè, presidente Telecom apparentemente assalito dalla realtà dell’ascesa spagnola ai vertici della holding che controlla la baracca. La frase, pronunciata da uno che si professa seguace del generale cinese Sun Tzu, quello de “L’arte della guerra” (V secolo avanti Cristo) dice tutto e dice niente: l’ho saputo dai media, dunque voglio dirmi inconsapevole, ma in realtà sono consapevole e non voglio dirvelo, e anzi, non solo sono consapevole e sapevo tutto, ma in questo modo voglio mandarvi a dire che non è certo colpa mia, se ci troviamo in questa situazione, e anzi la colpa è degli altri e anche vostra, e adesso che siamo qui balliamo, anzi ballate – però dovevamo pensarci tutti prima e quindi la colpa è anche mia, in fondo.
“Coloro che non sono del tutto consapevoli dei danni derivanti dall’applicazione delle strategie non possono essere neppure consapevoli dei vantaggi derivanti dalla loro applicazione” (Sun Tzu, “L’arte della guerra”)
L’ho saputo dai media”, ha detto Franco Bernabè, presidente Telecom apparentemente assalito dalla realtà dell’ascesa spagnola ai vertici della holding che controlla la baracca. La frase, pronunciata da uno che si professa seguace del generale cinese Sun Tzu, quello de “L’arte della guerra” (V secolo avanti Cristo) dice tutto e dice niente: l’ho saputo dai media, dunque voglio dirmi inconsapevole, ma in realtà sono consapevole e non voglio dirvelo, e anzi, non solo sono consapevole e sapevo tutto, ma in questo modo voglio mandarvi a dire che non è certo colpa mia, se ci troviamo in questa situazione, e anzi la colpa è degli altri e anche vostra, e adesso che siamo qui balliamo, anzi ballate – però dovevamo pensarci tutti prima e quindi la colpa è anche mia, in fondo. Tra il detto e il non detto, nel generale biasimo ex post verso la politica dormiente e il “capitalismo di relazione” (variante: “capitalismo straccione”), capita che Bernabè velatamente accusi un po’ tutti (gli esperti dicono: “Ce l’ha con il governo”, “ce l’ha con l’Agcom”, “ce l’ha con i nemici di un tempo” – vai a capire). Ma succede pure che mezzo Pd spari sulla casa madre (i Ds di Massimo D’Alema e Piero Fassino, per l’appoggio alla scalata di Roberto Colannino a Telecom nel 1999) mentre il premier Enrico Letta, in mezza crisi di governo, dica di voler correre ai ripari a babbo morto, con decreto, per salvare dalla rapacità della Spagna un “asset strategico per lo stato”. Vai a capire, pure qui, ma intanto lui, Bernabè, manager carsico, scompare un pomeriggio a Roma e riappare il giorno dopo nel suo Trentino-Alto Adige, dove presiede il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea luminoso e prestigioso in quel di Rovereto. “Con l’impegno nella cultura voglio ridare al paese quello che mi ha dato”, ha detto Bernabè nei giorni in cui, lasciata per la prima volta la Telecom dopo l’Opa di Colaninno – il suo pallino, il fatto da vendicare – si è messo a fare il manager decentrato: un po’ a Orvieto, un po’ in giro per l’Europa, un po’ nel lontano oriente, un po’ a Venezia (al vertice della Biennale, nominato da Giuliano Urbani, ministro del Cav.), un po’, appunto, al Mart. Si sospetta però che sia sua moglie Grazia, conosciuta in gioventù e mai più lasciata, la vera intenditrice: “Gallerista nei pressi di Trastevere, molto informata, buona collezionista”, dicono di lei a Roma. Vittorio Sgarbi, comunque, ha sempre mal digerito il Bernabè culturale, tanto da rendersi protagonista, nei primi anni Duemila, di uno scontro unilaterale per la mancata nomina del critico australiano Robert Hughes alla guida della Biennale Arti visive (“scazzo storico”, dice chi c’era, ma unilaterale nel senso che Sgarbi attaccava e Bernabè, forse seguendo Sun Tzu, non rispondeva). Finì con Hughes che se la prendeva con i fantomatici “indecisi” della Biennale e con Sgarbi che si scagliava contro “la miopia e l’incapacità culturale” di Bernabè, sordo ai suoi suggerimenti (“gli ho anche dato il numero di Bernard-Henri Lévy per la sezione teatro, e neanche l’ha chiamato”).
Sia come sia, non l’ha “saputo dai media”, Bernabè, che Telefonica stava per prendersi Telco, questo è chiaro, ma chissà poi a quale precetto dell’“Arte della guerra” potrà mai rifarsi una frase del genere (a ogni manager il suo ispiratore: per un Bernabè con Sun Tzu, c’è un Franco Tatò con Von Clausewitz). Sun Tzu, anche filosofo, pilastro della tradizione cinese, il cui pensiero ha attraversato i secoli racchiuso in un rotolo di bambù, consiglia ai condottieri (manager, volendo) la dissimulazione: “La strategia è la via del paradosso. Chi è abile, si mostri maldestro; chi è utile, si mostri inutile. Chi è affabile, si mostri scostante; chi è scostante, si mostri affabile”. Ma chissà poi se Bernabè stava dissimulando, con quell’espressione di tranquilla allerta sul volto, quando, durante l’audizione in Senato, mercoledì scorso, ha definito con freddezza burocratica l’ascesa di Telefonica “cambiamento nell’assetto azionario” mentre i giornali ne parlavano in termini catastrofici (“Norimberga del capitalismo italiano”; “Telecom spolpata”, “bandiera bianca”), dando tuttavia la colpa principale ad altri (i soci, i privatizzatori precedenti, gli scalatori del ’99), come se lui, Bernabè, fosse fatto di un’altra materia, da maneggiare con cura. Uno che c’è e non c’è. Che è dentro ma fuori (“ha studiato all’estero, ha frequentato l’estero, ha guardato l’Italia come il marziano fa da Marte”, dice un conoscente). Uno che sa e non sa. E forse sa talmente tanto da dover fingere di non sapere – negli anni gloriosi da amministratore delegato Eni, dal 1992 al 1998, in piena Tangentopoli, Bernabè era non solo il manager che “sistemò l’azienda privatizzata con fiuto da petroliere e conoscenza del mondo”, come concedono anche i detrattori di oggi, quelli che aggiungono “ma con Telecom chissà perché non ha fatto lo stesso”. Era anche altro, Bernabè, in quegli anni. Era quello che vedeva arrivare tutt’attorno a sé – agli altri – gli avvisi di garanzia; quello che vedeva deflagrare la guerra chimica Raul Gardini-Gabriele Cagliari; quello che assisteva da lontano alla tragedia (suicidio di Cagliari e di Gardini); quello che portava le carte ai magistrati, rapido, e, come lui stesso raccontò al Corriere della Sera nel 1994, quello che d’un colpo “spazzava via trecento manager” (come si è sentito?, gli chiedeva il giornalista Riccardo Chiaberge, e lui, Bernabè, come il chirurgo partecipe ma asettico dopo l’operazione, rispondeva che era stata “un’esperienza di grande solitudine”). E insomma, a guardarlo da oggi e a ritroso, Bernabè è quello che si trova nel posto sbagliato al momento giusto, con un tempismo talmente giusto da apparire, a volte, anche un po’ in anticipo: nel 2010 scrisse al Corriere della Sera una lettera da salotto buono (oggetto: “Come dilaga la corruzione – troppe clientele e poco merito”), citando Ernesto Galli della Loggia (“bene fa a indicare la corruzione come uno dei grandi mali del nostro paese”). Neanche una settimana dopo si scatenò il finimondo mediatico-giudiziario con arresti, poi finito nel solito bicchier d’acqua, per l’inchiesta Telecom-Sparkle. I dietrologi ci videro la grande coincidenza: come mai la lettera? E perché proprio quattro giorni prima? Bernabè allora guardava e passava, ma il tema della preveggenza evidentemente sempre lo affascina. “Vi ricordate il film ‘Minority report’?”, ha chiesto il presidente Telecom all’amica e conduttrice Lilli Gruber, altoatesina come lui, durante una puntata di “Otto e mezzo”, nel maggio scorso, dopo aver risposto senza rispondere alle domande sulla vendita de La7, introducendo l’argomento del suo libro “Libertà vigilata-privacy, sicurezza e mercato nella rete” (ed. Laterza). Serviva per parlare della “predittività” a fini commerciali sul web, il paragone con il film di Spielberg, tratto da un racconto di Philip Dick su una squadra anticrimine che utilizza tre veggenti, i “precog”, per prevedere gli omicidi e arrestare l’assassino in potenza, prima che compia l’atto. Scenario inquietante: il film all’uscita, nel 2002, in piena guerra al terrorismo, aveva allarmato i garantisti. Ma a Bernabè come “precog” non aveva mai pensato nessuno.
E qui parte il romanzo, accompagnato da grande circospezione. Alla domanda del non addetto su Franco Bernabè, gli interlocutori non solo chiedono subito l’anonimato ma addirittura, scambiando chi davvero non sa per un furbo intervistatore in stile Fbi, vedono il trabocchetto dietro l’angolo (“lei mi vuol far dire troppo”), come se temessero il cinese che è in Bernabè, quello che, tanto per cambiare, legge Sun Tzu quando dice che la vera vittoria si ottiene “senza combattere” e “che ciò che permette al sovrano e al buon generale di colpire e conquistare cose al di là della portata della truppa” è la capacità di “spiare” il nemico, conoscendolo infine come se stesso. Che Bernabè l’abbia combattuta come dice, la seconda guerra per Telecom (quella di oggi), o che, come dicono gli esperti critici del ramo, “si sia perso in qualche indecisione”, dettata magari dalla volontà di “mantenere una buona reputazione”, cosa che porta spesso “a non prendere una posizione chiara”, il suo nome incute negli ambienti contigui uno strano timore. Come se il cinese che è in lui aspettasse sulla riva del fiume, dopo aver contagiato ogni aspetto della sua esistenza (anche il figlio di Bernabè è attratto dall’oriente, declinato però in variante indiana: pur avendo un normale lavoro aziendale da laureato in materie economiche, il ragazzo ha anche aperto una scuola di yoga a Roma).
Bernabè il cinese, nato altoatesino, cresciuto prima in Austria dietro a un padre ferroviere e poi a Torino per esprit cosmopolita dello stesso padre ferroviere, è paziente, sorridente, permaloso, inafferrabile. E’ capace di parlare a te in un modo, a me in un altro, a lui in un altro ancora – dello stesso argomento e nella stessa giornata, adattandosi all’interlocutore (nemico?) mentre passa da una stanza all’altra, e se è arte della guerra o no vai a capirlo. Soprattutto, Bernabè il cinese non dimentica. Ne sa qualcosa Piero Fassino, che a fine 2012, in qualità di sindaco di Torino, si è ritrovato a rimembrare il suo passato di ministro del Commercio estero nel governo D’Alema, ma soltanto per sentirsi dire dal presidente Telecom tutto il male possibile dell’Opa del ’99, la scalata dei cosiddetti “capitani coraggiosi” che piacevano a D’Alema quanto dispiacevano a Bernabè, e che portarono Bernabè alle dimissioni dopo soli quattro mesi al vertice dell’azienda da poco privatizzata. Dunque il gelo calò, quella sera del dicembre scorso a Villa Sassi, edificio storico del Seicento, adagiato su una collina torinese e solitamente adibito a feste di laurea e matrimoni. Bernabè, tra un brindisi e l’altro, ricordava a Fassino e alla platea dell’Ide (Imprenditori e dirigenti europei) che l’Opa del ’99 aveva avuto tutta la sua “contrarietà” e tutte le “ingerenze” politiche altrui (“io ho combattuto”, dice sempre Bernabè quando si parla dell’Opa, ora che il nemico è passato giù per il fiume e lui è tornato a Telecom). E però stavolta l’attesa strategica non ha dato i frutti sperati: Bernabè è stato richiamato al vertice dell’azienda dopo più di dieci anni e dopo la gestione Tronchetti Provera, ma la situazione non era rosea, tutt’altro, tanto che gli amici sconsigliavano (“ma chi te lo fa fare?”). Ma lui, enigmatico, sorrideva. Forse perché a forza di osservarli, i cinesi, dal cda del colosso PetroChina in cui siede da innumerevoli anni, unico e costante occidentale, ha mutuato una certa imperscrutabilità mandarina, oltreché una certa tendenza al culto di Deng Xiaoping (lo chiama “il visionario che ha risollevato la Cina dopo il dramma della Rivoluzione culturale”, e lo dice con realpolitik che sorvola sul tema “diritti umani”). Dondola leggermente il capo quando parla, Bernabé, socchiudendo le palpebre sotto gli occhialetti leggeri alla Gianroberto Casaleggio. Riapre gli occhi e annuisce senza davvero dire sì, rigido nella postura, come se avesse ingoiato un cinese vero che ora si muove sotto la maschera del presidente Telecom – così appariva Franco Bernabè nella suddetta puntata di “Otto e mezzo”, quando parlava di Matteo Renzi come di uno che “combatte”, ma a cui in fondo manca la “visione” e di Beppe Grillo come di uno che ha “fatto uscire il genio dalla lampada, cosa meravigliosa”, e che però ora del genio non saprà che farsene, se non fa “il salto” (riorganizzare Grillo con “l’old politics”, questo il suo consiglio, ma per Grillo è come l’aglio per il vampiro). Va detto che i due, Grillo e Bernabè, si sono scritti spesso lettere via blog, dopo gli show di Grillo nelle assemblee Telecom. Caro Grillo, caro Bernabè: dialogo tra sordi in cui Bernabè di solito vuole spiegare a Grillo che di più non si poteva fare e che “i problemi della Telecom sono nati dieci anni fa” per via “della scalata a debito che ne ha poi minato redditività, sviluppo e prospettive”, mentre Grillo di solito dice a Bernabè che “non è reticente, è molto di più. Fa parte del sistema e tiene famiglia”, anche se poi gli concede la qualifica di “meno peggio” rispetto a Marco Tronchetti Provera e a Roberto Colaninno. E siccome Bernabè è tornato, dopo dieci anni, sul luogo del delitto, cioè nella mai dimenticata Telecom, per dimostrare di essere stato interrotto nell’opera (sulla carta) grandiosa, non c’è Grillo che tenga: mi ritirerò nella mia Vipiteno e magari altrove non quando dice lei, scrive Bernabè sul blog, ma quando e dove dico io.
Ma come l’ha combattuta, la guerra, Bernabè, amante del dettaglio al punto da perdersi in una discussione tecnica sull’obiettivo del fotografo durante le interviste con prestigiose riviste internazionali? E a quale tipo di leadership guarda, vista la sua idiosincrasia per i partiti liquidi (sembra volere un partito corpo intermedio, dice assomigliando pericolosamente a Fabrizio Barca)? Non può davvero essere il suo modello l’imperatore morente ne “Le memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar, l’altro suo libro di riferimento, dove si parla di un carisma sovrumano e naturale, diversissimo dall’autorevolezza sotto le righe di Bernabè. “Mi è toccata una sorte analoga a quella di certi giardinieri: tutto quel che ho cercato di piantare nella immaginazione umana vi ha preso radice”, diceva l’Adriano della Yourcenar, malinconico e lucido nel momento in cui il potere non coltivato fioriva lo stesso, nonostante i presagi di cambiamento.
Nulla dell’imperatore maestoso c’è in lui, e anzi tutti notano l’“affabilità” di Bernabè, “uomo schivo e riservato” che al massimo della mondanità si concede ai surprise party organizzati dalla moglie per il suo compleanno, in qualche ristorante poco al di sopra del livello trattoria. Pochi anche gli amici noti: qualche ex collega del periodo Eni, Lilli Gruber, Chicco Testa e Domenico Siniscalco, suo ex compagno di esordio professionale tra i “Reviglio boys”, i ragazzi formati dal professore e ministro socialista Franco Reviglio tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. Di quei tempi si conserva qualche memoria in un lungo ritratto di Siniscalco scritto da Marco Ferrante per questo giornale nel 2004: Alberto Meomartini, presidente di Assolombarda, dice che a un certo punto si affacciò anche Bernabè, nel gruppo già formato da lui, Siniscalco e Giulio Tremonti, tutti giovani e tutti ambiziosi, ma all’epoca non competitivi: “Franco era analitico, prudente, con una conoscenza dell’impresa più definita della nostra, e con una capacità di entrare in rapporto col potere più consapevole”.
Da giovane, Bernabè era già molto oltre la sua età: ufficio studi alla Fiat, incarico internazionale a Parigi per l’Ocse, ingresso all’Eni con Reviglio, da enfant prodige degli “scenari” geopolitici, non solo petroliferi, sotto l’occhio benevolo di Giuliano Amato e Francesco Cossiga, che lo volle tra i componenti di una commissione per lo studio della riforma dei servizi segreti. Studiare e basta, ma c’è chi si fa prendere la mano dalla fantasia, vista la riservatezza dell’uomo, e lo descrive simile, “per temperamento”, ad Allen Dulles, storico capo della Cia, “gentleman nei modi, un mistero nei fatti”. Il resto lo fa il complottismo becero del web, che scrive tweet anti poteri forti solo a sentire le parole “Bilderberg” e “Rothschild” (Bernabè siede da anni nel direttivo Bilderberg, alle cui riunioni ha introdotto anche l’amica Gruber, ed è stato ai vertici di Rothschild Europa).
Più facile dire ciò che non è, il presidente Telecom. Non è un manager “vecchia scuola Iri”, anche se ai tempi dell’Iri e delle prime privatizzazioni Bernabè e Romano Prodi procedevano in sincrono, da privatizzatori baldanzosi. Non ha, degli antichi manager tosti e magari diversamente democratici, il piglio autoritario (più simile a quel modello appare il protagonista spagnolo della vicenda Telecom-Telco, César Alierta, vertice Telefonica). Non è un navigatore da cordata di gruppo, Bernabè (“lavora in solitario, pur avendo tutti i contatti nei gangli giusti”, dice un economista). Non è dispotico, non è bisbetico. Non è enfatico. Non è smodato (cammina molto, come gli dice il fratello medico, e mangia bene). Non è noncurante. Non è schierato. Non si definisce, vuole restare indefinibile. Cade, ma cade in piedi. E questa forse, alla fine, è la sua arte della guerra.
(“La configurazione tattica eccellente, dal punto di vista strategico, consiste nell’essere privi di configurazione tattica, ossia nella condizione ‘senza forma’. Quando si è senza forma, neanche gli agenti segreti più profondi sono in grado di spiarci, né gli uomini più intelligenti di tramare progetti”, da Sun Tzu, “L’arte della guerra”).
Il Foglio sportivo - in corpore sano