Dimissioni al telefono
Bernabè lascia ma il destino di Telecom resta tra Spagna e banche
Come previsto, ieri Franco Bernabè ha dato le dimissioni da presidente esecutivo di Telecom Italia, a una settimana dall’annuncio dell’ascesa del socio industriale spagnolo, Telefonica, nell’azionariato del primo operatore telefonico nazionale. La comunicazione ufficiale è arrivata all’apertura del cda, tenutosi nel pomeriggio a Milano. Dopo l’annuncio il titolo si è mosso al rialzo e ha chiuso a più 1,66 per cento, in controtendenza rispetto al listino. Bernabè lascia Telecom per la seconda volta nella sua carriera (si era dimesso nel 1999, a pochi mesi dall’arrivo, a seguito dell’Opa di Colaninno da lui osteggiata).
Come previsto, ieri Franco Bernabè ha dato le dimissioni da presidente esecutivo di Telecom Italia, a una settimana dall’annuncio dell’ascesa del socio industriale spagnolo, Telefonica, nell’azionariato del primo operatore telefonico nazionale. La comunicazione ufficiale è arrivata all’apertura del cda, tenutosi nel pomeriggio a Milano. Dopo l’annuncio il titolo si è mosso al rialzo e ha chiuso a più 1,66 per cento, in controtendenza rispetto al listino. Bernabè lascia Telecom per la seconda volta nella sua carriera (si era dimesso nel 1999, a pochi mesi dall’arrivo, a seguito dell’Opa di Colaninno da lui osteggiata).
Bernabè è stato descritto sul Foglio del 28 settembre come un manager “sfuggente” e “carsico” perché è stato abile nel dribblare le critiche circa il suo, di certo delicato, operato. Non ha impostato lo scorporo della rete, un asset strategico per il paese, prima di un’aggressione straniera “prevedibile”, a detta degli analisti. E il governo per difenderne l’italianità interverrà con un provvedimento ad hoc (“golden power”) che arriverà “a breve” in Cdm insieme alla proposta di revisione della legge sull’Opa, ha detto ieri il sottosegretario all’Economia, Pier Paolo Baretta. In estate erano naufragate le trattative per la fusione con 3 Italia, della cinese H3G, condotte da Bernabè. Più di recente di fronte a due commissioni del Senato, ha detto di avere saputo dalla stampa che i soci italiani (Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo) avevano venduto le proprie quote agli spagnoli. Negli ultimi mesi si erano fatte insistenti le voci di malcontento sulla sua gestione da parte di Generali (presieduta da Gabriele Galateri, stretto amico del capo di Telefonica, César Alierta) e Mediobanca, insoddisfatte dell’andamento finanziario di Telecom: in sei anni il titolo ha perso quota e il debito è cresciuto fino a 40 miliardi di euro (per questo Moody’s potrebbe declassare Telecom a “spazzatura”). L’amministratore delegato, Marco Patuano, proporrà un piano industriale per ridurre il fardello. Piano che prevede la divisione di Telecom in più società (mobile, fisso, rete, wholesale). E’ infatti escluso l’aumento di capitale – che Bernabè chiedeva da tempo – perché osteggiato dai soci. Tant’è che il rifiuto di immettere liquidità risulta il motivo per cui Bernabè ha lasciato: “Ho fatto un passo indietro per evitare spaccature nel cda”, ha detto in serata alla Adnkronos ribadendo che “non c’è stata sufficiente attenzione da parte delle istituzioni”. Per avere difeso la sua posizione manager privati e pubblici, come Bassanini (Cdp), Cardani (Agcom) e Catricalà, sottosegretario allo Sviluppo, hanno reso a Bernabè “l’onore delle armi”.
La successione e la cautela di Intesa
Le deleghe di Bernabè passano a Aldo Minucci, presidente dell’Associazione nazionale gruppi assicurativi (Ania), i giornali danno come favorito per la successione l’ad di Poste Italiane Massimo Sarmi. Ci sarebbe accordo sul nome tra Generali e Mediobanca mentre Intesa, che volle Bernabè, è attendista. La banca sta riorganizzando i vertici dopo le dimissioni di Enrico Cucchiani volute dalle fondazioni azioniste e da Giovanni Bazoli. E’ un processo che con tutta probabilità rallenterà i dossier come Telecom e Alitalia. Gli esponenti della banca hanno una posizione sfumata. Il sostituto di Cucchiani, Carlo Messina, al Sole 24 Ore ha detto che sarà la sezione corporate e investment banking a occuparsi delle partecipazioni (responsabilità di Gaetano Micchichè ,“fiducioso” nel rilancio di Telecom) e che, comunque, la banca “non può sostituirsi allo stato”, né con la tlc né col vettore. Sembrava più possibilista il capo del consiglio di gestione, Gian Maria Gros-Pietro (“se Alitalia si dimostrerà una impresa che ha capacità di sviluppo, noi faremo il nostro mestiere anche verso Alitalia”) salvo poi indurire la linea in un’intervista a MF/Milano Finanza (“in qualche modo dovremmo passare la mano ad altri investitori”). L’ex ad di Intesa, Corrado Passera, in un’intervista a Panorama ha difeso la privatizzazione delle due compagnie di cui è stato l’artefice e ha annunciato un suo programma politico (da definire). Senza un intervento dei patrioti, capitanati dalla banca, Alitalia sarebbe “costata enormemente di più allo stato” perché Air France nel 2008 non la volle per via delle “reazioni sindacali e per la recessione incombente” e non per “gli strepiti” di Berlusconi, rivela l’ex ministro dello Sviluppo che si è difeso anche su Telecom. Sarebbe finita allo straniero con anni d’anticipo: “Fu un modo per evitare quel che stava per succedere e che ancora rischia di succedere”. Passera ha nuovamente bocciato l’operazione dei soci italiani su Telco, convinto che né Telecom né Telefonica, “oberate di debiti”, “saranno in grado di assicurare gli investimenti [infrastrutturali] che ci vorrebbero”.
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