Le ultime ore del senatore B.

Salvatore Merlo

La decadenza è per lui uno di quegli eventi così intrattabilmente, spigolosamente, certi, che ieri non sapeva bene nemmeno dove metterlo nel quotidiano possibilismo della sua vita. “Non è più questo che mi preoccupa”, s’è confidato Silvio Berlusconi, nel giorno in cui la Giunta del Senato lo avvia verso quell’espulsione che si consumerà tra nove giorni, nella seduta plenaria di Palazzo Madama. Così, con Mariarosaria Rossi, l’assistente e senatrice, e con l’onorevole (e avvocato) Niccolò Ghedini, il Cavaliere, inquietato dalla baldanza delle procure che potrebbero voler esibire il suo scalpo nella gogna del carcere, ha fatto uno strano, per lui, esercizio di rassegnato fatalismo.

    La decadenza è per lui uno di quegli eventi così intrattabilmente, spigolosamente, certi, che ieri non sapeva bene nemmeno dove metterlo nel quotidiano possibilismo della sua vita. “Non è più questo che mi preoccupa”, s’è confidato Silvio Berlusconi, nel giorno in cui la Giunta del Senato lo avvia verso quell’espulsione che si consumerà tra nove giorni, nella seduta plenaria di Palazzo Madama. Così, con Mariarosaria Rossi, l’assistente e senatrice, e con l’onorevole (e avvocato) Niccolò Ghedini, il Cavaliere, inquietato dalla baldanza delle procure che potrebbero voler esibire il suo scalpo nella gogna del carcere, ha fatto uno strano, per lui, esercizio di rassegnato fatalismo, un’ammissione che forse occulta la segreta speranza d’una via di fuga nel voto segreto del 14 ottobre. “Subisco un’ingiustizia”, ha detto, “ma va bene, va bene tutto”, si può sopportare la violenza degli arresti domiciliari, persino l’umiliazione della decadenza, chissà, “ma il carcere però no, a tanto non possono voler arrivare nemmeno quegli irresponsabili, perché si sfascia tutto”.

    Scuro in volto, Ghedini, adatta il suo corpo donchisciottesco a una postura ombrosa e contratta di fronte al suo Capo, non condivide il fatalismo, vorrebbe salvare il Cavaliere, ma vorrebbe farlo a modo suo, secondo una grammatica esplosiva che Berlusconi sembra aver messo in un angolo, come le cose che si scartano, che si vogliono annullare, nessuna manifestazione, nessuna contrazione violenta, niente spasmi, né di piazza né in Parlamento.
    “Il boia non s’illuda”, dice Renato Brunetta, “sta rotolando il titolo di senatore, non la testa dell’uomo e del politico”. Eppure la tragedia dell’espulsione, nella lunga seduta della commissione per le elezioni, dopo un avvio serioso, in cravatta senatoriale, sempre più ha preso un contorno farsesco, toni da commedia pecoreccia, “tutto quello che potevano sbagliare oggi l’hanno sbagliato”, dice il senatore del Pdl Andrea Augello. E si riferisce al grillino Vito Crimi che, dal chiuso della camera di consiglio, pubblica su Facebook una foto del Cavaliere accompagnata da sguaiate allusioni sugli infortuni viscerali d’un corpo senile, roba da anatomia patologica, da film con Alvaro Vitali, tra flatulenze e prolassi muscolari, mentre un tal avvocato, legale del senatore che subentrerà al posto del Cavaliere, un uomo del centrodestra, in Aula, in un clima ormai surreale, insisteva, con qualche sgrammaticatura, inciampando nei congiuntivi, sull’opportunità di far decadere Berlusconi, cioè il leader del partito cui appartiene il suo assistito. “Sembrava uscito da una commedia di Nino Martoglio, ‘Civitoti in Pretura’”, racconta ancora Augello, “dal punto di vista procedurale, per tacere dell’estetica, è stato un disastro”. E dunque, nell’ineluttabile sfacelo, una sfumatura certo non di vittoria, ma di riscatto, un po’, sì. La corte esplosa del Pdl si è abbandonata agli strepiti, “la decadenza è una mascalzonata” (Giovanardi), “una brutta pagina per la democrazia” (Lupi), e dunque falchi e colombe, hanno ritrovato così, per un attimo, intorno al malconcio Sovrano, se non un sentimento di reciproca solidarietà almeno qualcosa che dia un senso al loro stare insieme.

    Ma nel Pdl si vive sempre una vita di clan, un casereccio, petulante, spirito di rissa. Mentre un nuovo gruppo di falchi si condensa attorno all’ex ministro Raffaele Fitto, nel gruppo dei vincitori c’è chi vorrebbe consumare vendette contro gli sconfitti Verdini e Santanchè. Angelino Alfano è andato a sedersi, ancora, di nuovo, per il secondo giorno consecutivo, sui divani di Palazzo Grazioli. E al Cavaliere, stanco, ha finito d’esporre le nuove geometrie, i suoi piani, “non dovremmo presentare il simbolo di Forza Italia alle prossime elezioni europee. Il nostro marchio, presidente, è il Pdl”. La successione è avvenuta, per attrito morbido, qualcuno usa l’espressione parricidio, ma Berlusconi non sembra dolersene troppo (ma chi può dirlo?), il colpo di grazia filiale lo ha liberato dagli incessanti tormenti della paternità. E lui si prepara ad accontentare Alfano, per quel che può, e vuole. E’ ancora il padrone del casato, e per Alfano è un elemento indispensabile della nuova costruzione, “non si raccolgono voti se passiamo per traditori”, confessano i diversamente berlusconiani. E poi ci sono i quattrini d’un partito che ha vissuto all’ombra del potere finanziario del suo padrone, l’ultimo assegno staccato dal Cavaliere, 17 milioni di euro, risale a giugno, e quei soldi stanno per finire. Alfano ha bisogno di Berlusconi. “Lui continuerà a comandare anche dopo che sarà morto”, dice Carlo Freccero, come Lenin nel mausoleo, attraverso un codice, un’emanazione, una luce immortale e un conto in banca.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.