Il pupone aeternus
A un certo punto, c’è una voce che si alza dalla panchina della Roma: “Francescooo… Francé… Capitano… tu non correre”. Riposati un po’. Rifiata. Trentasette anni non sono troppi per giocare a pallone da numero uno, ma lo sono per sprecare energie quando sei sul 4-0. Ci sono molti modi di invecchiare sui campi di calcio. Per Totti hanno scelto quello della divinità carnale: uno che deve esserci, deve parlare, deve toccare i compagni, deve incutere paura negli avversari. Però va preservato e custodito. Devono correre gli altri, lui fa girare la palla e la squadra. Lui è il perno umano e pallonaro.
A un certo punto, c’è una voce che si alza dalla panchina della Roma: “Francescooo… Francé… Capitano… tu non correre”. Riposati un po’. Rifiata. Trentasette anni non sono troppi per giocare a pallone da numero uno, ma lo sono per sprecare energie quando sei sul 4-0. Ci sono molti modi di invecchiare sui campi di calcio. Per Totti hanno scelto quello della divinità carnale: uno che deve esserci, deve parlare, deve toccare i compagni, deve incutere paura negli avversari. Però va preservato e custodito. Devono correre gli altri, lui fa girare la palla e la squadra. Lui è il perno umano e pallonaro.
Il calcio adora le storie degli over 35 che non smettono, dei vecchi che resistono ai giovani, dei grandi che restano per raccontare ancora la loro grandezza: sono corpi che non deperiscono, sono soprattutto personalità che si cementano. Provate a pensarci un secondo: ma quali sono i giocatori che continuano all’infinito? Le icone. La durata è direttamente proporzionale al loro carattere e alla loro importanza. Zoff, poi Franco Baresi, Beppe Bergomi, Roberto Baggio, Paolo Maldini, David Beckham: tutti leader e tutti longevi. E’ così anche ora. Non trovi peones del pallone che ce la fanno. Trovi pezzi grossi. Totti, appunto. Del Piero, Zanetti, Giggs, Raúl, Henry. Non tutti resistono allo stesso modo e con lo stesso grado di stress da sopportare. Tutti, invece, reggono perché hanno ancora qualcosa da dire ai compagni e alla palla. Cambiano i campionati e i livelli di difficoltà, non i motivi che spingono a rimandare ancora un po’ il passaggio all’altrove del pallone: panchina o scrivania che sia.
Ovvio che il caso più incredibile oggi come oggi sia Totti. S’è letto e s’è scritto, però conviene leggere e scrivere ancora. Perché Totti fa categoria a parte. E’ ancora quello attorno al quale vengono costruite le squadre. L’anno scorso fu una dannazione, quest’anno è una benedizione. Totti smette di correre dopo l’urlo della panchina perché c’è chi lo fa per lui: tutti gli altri. Non è soltanto un riguardo istituzionale, è un’idea di gioco. Totti che firma il prolungamento del contratto per altri due anni è uno che sa ancora che può essere il centro dell’idea di Roma. Sfottano pure gli altri, ma così è. E’ il viale del tramonto che è cominciato già da tempo, ma che per lui è più lungo che per altri: un piano inclinato ma meno inclinato. L’inesorabile avvicinamento alla fine calcistica procede con calma: non c’è fretta quando ce la fai, non c’è fretta quando hai ancora più voglia di molti altri di essere il capitano anche quando ti fai la doccia o metti la divisa ufficiale con giacca e cravatta. Totti percorre il suo tragitto da mito. Lento perché la lentezza allunga i tempi e pure la vita da sportivo. Ogni partita è uno stop e ogni stop è un pezzo di storia ancora da raccontare: gol, assist, gloria, dito in bocca, dediche ai figli. Cambiato senza essere diverso. E’ se stesso invecchiato. Allora combatterà, lotterà, s’arrabbierà, segnerà. Una volta, non molto tempo fa, l’abbiamo detto. Lo ripetiamo perché anche in questo non si può cambiare lo spirito: Totti farà Totti, sarà Totti, cioè Roma e la Roma, il capitano di una squadra e anche di un’èra. Perché il suo essere l’equazione con risultato zero di una squadra e di una città lo rende universale e collettivo. Chi non è tifoso della Roma lo rispetta per la sua scelta di essere ciò che è stato per tutti questi anni: il patriota di un mondo fatto di senza patria. La chiamano bandiera, con quel tocco di nostalgia in grado di ammazzare il romanticismo racchiuso nella volontà di rimanere a ogni costo a casa propria, per farla diventare grande come mai. Totti bandiera è un’ovvietà che non esalta Francesco: lui è un patrimonio, che è la stessa cosa, ma molto più ampia. E’ l’invidia di chi non ha un indigeno che parte dalle giovanili e arriva a essere il capitano di una squadra che rivince lo scudetto dopo quasi vent’anni. Bandiera può diventarlo quasi chiunque (quasi chiunque). Patrimonio no. E Totti è inimitabile adesso e chissà per quanto.
La domanda che si fa Roma ogni volta che ricomincia una stagione è più o meno questa: quanto durerà ancora a questi livelli? Perché diciamolo, tottiani o antitottiani che si sia, nessuno può non riconoscere che solo un campione dura così a lungo a questi livelli. Sono anni che mantiene rendimenti costanti. Sono anni, soprattutto, che gli abbiamo attribuito la definizione di vecchio, ma se non ci fosse stato il compleanno tanto pubblicizzato e tanto sbandierato in pochi saprebbero davvero quanti anni ha. Sai che è grande, che sta per finire, ma non ti chiedi quanto tutto questo corrisponda a un numero. La sua èra è talmente lunga che da tempo ha messo in cantina il ricordo del principe Giuseppe Giannini, anche lui romano e romanista a vita o quasi, ma incapace di trasformare in Gianninismo la sua stagione pallonara. Totti invece ha creato il Tottismo, un genere specifico e definito dalla sua incredibile capacità di personificare il duello, il confronto, lo scontro. Totti è la Roma anche quando è infortunato, anche quando è squalificato. E’ il capitano al quadrato, padrone della fascia anche se magari un giorno quella fascia è sul braccio di Daniele De Rossi. Ricordate il 2009, quando si infortunò e rimase fuori per tutta la stagione? Ecco, la Roma riuscì ad arrivare a fine campionato appaiata all’Inter nella lotta per lo scudetto. Totti non c’era, eppure era come se ci fosse. Era come se la squadra giocasse per arrivare al giorno del suo rientro pronta per consegnargli la possibilità di combattere per vincere. I giornali, le radio, la curva, il tifo alimentano tutto questo. Perché è il capitano di una squadra, e pure di mezza città. E’ una guida, un guru involontario.
Javier Zanetti non è così. Quarant’anni compiuti e l’unico infortunio vero alla fine della carriera lo consegnano a un’altra categoria. Quella del simulacro. E’ un eroe contemporaneo, un senatore a vita del pallone. La differenza sta nella moralità, oltre che nel ruolo. Zanetti è stato bravo, buono, altruista, corretto. Zanetti è tutto questo anche oggi che sta lavorando per tornare. L’esempio non sta solo nell’impegno sul campo, ma pure nei comportamenti. E’ il protagonista di una fiaba, il Superman dello sport: bravo ragazzo e infinito lottatore. Poi c’è quella storia dei chilometri fatti. Perché Javier è stato corsa per tutta la carriera. A lui la panchina non potrebbe dire “non correre” perché ne annullerebbe la ragione sociale, ne comprometterebbe il mito. Javier è e sarà sempre quello che non si ferma, quello che rincorre l’avversario sulla fascia, che recupera e si lancia di nuovo in avanti. Dicono: ce la farà ancora? La risposta è sì, perché altrimenti avrebbe smesso. Non ha bisogno di regali, di stipendi, di contratti. Vuole giocare e giocherà. A differenza di Totti è un vecchio la cui presenza in campo non serve a trascinare il gruppo, quanto ad aiutarlo davvero. Il vero fenomeno, lo definì Claudio Cerasa in un monumentale ritratto di qualche tempo fa: “E’ un po’ più difficile diventare un fenomeno di capitano e riuscire a essere insieme, contemporaneamente, un po’ come il grande Giacinto Facchetti, un po’ come Sandro Mazzola (superato da Zanetti come presenze ufficiali), un po’ come Roberto Carlos, un po’ come Giuseppe Bergomi (…) specie dopo aver passato dodici anni (dodici, sono davvero tanti) attraversando ogni zona del campo, vincendo una coppa Uefa, con Gigi Simoni, quasi da terzino sinistro, giocando da fantasista (è successo in una memorabile partita contro l’Udinese in cui Zanetti era evidentemente molto più forte di Zinédine Zidane) con l’incompresa Inter di Héctor Raúl Cúper un allenatore che per quasi due anni, se Zanetti non giocava a centrocampo, al minuto numero 75, lui lo prendeva e lo sostituiva con l’enigmatico Nelson Vivas. Andava sempre così, e mai una protesta. Zanetti capiva; e poi usciva. Perché la figura di capitan Zanetti è un ottimo esempio per provare a spiegare il modo in cui un po’ tutti gli allenatori interisti degli ultimi anni hanno provato a risolvere la crisi di leadership sulla sinistra (…). Solo che Zanetti, che anche con Mancini – per colpa di un brasiliano di nome Maicon – ha dovuto adattarsi un po’ a destra, un po’ a sinistra, un po’ in difesa, un po’ a centrocampo, ha sopportato tutto, si è adeguato a ogni situazione e pur apprezzando i pittoreschi tentativi dei giornali di colore rosa di voler trovare, ogni anno, un nuovo vero leader dell’Inter, lui in tutto questo tempo è stato l’unico esempio di acquisto di coppia riuscito dalle parti di Appiano Gentile”.
Zanetti tornerà in campo tra poche settimane e sarà la vittoria dell’antinostalgia. E’ questo il bello dei vecchietti che giocano ancora: allontanano quel vizio antico del “quanto era bello il calcio di una volta”. Se un grande smette la sua memoria sopravanza l’attualità, se invece resta contemporaneo sospende il giudizio sul passato perché continua ad appartenere al presente. Javier è l’esempio: si parla del lui di oggi o del lui che cominciò nell’Inter di metà anni Novanta? Zanetti è un personaggio da alta definizione pur essendo la prosecuzione genealogica dei grandi del passato. Sia benedetto, allora. Lo è già dagli interisti, lo è in realtà anche dagli altri. Perché questa è un’altra caratteristica degli anziani del pallone: scavalvcano la semplice appartenenza a una parte. Non c’è odio per uno che gioca a 40 anni. Non c’è antipatia per chi non si arrende all’età. La gente vuole passione, vuole tecnica, vuole qualità. Tutta roba che appartiene a chi non molla, a chi si mantiene, a chi non ha ancora accettato l’idea che si debba smettere quando tutti s’aspettano che tu lo faccia.
Guardate Alessandro Del Piero. Juventino di tutti. Pensate che interisti, milanisti, fiorentini, napoletani lo possano odiare? No, e non è per quella storia del Sydney. Del Piero è juventino a prescindere dalla maglia che indossa nel weekend. L’antipatia derivante dalla squadra che rappresentava è scemata via in maniera direttamente proporzionale all’aumento degli anni. Come se a una certa età si diventasse patrimonio di tutti e non di una squadra. Se poi quella squadra ti molla, il processo diventa anche più facile. Ma Del Piero che gioca ancora è anche di più. E’ la resistenza alla logica della bandiera a ogni costo. Chi pensa che l’Australia sia una pensione d’oro non ha capito Alex. Sarebbe rimasto alla Juve, ovvio. Sarebbe andato anche altrove in Europa. Voleva giocare e scoprire. A quasi 39 anni in campo perché le gambe tengono, perché il fisico c’è, perché la testa dice che non hai ancora smesso di essere un giocatore. Non è pensione questa. E’ un’altra vittoria contro i troppi che non l’hanno capito. Del Piero gioca sempre perché ha il suo pubblico. Italiano e straniero. E’ uno che ha subìto il rancore dei suoi simili e dei suoi superiori, non della gente. Dagli spalti, dalla tv, dai social network Alex prende l’opposto dell’astio. Che siano juventini tristi o giapponesi ancora innamorati di lui. Conviene ricordarsi sempre del 5 novembre 2008. Cinque anni fa, Del Piero ne aveva 34 ed era già al di sopra dell’età media del ritiro dal calcio giocato. Vecchio, quindi. Senza paura di dirlo, senza timore delle parole. Fu la notte del Santiago Bernabéu, di Real-Juventus di Champions League. Doppietta di Alex, gol su azione nel primo tempo e gol su punizione nel secondo: 0-2. Poi l’ovazione: tutti in piedi per lui al momento del cambio. Perché esistono campioni di tutti, anche degli avversari. Sono vecchi, per forza. Sono quelli che ispirano monologhi come questo di Fabio Caressa: “L’ho visto volare leggero come un angelo, quando aveva la faccia da putto. L’ho visto inventare un tiro che è diventato solo il suo e lanciarsi tra i grandi ancora ragazzo. L’ho visto segnare con la sua squadra soprattutto nelle partite che contavano, negli scontri diretti, nelle finali in giro per il mondo. L’ho visto arrabbiarsi e digrignare i denti se c’era un principio da difendere e chinare la testa se il suo bene non era quello dei compagni. L’ho visto lottare contro gli egoismi, anche contro i suoi, perché crescendo ha capito cosa voglia dire il gruppo. L’ho visto parlare di valori e comportarsi di conseguenza. L’ho visto inciampare e poi cadere. L’ho seguito mentre si rialzava a fatica. L’ho visto lottare contro allenatori e mal di pancia nervosi. L’ho visto amare la maglia azzurra e non riuscire a farlo capire. Poi l’ho visto portarci a Berlino. L’ho visto capire che le cose cambiano, modificare il gioco, segnare 11 gol di seguito su rigore se il rigore poteva essere il massimo da dare alla squadra in quel momento. L’ho visto adattarsi dove non voleva, sacrificarsi facendolo ricordare. L’ho visto segnare una punizione da artista e un rigore da ragioniere. Sono contento di aver visto Alex Del Piero fare tutte queste cose”.
L’età è un valore aggiunto, crediamoci. Abbiamo bisogno di giovani da lanciare, da provare, da sverginare calcisticamente. Abbiamo bisogno dei vecchi che gliel’insegnino perché possono essere più giovani dei ragazzi. Come nella vita, così nel pallone la generazione che crea il tappo sta in mezzo. E’ la massa che frena la crescita, non l’eccezione. L’esempio è a Manchester: Ryan Giggs non ha mai fermato l’arrivo di un ragazzo più veloce, più fresco, più brillante. Sta lì da sempre. Sta lì a quasi 39 anni: giocatore e anche nello staff dell’allenatore. Sta lì perché ha ancora qualcosa da dare e da dire. Una palla filtrante in mezzo alla linea dei difensore avversari. Un cross. Sì, soprattutto un cross. Con la palla che gira, gira, gira. Il piede non ha età, a volte neanche le gambe.
Il Foglio sportivo - in corpore sano