Quarantenni Spa
Poi finalmente arrivano i cosiddetti giovani, di solito quaranta o cinquantenni, e che cosa fanno? I rivoluzionari? Non proprio. Gli audaci? Insomma. Gli innovatori? Neanche. I parricidi? Obtorto collo, e non quando poteva davvero costare la testa. Gli ideatori? Chissà. I portatori di una visione originale del mondo? Non al momento. “Antica sapienza democristiana”, titolano infatti i giornali davanti al tandem Enrico Letta-Angelino Alfano, e già l’idea della “antica sapienza” stride con il mito della gioventù salvifica che di solito circonda l’ascesa al potere del quaranta-cinquantenne.
Poi finalmente arrivano i cosiddetti giovani, di solito quaranta o cinquantenni, e che cosa fanno? I rivoluzionari? Non proprio. Gli audaci? Insomma. Gli innovatori? Neanche. I parricidi? Obtorto collo, e non quando poteva davvero costare la testa. Gli ideatori? Chissà. I portatori di una visione originale del mondo? Non al momento. “Antica sapienza democristiana”, titolano infatti i giornali davanti al tandem Enrico Letta-Angelino Alfano, e già l’idea della “antica sapienza” stride con il mito della gioventù salvifica che di solito circonda l’ascesa al potere del quaranta-cinquantenne: uno che, grazie a un ricambio generazionale gentilmente concesso dai “vecchi” per ragioni non sempre sondabili o conquistato con la rete di sicurezza, dovrebbe poi plasmare il mondo nuovo. Dorothy Parker, nel 1923, in un racconto formidabile uscito sul Saturday Evening Post, parlava di “Nuova generazione Spa”: giovani che, scriveva, “hanno pensato di sfruttare bene l’idea” e non ritengono “che l’esser giovani sia una di quelle cose che comunque capitano a tutti”; giovani che, soprattutto, “pensano ancora di essere materiale da prima pagina”.
I “ragazzi cresciuti”, il “padre sconfitto”: sono giorni che il tema del “ricambio generazionale” (vero o presunto, compiuto o incompiuto) riempie le menti e le pagine, come corollario del berlusconicidio. Motivo: la “V” di vittoria innalzata a favor di telecamera da Enrico Letta, ri-fiduciato premier post quarantenne (quanto ai voti, si vedrà), e il mezzo sorriso-mezzo cruccio di Angelino Alfano, quarantenne non più fedelissimo del Cav. che, scrivono i giornali, “ha mostrato di possedere il quid” che il Cav. non vedeva fiorire in lui (quanto ai voti, si vedrà). Repubblica a un certo punto fa il triplo salto mortale e parla degli altri, i “quarantenni sprecati”, i disoccupati che la grande o piccola occasione non l’hanno avuta, quelli che la consigliera Rai Benedetta Tobagi, anche editorialista su Rep., descrive “frustrati e in preda a un profondo senso di vergogna” per “non avercela fatta”. Gente non rappresentata negli spot che ritraggono “il segmento privilegiato”, i quarantenni che hanno avuto tutto. Ma che succede se uno ha avuto tutto e del tutto non sa esattamente che cosa farsene?
Il quid. Intanto qui si apre il primo problema: quando deve mostrarlo, questo quid, il “giovane” giunto in vetta magari dopo aver chiesto che i quasi anziani si facessero da parte? Nel 2007 uscì un manifesto sul tema, ideato da Luca Josi e chiamato “patto generazionale”: alcuni quaranta-cinquantenni, in media illustri e trasversali (da Alessandro Profumo a Gad Lerner a Giorgio Gori a Giovanni Floris a Giorgia Meloni a Daniele Capezzone a Gianni Cuperlo a Matteo Renzi – questi ultimi non ancora rivali nel partito) firmavano una dichiarazione per dire che a sessant’anni non avrebbero accettato cariche apicali in politica o in economia, o le avrebbero lasciate a un giovane, dimettendosi. Il patto era bifronte: chiediamo spazio, da un lato, in nome di una “comunità” in cui nessuno si senta “insostituibile”, ma dall’altro togliamo anche l’alibi ai nostri fratelli minori, gli allora trentenni e ventenni: “Sappiamo che un’indubbia gerontocrazia ha dato vita a generazioni che hanno rimosso e allontanato ogni avventura di responsabilizzazione, e che sono cresciute nell’idea di essere ancora giovani, ancora protette e inadeguate, magari all’età di quarant’anni. E’ in questo modo che una società, come figlia di genitori morbosamente protettivi, non si sviluppa e ritarda il suo confronto con la realtà… Per questo, forse, può servire accendere nel nostro paese un comportamento, un’attitudine e obbligare una generazione a svegliarsi. Darle un segno per spiegare che il problema del suo futuro, la coperta o il tappo, non saremo noi”. Svegliarsi, dunque, ma per fare cosa?
Gerontocrazia come alibi, quasi quasi pare anche un po’ vero. Non si sa come si comporteranno i fratelli minori, i trentenni di oggi, ancora in gran parte lontani dai posti di potere. Ma la generazione che chiedeva spazio è lì, sotto gli occhi. Finalmente in prima fila. Non solo in politica, dove Alfano e Letta si circondano di coetanei (non per questo campioni di fantasia al potere). Non c’entra l’intelligenza né la preparazione. Hai avuto il ruolo, chiesto tra le righe e a forza di tiritera sul “ricambio” anche detto “rottamazione” (ma almeno Renzi, con tutti i difetti di Renzi e con tutta l’incognita sul Renzi futuro, ha fatto la battaglia contro il volere dei “vecchi” e in prima persona). Hai avuto il ruolo, dunque, ma l’ambizione, dopo, non è quella dell’innovatore. L’indole non è quella del combattente. Piuttosto, è quella del portavoce, anche bravo portavoce, ma eterno portavoce (niente di male, ma non se uno si presenta come leader politico). La generazione degli eterni portavoce si trincera dietro l’idea dell’essere “gruppo” e “squadra”, cose di per sé non incompatibili col potere, e ne fa una cifra distintiva, tanto è maniaca dell’open space – ufficio comune, pensiero comune – o del raduno in abbazia dove fare “spogliatoio” (detto e fatto da Enrico Letta, mesi fa, appena insediato. E pensare che nel 1999, intervistato da Mattia Feltri per questo giornale, lo stesso Letta diceva di non avere il mito della “collettività” del successo). L’open space è diventato il simbolo dell’ambizione collettiva e trasversale, ma anche del rischio inconcludenza: tutti insieme, tutti a guardare sul computer sempre più “ultimo modello” il video comico di Fiorello e di Maurizio Crozza, tutti a scambiarsi consigli e appuntamenti per il calcetto (o Subbuteo), tutti a stemperare come fossero peste la rabbia e l’invidia, brutte cose del secolo scorso (purtroppo sempre presenti nell’animo umano), ma anche tutti un po’ depotenziati, impauriti, impossibilitati dal benessere e dall’amicizia-melassa, oltreché da un fondo di furbizia, a essere davvero competitivi, davvero sorprendenti, davvero diversi, davvero coraggiosi. Meglio accoccolarsi in quell’eterna scuola (open space, appunto) dove il professore è l’unico nemico, ma anche l’unica sicurezza.
Tom Wolfe, nel lontano 1963, quando molti degli “arrivati” di oggi non erano neanche nati, prendeva in giro, oltre alle “baby aerodinamiche color caramella”, titolo di un suo reportage sui giovani surfisti californiani, i quarantenni di successo, maniaci della domenica nella casa d’aste di New York. La casa d’aste come piccolo vizio d’appartenenza: Tom Wolfe li descriveva tutti stipati a rimirare “comò sinuosi e coi piedi svasati”, “peluche giallo mostarda” e “uova pasquali di malachite”, tutti ugualmente settari verso chi non faceva parte del gruppo ristretto. Ma i quaranta-cinquantenni di successo del 2013 non sono “gruppo” in quel modo: si mimetizzano, si mescolano, fanno lobby ma lasciando la porta aperta al non inserito (non sia mai che possa essere utile domani), mai netti, mai taglienti, mai sfrontati. Arrivano nella stanza dei bottoni, stanza appunto gentilmente concessa, e a quel punto gentilmente si accomodano, si guardano intorno, cercano se possono di non risaltare troppo, di non disfare troppo, di non allarmare troppo chi c’è intorno e chi c’era prima. Per individualismo, da un lato; per insicurezza, dall’altro. Per contingenza: chi cresce nell’idea che le possibilità ci sono, ci saranno e se non ci sono una rete di salvataggio spunterà fuori, non ha in genere, purtroppo, il sacro fuoco dello spaccatutto. Refrattari al combattimento visibile, i quarantenni che sono arrivati in cima non vogliono cancellare il risultato della loro diplomazia incessante: sono in buoni rapporti con l’universo mondo, piacciono più o meno a questo e a quello, anche se con riserva o tiepidamente, e non vogliono rischiare di far finire nel bottino di guerra altrui il proprio “secondo tempo”, per dirla con Max Pezzali, ex cantante degli 883, poi solista e alfiere della provincia indolente e nostalgica degli ex ragazzi anni Ottanta (“finché un bel giorno mi sono accorto che bisognava decidere / qui c’è un casino, un casino di cose da fare / … c’è il mio secondo tempo e non voglio perderlo”).
A destra come a sinistra avanzano quarantenni che vogliono mantenersi nella terra di mezzo in cui c’è ancora qualcuno che si prende la vera responsabilità (e la vera gloria). Che sia ammirazione, rispetto, paura o pigrizia, il risultato è lo stesso. Alla fine è come in “Essere John Malkovich”, il film di Spike Jonze dove il protagonista apre una porta e si ritrova nel cervello dell’attore (e però poi come ne esci?). Schiacciati da un leader carismatico? Non sempre. Il quarantenne al vertice spesso non sente il bisogno, non sente la spinta, non ha tutta questa voglia di dire “non ci sto” oppure “sono qui, e adesso balliamo”. Poi magari sferra il colpo, a patto di essere vicino all’uscita di sicurezza.
Anche la sindrome della cuccia è trasversale. Nel Pd sono diventati leggendari i “giovani” e ventennali seguaci di Massimo D’Alema, che sono sempre lì lì per spingersi oltre, e un po’ lo fanno, ma poi chissà (“forza”, viene da dire all’ottimo Matteo Orfini, c’è ancora tempo per fare la rivoluzione. “Coraggio”, viene da dire a Gianni Cuperlo che però, essendo già ultracinquantenne, non rientra nella categoria del giovane al vertice senza essere vertice, anche se forse ne è appena uscito). Il quarantenne Daniele Capezzone, poi, ex “giovane prodigio” radicale (tutti si chiedevano: Marco Pannella mangerà il figlio o no?, ma poi non ce n’è stato bisogno), una volta trasferitosi nel Pdl è diventato portavoce al cubo.
Dov’è finita la precedente grinta polemica non si sa (protesta anche Dudù, il cane di Francesca Pascale, che secondo i cronisti abbaia solo a lui). Con tutti gli errori e i limiti successivi, i D’Alema e i Veltroni non avevano la caratteristica tipica dei quarantenni “di governo” di oggi, appagati prima di cominciare: il loro “padre” Enrico Berlinguer è scomparso quando ancora non erano in battaglia, ma la battaglia poi l’hanno fatta, anche cruenta, con tanti saluti ad Alessandro Natta e ad Achille Occhetto. (Enrico Letta però non sopporta la gente che dice “eravamo meglio noi”, e una volta, molti anni fa, criticò un articolo di Eugenio Scalfari in cui Scalfari se la prendeva con i “giovanotti”, esaltando le generazioni precedenti – non ha tutti i torti, Letta, ma perché allora la nuova generazione fatica a comportarsi da nuova generazione?).
La sindrome prevede anche che il quaranta-cinquantenne incarni la “grande speranza” ma che poi, una volta decollato – non si sa perché – metta la guida automatica senza davvero pilotare. Nei dintorni dell’Economia & Finanza il genere presenta diversi esemplari. Pietro Scott Jovane, l’internazionale e tecnologico ad di Rcs, ex prodigio Microsoft, molto apprezzato da Jaki Elkann, voleva fare la rivoluzione digitale, ma si ritrova con l’affaire-Corriere della Sera che gli scoppia tra le mani, e ancora non si è capito come ne uscirà. Ha avuto tutto – che vuoi di più?, a quarant’anni, gli dicevano – ma non è detto che riesca a combinare davvero quel che ci si aspettava (Via Solferino ribolle, tutto è possibile, ma al momento la rivoluzione digitale latita). E Jaki Elkann? “No, lui è diverso”, dicono gli esperti del ramo, come se si parlasse di un’istituzione secolare, e questo già dice molto, visto oltretutto il fatto che Jaki è giovane davvero (trentenne, dieci anni meno degli altri). “Lui ha Sergio Marchionne”, dicono, “l’innovazione non ha bisogno di farla in prima persona”. Resta che Jaki, quando avrà quarant’anni, probabilmente sarà come ora, giovane-non giovane, mai sopra le righe neanche per idea, uno che ha molto studiato e poco gozzovigliato, motivo per cui non ha il carisma viveur di zio Gianni (nel bene e nel male) né la vena pazzoide del fratello Lapo (nel bene e nel male). Fatto sta che attorno alla Fiat di Sergio Marchionne, innovativa nel bene e nel male, spunta un altro rompicapo: che cosa sta tenendo in stand-by la vena rinnovatrice di Mario Calabresi, direttore della Stampa? Ecco infatti, al vertice del quotidiano torinese, un quarantenne apprezzatissimo già a trenta, promessa del mestiere già a venticinque: cronista parlamentare all’Ansa, poi alla Stampa, poi caporedattore a Repubblica, poi inviato per il mondo, nell’America traumatizzata post 11 settembre, poi autore di un libro applaudito da pubblico e critica. Calabresi, al massimo del successo, torna alla Stampa da direttore. E che cosa succede? Prodotto di gran qualità, establishment torinese felice e ricambio stilistico e di approccio che resta, inspiegabilmente, appena al di sotto della soglia di visibilità (ma un Calabresi rivoluzionario verrà fuori più avanti?). Inspiegabile anche il caso di Mario Giordano, ex “Pinocchio” del centrodestra, ex direttore del Giornale e ora direttore di Videonews, quarantenne che a trenta era considerato un guastafeste implacabile e che a quaranta si è situato nella categoria del “direttore istituzionale” (ma un Pinocchio-Giordano tornerà a galla più avanti?). Ai vertici dell’editorialistica “giovane”, poi, si erge, dalle pagine del Corriere della Sera, Aldo Cazzullo, ma anche in questo caso ci si chiede come e quando Cazzullo farà emergere la vena spaccatutto del “giovane” di successo, attitudine al momento oscurata dal profilo predominante da “padre della patria”. La televisione contribuisce a rendere più intricata la vicenda. Qualche giorno fa Barbara Palombelli, su questo giornale, punzecchiava i quarantenni conduttori televisivi, a suo dire avversari di Michele Santoro soltanto in teoria (scrive Palombelli che “Michele può stare tranquillo, il successore ancora non si vede… i nuovissimi aspiranti hanno un altro stile. Acchiappano primi piani, azzannano microfoni, giocano da solisti assoluti. Mai dividerebbero con altri la sovranità dello studio. Michele no, tiene sul trono accanto a lui l’unico che potrebbe davvero essere il suo alter ego: Marco Travaglio. Si è messo in società con il potenziale avversario: diabolico ma efficace… I giovanotti di oggi, purtroppo, hanno fretta: non hanno dubbi, non coltivano il dono della semplicità…”).
“Ripudiate il padre, non fate i Peter Pan”, diceva l’altra sera Aldo Busi ai giovani berlusconiani ospiti a “Piazza Pulita” (esortazione poi in parte superata dalla realtà). “Cari giovani, pure voi però dovete farvi avanti”, diceva Franco Marini quando ancora, nel Pd, non si parlava di “rottamazione”. Ma poi? Il problema appunto è il poi. Che sia il carattere o il fato, spesso il quaranta-cinquantenne implode. Capitò a Matteo Arpe, l’ex pupillo di Enrico Cuccia (generazione di grandi pupilli, anche). Un tempo lanciato nel mondo degli enfant prodige in Capitalia, poi bloccato da Cesare Geronzi, da anni Arpe, famoso per la sua contrarietà alle fusioni bancarie e per l’attenzione “all’eticità”, è scivolato indietro, anche se al vertice di Sator. Colpa sua? Colpa degli altri? Resta che la grande speranza Arpe non è sbocciata, pur tornando alla ribalta per un attimo, nel 2008, per i suoi studi sui numeri primi, allora noti per via del libro di Paolo Giordano (si aggirano soli, i numeri primi, vicini senza potersi toccare, a differenza dei “giovani” che fanno gruppo per forza e per lobbismo ben dissimulato). C’è anche chi non si sente affatto un quaranta-cinquantenne che non osa. Andrea Ragnetti, manager ex Philips, ex Telecom ed ex Alitalia (in Alitalia con risultati inferiori alla grancassa e alle aspettative) considera buon “consiglio di vita” la seguente frase, leggibile sul suo sito: “Don’t wait for life to give you the right circumstances. Go out there and create the circumstances that will make you happier”. E però poi qualcosa, in quell’ottimismo della volontà, dev’essersi inceppato.
Hanno avuto tutto in tanti, quarantenni e cinquantenni a cui magari va bene essere così: non graffiare, non cadere rovinosamente, non scontentare. Stare sicuri, restare a lungo, mantenere il trono: questo lo stato congeniale. Per fare altro e di più bisogna anche psicologicamente forzarsi. Letta ha in qualche modo fatto autocritica generazionale preventiva, nel suo discorso d’insediamento, quello dell’aprile 2013, parlando della “valle delle nostre paure di fronte a sfide che appaiono gigantesche”. E Alfano, nelle prime parole da segretario acclamato (ma non eletto), parlava di “generazione che deve riscattarsi da sola”. E però al momento della presa del potere octroyé, nell’aprile in cui sono diventati premier e vicepremier, il sentimento sottostante sembrava il senso di pienezza, come se quello non fosse il punto di partenza ma di arrivo. “Giornata storica della democrazia italiana”, ha detto Letta due giorni fa, dopo essere stato ri-fiduciato, con Alfano che gli dava “il cinque”, e ora ci si chiede come diavolo faranno Letta e Alfano, non esattamente due Napoleoni, a calarsi nel ruolo del condottiero che non guarda in faccia nessuno.
“Cooptazione”, dicono, che sarebbe soltanto uno dei modi (anche vecchio come il mondo) di salire al potere, nulla di grave di per sé, non fosse che spesso il cooptato, invece di spaccare il mondo, imporre almeno una propria visione del mondo e prendersi il ruolo senza chiederlo, si comporta come colui che si insedia e stop: niente più intemerate, laddove presenti. Nessuna voglia di farle, laddove non presenti. Nessun desiderio di dire qualcosa nel proprio modo, a costo di perdere quell’aria da bravo ragazzo ed essere criticato – perché è la critica che mina l’unanimismo, e peccato che l’unanimismo faccia a pugni con il concetto stesso di innovazione.
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