Un Hollande piccolo piccolo

Lanfranco Pace

Ha mancato pure la “rentrée”, il rientro dalle grandi vacanze, la riapertura delle scuole, quell’intervallo temporale che in Francia è rito nazionale, scadenza collettiva, palingenesi individuale. Non è un nuovo stato di grazia come i cento giorni in cui il popolo sovrano accetta di farsi fare di tutto dal presidente appena eletto, ma una pausa salvifica questo sì, un momento di sospensione del giudizio. Per chi governa, settembre è il più dolce dei mesi, i cattivi ricordi si stemperano nel languore delle vacanze appena trascorse e si crede più volentieri ai buoni proponimenti, alle belle promesse.
Bene.

    Ha mancato pure la “rentrée”, il rientro dalle grandi vacanze, la riapertura delle scuole, quell’intervallo temporale che in Francia è rito nazionale, scadenza collettiva, palingenesi individuale.
    Non è un nuovo stato di grazia come i cento giorni in cui il popolo sovrano accetta di farsi fare di tutto dal presidente appena eletto, ma una pausa salvifica questo sì, un momento di sospensione del giudizio. Per chi governa, settembre è il più dolce dei mesi, i cattivi ricordi si stemperano nel languore delle vacanze appena trascorse e si crede più volentieri ai buoni proponimenti, alle belle promesse.
    Bene. In sole quattro settimane François Hollande si è fatto di nuovo vedere alla luce dell’inadeguatezza, tel quel. La popolarità che a cavallo dell’estate stava leggermente risalendo perché in fondo piaceva il suo modo di stare sulla scena internazionale, in Africa e in Europa, di colpo è sprofondata: cinque punti in un mese, poco più di un francese su cinque gli dà ancora la sua fiducia.

    Non sarebbe un problema in sé, si è visto di peggio sotto i cieli della V Repubblica. Alla vigilia delle amministrative del 1983 anche François Mitterrand non stava messo bene e nel 1992, con la decomposizione del governo guidato dalla sua fedele Edith Cresson, toccò addirittura il minimo storico per un presidente in carica. Solo che era il grande vecchio, il padre del nuovo Partito socialista, l’architetto dell’Unione della sinistra, insomma un intoccabile. E nessuno si sarebbe mai permesso di metterne in discussione l’autorevolezza, semmai il piglio eccessivamente monarchico. 
    Con François Hollande invece è proprio una questione di autorità: in tanti si sono convinti che non ce l’abbia. Colui che si era candidato e aveva vinto con l’immagine di presidente “normale”, ora è visto come uno che sta lì per difetto, per mancanza di meglio. Eletto dunque non per carisma e appeal propri ma per la repulsione rancorosa e diffusa che suscitava l’allora presidente uscente, il luciferino Nicolas Sarkozy. L’interpretazione discount della funzione presidenziale evidentemente risuona come pura blasfemia tra gli stucchi, gli specchi e gli spessi tappeti di un’istituzione che piaccia o meno è più che mai la chiave di volta dell’intero sistema.

    Questo scarto tra l’essere e il dover essere, Hollande lo vive nell’interno e nel profondo. E se ne misurano gli effetti psicosomatici. Un tempo era un giovane affabile, brillante, che s’abbuffava in modo nevrotico, mangiava tartine e beveva champagne a raffica e altrettanto a raffica sparava battute feroci che lasciavano il segno. Poi la nuova compagna e i cosiddetti specialisti d’immagine lo hanno convinto a modificare se stesso, perché un uomo troppo rotondo, un grassoccio, non può avere allure presidenziale. Hollande si fa convincere, si frena, però diventa triste come la modella che accetta di sacrificarsi per la gloria della passerella ma quando sfila sogna piatti di pasta. Oggi si porta dentro lo sguardo da cane bastonato che hanno i goduriosi ravveduti. Se persino nelle circostanze solenni Sarkozy sembrava un frenetico esagitato come appunto stile Louis de Funès, Hollande anche quando è fra pochi amici, in comitato ristretto, ha l’espressione grave, immota e perennemente sorpresa di Michel Galabru, che di De Funès fu storica spalla.

    I collaboratori li bacchetta, non lascia passare nulla, li tratta da incompetenti magari perché sbagliano nel compilargli una nota: più che una manifestazione di sadismo tra enarchi, dell’allievo anziano nei confronti dei diplomati di fresco, è il segno che si sta sull’orlo di una crisi di nervi. 
    Infatti il presidente è nervoso, molto nervoso. Vero è che tutto è andato storto in questo settembre. La vittoria della Merkel ha reso la Germania più forte e conseguentemente la Francia più debole. Il dossier siriano, dove pure ha conquistato benemerenze, ha rischiato il finale alla dottor Stranamore: lo ha scritto anche Daniele Raineri sul Foglio di qualche giorno fa, che c’è mancato solo qualche ora a che Mirages e Rafales si ritrovassero nel cielo sopra Damasco da soli, senza gli americani, un inconveniente comprensibile se ci si continua a fidare di un Obama ormai nell’angolo.

    A ferire gravemente l’immagine presidenziale sono stati invece i drammatici errori di comunicazione in politica interna, i couacs, le polemiche infinite che hanno tenuto banco sulle tasse, sulla sicurezza. La colpa non è del solo presidente: i ministri, i suoi ministri, gli hanno dato una robusta mano. In violazione al vecchio e sano precetto secondo cui un ministro “ou il la ferme ou il démissionne”, tutti si sono amabilmente messi a rimbalzare da un media all’altro, creando una cacofonia che nemmeno in Italia.
    In rete i sostenitori del presidente si chiedono cosa aspetti a mandarli tutti a casa, a cominciare dal primo tra di loro, quel Jean-Marc Ayrault tanto telegenico quanto inutile che non vuole o non riesce a fare da scudo al presidente. Il fatto è che Hollande per essere tranchant dovrebbe rinnegare se stesso, la sua natura, i trenta anni passati a navigare tra le correnti del Partito socialista e a imparare quell’arte della sintesi fra opposti che lo ha reso indispensabile e portato fino alla segreteria.

    Il dubbio che qualcosa manchi al presidente devono averlo anche quelli del suo entourage, se è vero che per convincere i loro interlocutori abbondano in spiegazioni dettagliate, sempre sospette.
    Il ministro dell’Interno Manuel Valls, che è figlio di immigrati spagnoli e non ha quindi complessi in materia di immigrazione, che tra l’altro è un duro e per questo il socialista di gran lunga più popolare, dice che alcune etnie nomadi non sono integrabili, perché gestiscono traffici di ogni genere, obbligano i ragazzini a fare furti e scippi, fanno compravendita di bambine. I loro accampamenti sono pericolosi focolai di insicurezza che vanno quindi sgomberati, gli abitanti rispediti nei paesi di provenienza, per lo più Romania e Bulgaria. Il ministro dice cose su cui è d’accordo la quasi totalità dei francesi, critica giusto en passant il trattato di Schengen che ha aperto prematuramente e male le frontiere, non fa sparate antieuropee in genere mal viste dalla sinistra perbene, dalla sinistra che conta. Tanta prudenza non basta a evitargli di finire sulla graticola. Cécile Duflot, leader di Europa Ecologia e Libertà alleati dei socialisti, ministro della Giustizia territoriale e dell’edilizia popolare, accusa Valls di avere violato niente di meno che il patto repubblicano, in altri termini di marciare sulle terre dell’estrema destra xenofoba e razzista. Daniel Cohn Bendit che di EEL è padre nobile aggiunge del suo: Valls si sarebbe bevuto il cervello, parla dei rom come negli anni Trenta si parlava degli ebrei. Da Bruxelles le lobby delle benevole esigono che il ministro degli Interni smentisca se stesso.

    Hollande non poteva non entrare nel merito. Nel solito consiglio dei ministri del mercoledì dice che sì il problema rom esiste ma va affrontato con lo spirito di fratellanza e di solidarietà che sono tradizione costante e vanto della Francia e amen: il presidente si ripromette anche di dare lumi, in successiva allocuzione, sul modo corretto di intendere la nozione di patto repubblicano. Non si capisce cosa abbia voluto dire, è certo che lo ha detto molto bene. Consapevoli di aver poco in mano, i comunicatori dell’Eliseo si sbracciano: il presidente tiene in alta considerazione i ministri ma esige molto da loro, è autorevole perché quando parla lui, nessuno fiata, “personne ne moufte”, dicono. E ci mancherebbe.
    Chi si sforza di fare un’analisi alta della situazione dice che Hollande è vittima del male storico della sinistra: la progressiva perdita d’identità. Secondo il filosofo Marcel Gauchet, direttore della rivista Le Débat, è tramontata l’idea forte del mitterrandismo degli anni Ottanta: la speranza cioè di poter superare il socialismo attraverso l’Europa, di poter fare su scala continentale quello che non era più possibile nel quadro nazionale. Il risultato è che oggi la Francia è fra i paesi perdenti della globalizzazione e fra i paesi perdenti dell’europeizzazione. La disillusione è grande, dice Gauchet. E spiegherebbe la fuga in avanti in materia di diritti civili. La determinazione con cui l’Eliseo e la Guardasigilli Christiane Taubira si sono battuti per far approvare a tamburo battente una legge del matrimonio per tutti di cui nessuno, meno che mai i gay e i diversi in genere, sentiva impellente bisogno. La laicizzazione forsennata dell’insegnamento e della vita degli istituti scolastici imposta da un ministro dell’Istruzione, Vincent Peillon, che si è messo in testa di essere il Jules Ferry del nuovo secolo. Intervenire nella sfera dei diritti individuali, allargarla al massimo magari accompagnando il tutto con un soffio di vecchio anticlericalismo è una strategia già collaudata che piace all’opinione di sinistra, ai suoi elettori: è il repubblicanesimo che tenne a galla per un po’ Zapatero e i socialisti in Spagna. Ma sta mostrando i suoi limiti in Francia, dove l’esperienza storica della sinistra si è formata su un terreno più materiale, apertamente di classe: lavoro, salario, reddito, stato sociale, in una parola ridistribuzione della ricchezza, cioè soldi.

    Passata l’ubriacatura sulle nozze gay, infatti il presidente si incaglia sulla questione della pressione fiscale, su chi debba pagare cosa e quanto. Il ministro dell’economia Pierre Moscovici, anche lui un convertito di fresco un po’ come il nostro Stefano Fassina, è convinto che questo livello di imposizione sia insostenibile. Non solo per la Francia dei “piccoli”, artigiani e commercianti, un po’ con i ricci in tasca e ripiegati su se stessi, magari discendenti degli stessi che negli anni Cinquanta seguirono la rivolta di Pierre Poujade. No, l’attuale insofferenza fiscale è trasversale e interclassista , coinvolge anche il mondo dei salariati, il lavoro dipendente. Che non se ne possa più, non è un grido, è ormai un coro.
    Hollande allora annuncia una “pausa fiscale” per il 2014. La formula è infelice in sé, è lecito immaginare che dopo la pausa tutto riprenda come prima. Ma ecco che ci si mette pure il primo ministro che dice che non è possibile: la situazione dei conti pubblici non permetterebbe la stabilizzazione dei prelevamenti prima del 2015. Quando il primo ministro non fa il fusibile del presidente, la schizofrenia dell’esecutivo esplode al più alto livello.

    E’ il suo modo di fare che fa di Hollande un presidente poco autorevole. Ascolta, magari capta l’input giusto e decide in un senso, poi ascolta ancora e decide l’esatto contrario, nell’imbarazzo rinvia. Eppure quando si è trattato di mandare i paracadutisti in Mali ad arginare l’avanzata dell’islam radicale, ha agito bene e in tempi rapidi. Persino sul dossier siriano ha dimostrato di essere attento, informato, lungimirante e pronto all’azione. Diciamo pure che è più agevole avere a che fare con militari e apparati di intelligence piuttosto che con i compagni socialisti. Non di meno finora Hollande non ha mai cercato di essere qualcosa di diverso dall’apparatchik congressuale che piegava gli altri con la forza estenuante della parola e si sa dove questa sconfini, oltre un certo numero.

    A metà settembre, proprio per raddrizzare la barca, decide di parlare direttamente ai francesi e si lascia intervistare lungamente da Tf1, la principale rete televisiva del paese. Doveva essere la grande occasione, il colpo di inizio della rentrée: è un flop. Non ci sono dubbi sulla sua competenza, padroneggia i dossier, è documentato fin troppo, eccede spesso e volentieri nei dettagli e nelle cosiddette tecnicalità, le astruserie che ammorbano il telespettatore e affossano l’audience. Fa il pedagogo, è puntiglioso ma terribilmente noioso. E fa l’errore che secondo gli esperti in comunicazione non si dovrebbe mai fare: ignorare la situazione in cui si trova chi ascolta. Così invece di mostrare empatia con i contribuenti chiamati proprio in quei giorni a un ulteriore sforzo per l’anno in corso, si mette a parlare sulla politica fiscale che verrà, con l’aplomb della sinistra da rive gauche e il tono di un ispettore delle finanze.

    Sarkozy era arrogante, aggressivo, era pure conciso e aveva il senso della frase assassina, ma faceva di tutto per sembrare vicino a chi gli stesse di fronte: era empatico, come richiede l’uso virtuoso dell’ipocrisia in politica. Hollande è esattamente il contrario: si presenta come un bonario vicino di casa, con un che di familiare ma pian piano ci si accorge, sgomenti, che viene da un altro pianeta. Il presidente “normale” non ha una visione generale della Francia né del movimento necessario a imporla.
    La legge di bilancio che sta per essere sottoposta all’esame del Parlamento è un altro esempio del dire e non dire, di chi avanza, come dicono i francesi, masqué. Viene annunciata una riduzione della spesa pubblica di 15 miliardi innegabilmente importante, ma lo sforzo non riduce il costo delle amministrazioni pubbliche e nemmeno lo stabilizza, serve al più a rallentarne la crescita. Sul lato delle entrate, è la statistica modello Trilussa: il prelievo globale diminuisce è vero ma come risultato di due movimenti contrastanti, una forte diminuzione per le imprese e un ulteriore pesante aumento per le famiglie. Il paradosso è che grazie alla relativa libertà di cui gode in materia di deficit pubblico, l’economia francese pur debole sembra sulla via della guarigione. Si prevede una leggera crescita, intorno all’1 per cento per il 2014 e da un momento all’altro si attende l’inversione della curva della disoccupazione. Di che dare vita a una comunicazione “positiva”, che potesse rasserenare e indicare senza trionfalismi il cammino da percorrere fino alla prossima presidenziale. A cui però un Hollande che al diciottesimo mese di mandato è ancora così in basso nei sondaggi rischia di non poter nemmeno partecipare.
    E ancora c’è l’ostacolo delle elezioni amministrative ed europee che si succederanno nella prossima primavera. Gli istituti di sondaggio concordano: non sarà facile opporsi nelle principali città e soprattutto in Europa alla capacità di attrazione che sembra esercitare il restyling del Front national voluto da Marine Le Pen. Non arrancano solo Hollande e la sinistra, è in difficoltà anche la destra repubblicana, l’Ump. Il cui uomo oggi più popolare è addirittura Alain Juppé, sindaco di Bordeaux, ex primo ministro di Chirac condannato per finanziamento illecito e interdetto per due anni dai pubblici uffici.

    Fino alle elezioni europee Hollande può ancora sperare di migliorare la sua immagine compromessa. Ma se così non fosse, se non riuscisse ad aprire qualche breccia nel muro dell’impopolarità, il secondo presidente socialista in quasi sessant’anni di storia della V Repubblica rischia di finire accanto a Nicolas Sarkozy, nel club non molto frequentato di coloro che un giorno riuscirono a entrare all’Eliseo ma ci ballarono solo per cinque anni.

    • Lanfranco Pace
    • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.