Difesa di un Papa scandaloso
Si può comprendere il mix feeling che sta provando in questi giorni Giuliano Ferrara, come si intuisce leggendo tra le righe dei suoi ultimi articoli, quel sentimento misto di gioia e irritazione, di fronte al vulcanico inizio di pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Da una parte Ferrara è affascinato, come tanti, tantissimi, dalla forza di questo Papa, quell’autorità naturale, dai “tratti regali”, che però egli avrebbe voluto vedere esercitata da Benedetto XVI e che invece Ratzinger ha scatenato proprio con la scelta delle dimissioni. Il sogno di Ferrara sarebbe stato un Papa con l’energia e il vigore di Bergoglio e la testa fina di Ratzinger.
Si può comprendere il mix feeling che sta provando in questi giorni Giuliano Ferrara, come si intuisce leggendo tra le righe dei suoi ultimi articoli, quel sentimento misto di gioia e irritazione, di fronte al vulcanico inizio di pontificato di Jorge Mario Bergoglio. Da una parte Ferrara è affascinato, come tanti, tantissimi, dalla forza di questo Papa, quell’autorità naturale, dai “tratti regali”, che però egli avrebbe voluto vedere esercitata da Benedetto XVI e che invece Ratzinger ha scatenato proprio con la scelta delle dimissioni. Il sogno di Ferrara sarebbe stato un Papa con l’energia e il vigore di Bergoglio e la testa fina di Ratzinger, un Papa con il piglio e la furbizia dell’argentino ma che usasse il suo talento naturale con cui sta prendendo in contropiede praticamente tutti (specie i giornalisti), non per allisciare il mondo ma per contraddirlo come faceva il tedesco. Così, penso, la vede Ferrara che del resto, ripeto, ne è evidentemente affascinato, un po’ perché il genio puro all’opera non si può non apprezzare e poi, Ferrara l’ha intuito già tempo fa, questo è un Papa davvero nuovo, proveniente dalla fine del mondo e da un altro tempo, che, finalmente, a 50 anni dal Concilio, non fa parte di quella stagione epocale della chiesa. Ma l’intuizione si è fermata a metà strada: Bergoglio non ha vissuto il Concilio, quindi… il seguito lo abbiamo visto nei fatti di questi sei mesi di pontificato nel senso che proprio perché non è stato uno dei protagonisti del Concilio (come Wojtyla e Ratzinger), Bergoglio, anziché smarcarsene, ha potuto invece finalmente realizzarlo. Se i due predecessori erano troppo “coinvolti” nell’evento conciliare, ecco che viceversa questo nuovo Papa possiede la giusta distanza da quell’evento e quindi quella libertà necessaria per realizzare pienamente tutte le premesse e le promesse della più grande assise ecclesiale della storia.
Non so se questo ha sorpreso o preso in contropiede Ferrara, ma sta di fatto che l’impatto di questi primi sei mesi è stato forte, divisivo, questo Papa divide, spacca l’opinione, anche perché, ormai tutti lo hanno percepito, è scandaloso. Parola ambigua, scandalo, destinata a suscitare diverse emozioni, dall’inquietudine all’entusiasmo, dalla soddisfazione all’indignazione. Negli ultimi giorni leggendo i testi papali e i commenti degli osservatori più acuti, si intravede in filigrana la presenza ingombrante della dimensione scandalosa del cattolicesimo. Mi vorrei soffermare su tre episodi recenti che possiamo definire scandalosi: il Papa ha scritto una lunga lettera a Eugenio Scalfari, un giornalista italiano che non crede né, per sua stessa ammissione, vuole credere, ma si interroga e interroga il Papa e il Papa ha risposto, non solo, dopo avergli risposto lo ha anche invitato a casa e si è lasciato intervistare da lui; il Papa rispondendo ha parlato con questo giornalista della coscienza, altro tema scandaloso per l’alta rischiosità, scivolosità dell’argomento, insomma si è inoltrato, forse imprudentemente, in un campo pieno di sabbie mobili; il Papa, terzo episodio, lo scorso 29 giugno ha scritto, e firmato (per alcuni solo firmato) un testo, la Lumen Fidei, che è davvero la pietra dello scandalo, non a caso quest’enciclica realizzata a quattro mani è il testo che rimbalza con più frequenza sia nella lettera del Papa a Scalfari sia nei commenti degli osservatori, che ancora non hanno elaborato la scandalosità di questo documento che si muove e corre sotto tutti i primi sei mesi di pontificato di Bergoglio.
Dunque, un Papa scrive una lettera che viene pubblicata sulla prima pagina di Repubblica, in risposta alle domande del suo fondatore Scalfari che da anni, un po’ come un antipapa, rifila ai suoi lettori delle lunghe e solenni “omelie domenicali” con cui settimanalmente traccia le linee di una società che vorrebbe vivere tranquillamente etsi Deus non daretur, liquidando anzi, in nome dell’Io, quest’ospite ingombrante che alcuni continuano a chiamare “Dio” (il titolo di uno dei suoi saggi del 1994 è appunto “Incontro con Io”). Il fatto suona scandaloso. Anche perché Bergoglio, che il senso della misura sembra proprio non averlo, non solo gli ha scritto ma l’ha anche invitato a casa per continuare a discutere con lui, anche se armato di registratore, e questo è troppo. Cioè, non solo il pastore si mette in cerca della pecorella smarrita, ma una volta trovata se la prende anche sulle spalle e la riporta a casa (e che tenerezza che fa Scalfari, smarrito, preso e incartato e portato a casa, così lieto e stordito dalle cure del buon pastore che gli ha toccato il cuore). Tutto questo non è un fungo sbucato all’improvviso: il confratello di Bergoglio, il cardinale Martini, negli ultimi anni si era già intrattenuto più volte in conversazioni con Scalfari e già quegli incontri erano suonati “stonati”, non appropriati per un porporato. Quando dal porpora cardinalizio si è passati al bianco papalino lo scandalo è esploso del tutto. I gesti di questi due gesuiti, in realtà non sono “mondani” ma squisitamente evangelici, perché il buon pastore non può non andare alla ricerca delle pecorelle smarrite e il padre misericordioso non può non andare incontro al figliol prodigo, anche se questo fa molto irritare il ligio, moderato e triste fratello maggiore, convinto di essere giusto. E come le parabole insegnano, questi gesti non vengono apprezzati, anzi vengono spesso rifiutati dagli stessi cristiani scandalizzati e indignati proprio in nome del Vangelo: “Nolite dare sanctum canibus, neque mittatis margaritas vestras ante porcos” cioè “non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle ai porci” (Matteo 7,6), esortazione di Cristo che può essere interpretata in modo hard, come proibizione sia di predicare il Vangelo ai pagani, sia di far partecipare i pagani al culto e al mistero cristiano, o in modo soft, come invito a non fare per gli altri cosa che essi non siano in grado di apprezzare nel giusto valore. Altri cristiani, più generosi nei confronti dell’alto clero, invece hanno sempre apprezzato l’umiltà di Martini ieri e di Bergoglio oggi che si trovano costretti a parlare con i “porci” della nostra confusa epoca contemporanea. In nome di questa umiltà alcuni, i più onesti, antepongono prima di Bergoglio e di Martini, un altro porporato che ha sempre amato intrattenersi a dialogare con interlocutori dotati anche di meno glamour di Scalfari: il cardinale Joseph Ratzinger ha addirittura firmato libri a quattro mani con Flores D’Arcais, Galli Della Loggia, Marcello Pera… Insomma, la vera umiltà dà sempre scandalo.
Anche l’argomento preso da Bergoglio, la coscienza, agita l’animo degli osservatori. E’ il secondo “scandalo”. Per Giuliano Ferrara con questa lettera abbiamo “la prima ridefinizione dottrinale” di Papa Francesco, che così facendo opera una svolta rispetto al suo predecessore che invece era tutto impegnato a “dire le ragioni della fede anche nello spazio pubblico, costruire un ponte tra Atene e Gerusalemme, danzando sul baratro dell’assoluto”, ne conseguirebbe che quell’impegno di Benedetto XVI “diventa una variabile minore se il divino si autocomunica, se è prospettiva immanente e intima alla persona nella relazione con l’altro”. La rassicurazione di Bergoglio a Scalfari “la verità cristiana è una relazione, e alla fine quel che decide è l’amore di Dio per noi e attraverso di noi, insomma la coscienza” non rassicura affatto Ferrara, gli puzza di “relativismus”.
Ma forse non c’è alcuna “ridefinizione dottrinale”, perché il Papa in realtà non fa altro che ribadire una tradizione bimillenaria: la verità non è assoluta né relativa ma relazionale. Niente è “assoluto” per un cristiano che crede nel Dio trinitario, cioè un Dio solo ma non solitario. Lo dice meglio, ovviamente, Bergoglio: “Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità ‘assoluta’, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione”. Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: “Io sono la via, la verità, la vita?”. La preoccupazione per il soggettivismo o relativismo suona quindi superflua. Anche sul tema dell’importanza della coscienza, per i più onesti, Francesco non è un pioniere ma è sulla strada tracciata da Benedetto, un Papa agostiniano e newmaniano che ha fatto della coscienza un baluardo del suo magistero. Ed entrambi sono in perfetta continuità con il Concilio, anche questo suona un po’ scandaloso per chi come Ferrara, come già detto prima, aveva brindato a un Papa, Bergoglio, finalmente estraneo alla stagione conciliare. Ora il Concilio, raccogliendo l’antica tradizione di venti secoli di magistero si sofferma a lungo sulla coscienza e precisa che: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio nel suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa legge egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria”. (Gaudium et spes, n. 16). Non a caso il cardinale Newman definiva la coscienza “il primo dei Vicari di Cristo” e in quanto tale superiore allo stesso Papa, e chi ha incarnato questa affermazione, con i gesti, è stato proprio Papa Benedetto XVI che l’11 febbraio scorso ha fatto prevalere il dettato della sua coscienza rispetto al ministero a cui era stato chiamato.
Ancora una volta Ratzinger è più avanti, viene prima di Bergoglio, è il nonno, vecchio e saggio, di cui vale la pena seguire le tracce. Alla luce dell’esempio di questi due papi è chiaro quindi che ascoltare la coscienza, per un cattolico, non è “incontrare Io” né “obbedire a se stessi” ma mettersi di fronte a Dio e in ascolto della sua voce, che suona come un’eco nella nostra coscienza. Chi decide alla fine non è solo l’amore di Dio auto-comunicantesi, ma è anche l’uomo che può dare spazio a questa eco oppure occupare, con il proprio Io, tutto quell’ambiente “dell’intimità del cuore” che possiamo definire con la parola “coscienza”. Sottolineare tutto questo da parte di Francesco, in piena continuità con Benedetto non vuol dire “declinare come minore” il rapporto tra fede e ragione, dismettere la presenza della fede nello spazio pubblico o interrompere di costruire ponti, sull’abisso, tra Atene e Gerusalemme; al contrario mi sembra che sono venti secoli che i pontefici edificano ponti sui tanti abissi degli uomini e gli ultimi due papi, che oggi convivono e hanno anche firmato insieme la Lumen Fidei (titolo quanto mai significativo) lo stanno facendo insieme, uno pregando (fides) l’altro governando (fides et ratio). Affermare la centralità della coscienza non toglie nulla all’impegno della chiesa, nel mondo, a difesa anche delle ragioni della ragione e della fede.
Abbiamo toccato il terzo “scandalo” di Papa Francesco: la pubblicazione della Lumen Fidei in condominio con Benedetto XVI. Per alcuni osservatori, distinti e distanti come Ferrara, Melloni e Scalfari stesso, per diversi motivi, quella pubblicazione è un falso, quella firma apposta, da Francesco, in calce al testo, non è autentica, non ci credono. Tutti e tre sono così impegnati a notare ciò che separa Bergoglio da Ratzinger che non si accorgono dell’evidenza di ciò che li unisce, per esempio la medesima fede e la comune paternità nei confronti di un testo da entrambi firmato. Sì, è vero, Bergoglio l’ha firmata, attribuendosela, ma, sostengono più o meno implicitamente, nella migliore delle ipotesi si è trattato di un gesto di cordiale vicinato, di cortesia istituzionale, di rispetto formale. Un gesto in fondo, falso. Ora è vero che Bergoglio è di origine piemontese, ma tutti si accorgono nel giro di un minuto che su di lui non può valere l’antico detto “piemontese falso e cortese” (e tantomeno l’odiosa espressione “gesuiti ipocriti”): del rispetto formale un Papa “tattile” come Francesco non sa che farsene. Tutto tranne che formale o insincero è questo vulcanico successore di Pietro, molto simile per irruenza e immediatezza a quel primo Papa. Ed è questa la sua forza, il segreto del suo successo che risiede ancora una volta nello “scandalo”, come da buon pastore ha spiegato parlando non di sé (né volendolo fare) ma di Gesù di Nazareth allo smarrito Scalfari. Nella famosa lettera dell’11 settembre il Papa si è trovato costretto a fare una brevissima lezioni esegetica sul Vangelo di Marco, il Vangelo più ruvido, rapido e drammatico (scelta quanto mai “rivelatrice”) e ha riflettuto sul fatto che Gesù è uno che, dice il Vangelo, parla con “autorità”, “una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è ‘exousia’, che alla lettera rimanda a ciò che ‘proviene dall’essere’” che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire – egli stesso lo dice – dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa “autorità” perché egli la spenda a favore degli uomini. Un rapido quanto efficace ritratto di Gesù. Ma non è anche, si parva licet e in modo del tutto involontario, un felice autoritratto del Papa argentino? Bergoglio è così come è, come appare, senza doppiezza tra il suo dire, il fare, il mostrare, il pensare; la sua autorità e il suo carisma è tutto qui, in questo rompere gli schemi intellettuali, in questa semplicità che la gente semplice avverte subito, in questa exousia che “rimanda a ciò che proviene dall’essere”; forse niente di più sanamente scandaloso.
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