Perché su Alitalia è meglio non fare nulla, consigli a Letta
Caro premier Enrico Letta, su Alitalia faccia una cosa che nessuno ha osato fare mai: niente. Non convochi riunioni, non cerchi cavalieri, non pietisca dall’Eni un po’ di jet fuel fuori sacco. Se ne impipi, serenamente. Prima delle privatizzazioni del 2008, Alitalia era riuscita ad accumulare perdite stratosferiche: solo durante le lunghe doglie che hanno portato alla sua fuoriuscita dal perimetro pubblico, tra il 2006 e il 2008, ha contabilizzato un passivo pari a 1,8 miliardi di euro. Poi il gruppo ha attraversato la rocambolesca fase del Piano Fenice, dove tra bad company, cassa integrazione, prepensionamenti, costi impliciti delle rotte in monopolio, il paese ha dovuto impegnare una somma stimata da Ugo Arrigo e Andrea Giuricin attorno ai 7 miliardi di euro nel quinquennio 2008-2013.
Caro premier Enrico Letta, su Alitalia faccia una cosa che nessuno ha osato fare mai: niente. Non convochi riunioni, non cerchi cavalieri, non pietisca dall’Eni un po’ di jet fuel fuori sacco. Se ne impipi, serenamente. Prima delle privatizzazioni del 2008, Alitalia era riuscita ad accumulare perdite stratosferiche: solo durante le lunghe doglie che hanno portato alla sua fuoriuscita dal perimetro pubblico, tra il 2006 e il 2008, ha contabilizzato un passivo pari a 1,8 miliardi di euro. Poi il gruppo ha attraversato la rocambolesca fase del Piano Fenice, dove tra bad company, cassa integrazione, prepensionamenti, costi impliciti delle rotte in monopolio, il paese ha dovuto impegnare una somma stimata da Ugo Arrigo e Andrea Giuricin attorno ai 7 miliardi di euro nel quinquennio 2008-2013. Di questi circa la metà è riconducibile al costo della bad company rimasta statale, la protezione sociale per gli ex dipendenti e i minori introiti dovuti alla differenza tra quanto Air France era disposta a pagare, 1,7 miliardi di euro, e quanto effettivamente sborsato dalla cordata tricolore, circa un miliardo di cui meno di un terzo dalle tasche dei “capitani coraggiosi”.
Un’operazione, quella della privatizzazione, che ne nascondeva un’altra, il salvataggio della principale concorrente di Alitalia, la AirOne di Carlo Toto, anch’essa in gravi difficoltà finanziarie, con la regia del principale creditore di quest’ultima, Intesa Sanpaolo. Nel complesso, non è esagerato dire che la mancata cessione del vettore nazionale al gruppo franco-olandese rappresenta la più fallimentare delle “operazioni di sistema”. Dietro tutte queste costose manovre, che ci portano oggi nella situazione in cui eravamo nel 2008, fatto salvo che enormi risorse sono state bruciate e che Air France potrebbe aggiudicarsi le spoglie di Alitalia a una frazione del prezzo, sta il mantra dell’italianità. Quello dell’italianità è un argomento insidioso: titilla l’orgoglio nazionale anestetizzando la razionalità. La tesi che un vettore straniero danneggerebbe il nostro turismo, o che “un grande paese industriale ha bisogno della sua compagnia di bandiera” (Maurizio Lupi), è evanescente. Viene sempre affermata e mai argomentata, per invocare operazioni strampalate quali l’ingresso di Fintecna o la fusione con Trenitalia. A questo proposito, il capo delle Ferrovie, Mauro Moretti, ha chiesto un’ulteriore sospensione delle regole della concorrenza, dopo quella del 2008-2011.
Trenitalia, al pari di Alitalia, ha infatti già accumulato molte miglia come “passeggero” suo malgrado delle istruttorie Antitrust, verso la cui “ingerenza” è dunque e comprensibilmente sospettosa. Inoltre, la competizione tra aerei e alta velocità sulla rotta più redditizia, la Roma-Milano, è una spina nel fianco di entrambe le compagnie. Che si tratti di Fintecna, Trenitalia o altri, comunque, non sarà certo l’ingresso di un partner pubblico a risolvere problemi che derivano da un modello di business insostenibile. La legge di gravità è un avversario tenace, e gli aerei a corto di carburante – fisico e finanziario – finiscono inevitabilmente per cadere. Con quali conseguenze? L’esperienza della svizzera Swissair, fallita nel 2001 e acquisita successivamente da Lufthansa, fornisce un precedente istruttivo: non solo la Confederazione non è rimasta isolata, ma addirittura la flotta Swissair è cresciuta da 47 velivoli a 55, e ne ha ordinati altri sei. Finché ci sarà gente che vorrà andare in Svizzera (o in Italia), e da lì altrove, cioè finché ci sarà una domanda di trasporto, vi sono pochi dubbi che vi sarà pure un’offerta di mobilità. Se Alitalia dovesse fallire, o finire in mani straniere, gli italiani continueranno a volare come prima, forse meglio, e pagare come prima, forse meno. It’s the economy, stupid.
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