Popolo buu
Si chiama discriminazione territoriale. Ed è l’ultima frontiera della fuffa. Coloro che governano il calcio, l’Uefa in Europa, la Figc in Italia, l’hanno inserita nella definizione più larga di discriminazione per motivi di razza, religione, sesso, origine etnica. E di comune accordo hanno deciso di sanzionare severamente chi infrange i rispettivi articoli del Codice di disciplina (Uefa) e del Codice di giustizia sportiva (Figc): chiusura parziale o totale dello stadio, sconfitta a tavolino, penalizzazione in classifica.
Si chiama discriminazione territoriale. Ed è l’ultima frontiera della fuffa. Coloro che governano il calcio, l’Uefa in Europa, la Figc in Italia, l’hanno inserita nella definizione più larga di discriminazione per motivi di razza, religione, sesso, origine etnica. E di comune accordo hanno deciso di sanzionare severamente chi infrange i rispettivi articoli del Codice di disciplina (Uefa) e del Codice di giustizia sportiva (Figc): chiusura parziale o totale dello stadio, sconfitta a tavolino, penalizzazione in classifica. Tutti abbiamo poco apprezzato i buu con cui venivano accompagnate le evoluzioni di avversari di colore per non parlare di banane agitate o lanciate, ma l’indignazione non è mai andata al di là del fastidio che si può provare di fronte a una frase idiota o a un gesto stupido. Non di meno reprimere episodi o manifestazioni di discriminazione fra razze ha buone ragioni di per sé, anche in un paese non razzista come l’Italia. Ma perché fare anche della discriminazione territoriale una malefatta? E che vuol dire, poi? Che si può insultare un avversario in quanto tale ma non in quanto abitante di un luogo, di una città, di una parte di nazione? Se tu dici al tifoso avversario, mettiamo, juventino di merda, lo offendi ma non sei punibile, non lo sono coloro che si sono uniti al coro, quindi la società del cuore, la squadra per cui tifi non sono passibili di sanzione sportiva. Ma se invece dici juventino torinese di merda, sì. Eppure non è detto che sia tua intenzione “discriminare territori”, magari provi pure simpatia per le migliaia di tifosi del glorioso Torino e per il sindaco della città. In tutto ciò dunque c’è qualcosa che non torna, qualcosa di perverso che nulla ha a che fare con il calcio. E’ come se fosse un tentativo di rieducazione forzosa, a botta di partite a porte chiuse, del popolo bue. Polpottismo tecnocratico, in camicia bianca: i bene educati che governano hanno deciso di educare tutti noi che della cultura sportiva ce ne freghiamo e della cultura alta occupiamo appena i sottoscala. E’ a guardar bene un’aggressione della ragione nei confronti della passione di cui non sopporta che si manifesti in modo incivile, rozzo, intollerante. Come se potesse davvero esistere una passione civile, cortese, senza invettive né contumelie.
Il tifo calcistico è strano animale, animale ancora più strano quello ultras. Si parla della curva come di una zona franca, opaca, incontrollabile, esposta a infiltrazioni di ogni sorta, di clan pericolosi e personaggi borderline che puntano a controllarle per ricattare le società di club, ottenere vantaggi e privilegi più o meno leciti. E’ tutto vero. Ma è anche altro, sennò gli stadi sarebbero deserti anche nelle partite importanti. Il tifo è una religione, monoteistica. Ci vuole fede in un solo dio per fare ore di fila, comprare di persona un biglietto, passare i tornelli, uno alla volta, superare i tanti sbarramenti delle forze dell’ordine, farsi fermare, palpeggiare, perquisire, sfilare tra i manganelli, l’adrenalina che sale perché la paura c’è anche dall’altra parte e non sai mai cosa può accadere. Migliaia di giovani – e di meno giovani – accettano l’umiliazione anche perché la partita vista dalla curva è un’altra cosa, è una mano collettiva che si proietta sul campo, dà il calore dell’appartenenza, afferma un’identità, in cui tutto abita: lo sfottò, il dileggio, l’insulto volgare, la sguaiatezza, la ferocia. E l’odio. Che il più delle volte rimane entro i confini del simbolo. Pensare di voler rieducare questo mondo è difficile, forse impossibile: ma soprattutto è sciocco. Significa chiudere l’ultimo sfiatatoio di un paese che borbotta, plasmare la massa cattiva, i bad boys, in gelatina indistinta. Questi tre-quattrocento che magari saranno imbecilli ma sono pur sempre il sale del tifo, teniamoceli stretti. Sono decenni che si insultano ma a parte manifestazioni di violenza sempre più rare nessun bersaglio territoriale si è mai sentito discriminato e meno che mai offeso. Non i napoletani, “colera e vergogna dell’Italia intera”, non il “genoano che puzza di pesce”, non “le doriane puttane puttane e i loro figli conigli conigli”, non il “terronume” vario, non il “contadino bergamasco che zappa la terra”. E poi non è detto che gli insulti debbano essere per forza beceri: nell’immortale risposta di anonimi napoletani ai veronesi “Giulietta è ’na zoccola” come nel “Vi ruberemo il gregge” cantato ai cagliaritani, si possono anche cogliere tracce di raffinatezza. Noi non canteremo mai “Rule, Britannia!”, non avremo mai un’identità superiore che tutto trascende e trasfigura, anche i peggiori istinti, anche la feccia. L’Italia non è solo l’ultimo stato unitario di occidente, cosa che pure vorrà dire qualcosa. E’ anche il “paese” dove con la massima ferocia e per almeno dieci secoli ci si è scannati tra vicini. Anzi tra vicinissimi. Di questo voler raddrizzare gambe storte da troppo tempo possiamo fare a meno.
Il Foglio sportivo - in corpore sano