Basta soldi ai generali

Daniele Raineri

Bollettino di lunedì 7 ottobre 2013. A Ismailia sulle sponde del canale di Suez: un veicolo senza targa si accosta a un pick-up dell’esercito egiziano, uomini in passamontagna sparano e uccidono cinque soldati e un ufficiale. A Ismailia, di nuovo: bomba gettata sotto un furgone della polizia parcheggiato davanti a una centrale. A El Tor, capoluogo nel sud del Sinai, una località popolare tra i vacanzieri e i subacquei inglesi: un volontario suicida guida un’autobomba contro il quartier generale della sicurezza, uccide tre poliziotti e distrugge la facciata dell’edificio di quattro piani.

    Bollettino di lunedì 7 ottobre 2013. A Ismailia sulle sponde del canale di Suez: un veicolo senza targa si accosta a un pick-up dell’esercito egiziano, uomini in passamontagna sparano e uccidono cinque soldati e un ufficiale. A Ismailia, di nuovo: bomba gettata sotto un furgone della polizia parcheggiato davanti a una centrale. A El Tor, capoluogo nel sud del Sinai, una località popolare tra i vacanzieri e i subacquei inglesi: un volontario suicida guida un’autobomba contro il quartier generale della sicurezza, uccide tre poliziotti e distrugge la facciata dell’edificio di quattro piani. A Sheikh Zuwaid, nel nord del Sinai: una bomba esplode sulla strada. A Maadi, quartiere moderno del Cairo: quattro uomini in passamontagna sparano un razzo Rpg contro la parabola enorme del centro di comunicazioni più grande del paese, che trasmette su satellite la tv di stato – l’Rpg è un’arma a spalla usata contro i carri armati.

    Il bollettino giornaliero dell’insurrezione islamista in Egitto comincia a essere simile ai diari della violenza in altri paesi arabi, come Iraq o Yemen. Un colpo di mortaio qui, un’uccisione da un’altra parte, l’assalto a un checkpoint da un’altra parte ancora. Al Cairo è come osservare al rallentatore una reazione chimica di cui si conosce l’esito. L’inizio è stato il 3 luglio, giorno della destituzione e dell’arresto del presidente Mohammed Morsi. I generali hanno liquidato il governo dei Fratelli musulmani con brutalità (non è una difesa degli islamisti: è una constatazione) e hanno cancellato il partito e il loro movimento dalla politica. Poi hanno reagito alle proteste e ai sit-in della Fratellanza a colpi di repressione militare nelle piazze e nelle strade: per adesso ci sono stati cinque massacri contro i sostenitori di Morsi al Cairo, l’ultimo domenica scorsa con 54 vittime. In totale i morti sono più di mille. I generali non commentano nemmeno questo tipo di operazioni, le considerano manovre correttive per rimettere le cose al loro posto – e hanno l’approvazione di una parte enorme degli egiziani. Il senso crudele del necessario governa il paese e giustifica ogni decisione. Eppure è un senso sbagliato: non si esce da questa impasse politica con le armi; esisteva invece una soluzione politica, tortuosa, assieme ai partiti islamisti.

    Ieri c’è stata una fuga di notizie sui media americani: l’Amministrazione Obama si prepara a sospendere l’assistenza finanziaria all’Egitto, fatta eccezione per le spese delle operazioni antiterrorismo – ma tutto al Cairo è ormai etichettato come “antiterrorismo”, anche lo scioglimento di manifestazioni non autorizzate – e le spese sostenute per la collaborazione alla difesa di Israele. L’annuncio è previsto per domani. Il Wall Street Journal scrive che non sarà un taglio totale del miliardo e mezzo di dollari versato ogni anno all’alleato arabo, ma sarà comunque un colpo duro alle relazioni tra i due paesi, che già vanno male, e alle relazioni con tutta quella corona di stati del Golfo, Arabia Saudita in testa, che ha fatto piovere miliardi di dollari in aiuti sull’Egitto negli ultimi tre mesi (sauditi e americani sono già in rotta di collisione su altri dossier: il nuovo clima di cordialità esibito da Washington con l’Iran e il mancato strike contro il presidente siriano Bashar el Assad). La Casa Bianca ha smentito seccamente la fuga di notizie: è vero che ha bloccato l’arrivo di caccia F-16 destinati all’Egitto e ha annullato un’esercitazione militare congiunta, ma come fanno notare alcuni analisti questo genere di annunci arriva soltanto quando l’altro governo è ormai già stato avvertito. Invece dal Cairo il ministero degli Esteri dice di non avere ricevuto alcuna notifica delle intenzioni americane. “Non ne abbiamo idea – dice il portavoce del ministero, Badr Abdul Atty – non ci basiamo sui media. Ci basiamo su dichiarazioni ufficiali, canali ufficiali di comunicazione. Non siamo stati avvertiti di nulla riguardo l’assistenza”. Sarebbe difficile anche dal punto di vista tecnico, l’anno finanziario è già stato chiuso e secondo il meccanismo dell’aiuto militare il governo americano ha già comprato da aziende americane i mezzi e l’equipaggiamento che poi consegnerà all’esercito egiziano. I soldi sono stati spesi, al limite potrebbero essere bloccati i trasferimenti.

    I gruppi estremisti egiziani che erano stati umiliati dalla ribellione di piazza Tahrir perché la loro esistenza si era rivelata inutile – erano bastati 18 giorni di proteste popolari per cacciare il rais Mubarak – ora cercano una rivincita trionfale, prima sul piano ideologico e poi su quello militare. Vedete, dicono sui loro forum online, la democrazia e le elezioni sono un grande imbroglio, l’unica strada per ottenere uno stato islamico è con il jihad e imbracciando le armi. Chi indulge nel gioco politico, chi crea partiti e compila piattaforme programmatiche è un cattivo musulmano, sta soltanto perdendo il suo tempo, sta offrendo il fianco più debole ed è destinato a soccombere davanti al governo secolarista. Nei messaggi e nei proclami dei gruppi estremisti l’esercito egiziano è accoppiato con la parola araba taghout, che indica il falso idolo, qualcuno che riceve ingiustamente adorazione senza essere Allah (che è l’unico degno di preghiera). Esempi di taghout per al Qaida sono la casa regnante saudita o il generale Pervez Musharraf quando era presidente del Pakistan e alleato degli americani.

    Shadi Hamid e Peter Mandaville hanno appena firmato una lunga analisi per il Brookings Doha Center, in cui sostengono che il colpo di stato di luglio è troppo: ora Washington deve fare chiarezza su come intende agire al Cairo. La cosa migliore, scrivono i due, sarebbe prima togliere gli aiuti militari all’Egitto e poi eventualmente farli ripartire in caso di buona condotta, e non fare come adesso, ovvero continuare con blande minacce di toglierli e restare sempre inascoltati. Se non usi la tua capacità di fare leva sui generali egiziani, avvertono, essa si atrofizza e la perdi.

    Hamid e Mandaville scrivono anche che è necessario superare il mito di Camp David, ossia la benevolenza sempre garantita al governo egiziano perché in fondo mantiene in vita la pace con Israele. Fanno notare come l’Egitto abbia un grande interesse a rispettare l’accordo anche a prescindere dagli aiuti militari americani, da quel miliardo e trecento milioni di dollari che ogni anno coccola l’establishment militare del Cairo. In effetti, l’esercito egiziano sta agendo contro Hamas – il gruppo palestinese che controlla la Striscia di Gaza – come se fosse un alleato naturale di Israele. Chiude i tunnel allagandoli con acqua di fogna e di recente ha ammesso di sorvolare il territorio di Hamas con i droni, per scegliere bersagli da colpire in caso di intervento armato. Nel paper della Brookings si nota inoltre che le armi americane consegnate agli egiziani sono sofisticate, jet e carri armati: è verosimile che non saranno mai usate nella lotta al terrorismo, ma in un’eventuale guerra futura con Israele.

    I due scrivono anche che Washington non deve temere di perdere la sua presa a favore dei regni sunniti del Golfo, prodighi di finanziamenti per i generali (i regni detestano i Fratelli musulmani e hanno approvato, se non addirittura organizzato, la loro cacciata dal potere). “Prendiamo, per esempio, il miliardo e trecentomila dollari di aiuti militari americani all’Egitto. Possono non sembrare tantissimi, specialmente se comparati con i 12 miliardi di dollari in depositi e prestiti arrivati da Arabia Saudita, Emirati arabi uniti e Kuwait. Ma soltanto gli Stati Uniti possono fornire certo equipaggiamento specifico, certi pezzi di ricambio fondamentali di cui l’Egitto ha bisogno per mantenere operativi i suoi jet e i suoi carri armati (i costi di manutenzione da soli rappresentano il 15 per cento di quel miliardo e tre). Potrebbero arrivare da nazioni terze, che però dovrebbero cambiare le licenze d’esportazione e se Washington non glielo permette vendere all’Egitto sarebbe un’impresa ardua”. Se poi si aggiungono gli aiuti e i prestiti dell’Unione europea – circa cinque miliardi di dollari – e l’assistenza che arriva da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, si raggiunge una cifra comparabile a quella offerta dai sauditi e dai loro alleati. Se poi Washington riuscisse a coordinarsi anche con Qatar, Turchia e Libia, la sua possibilità di fare leva sarebbe ancora migliore. E comunque, è ora di parlare con i partner arabi del Golfo e intendersi anche con loro. Dopotutto, sono considerati alleati.

    Le relazioni tra Egitto e America così come sono ora non funzionano più, avverte l’analisi. La decisione presa dal presidente Obama di mantenere gli aiuti militari – anche contro l’obbligo legale di sospenderli, considerato che c’è stato un golpe (anche se il termine è assai dibattuto a proposito dei fatti di luglio, proprio per questo motivo) – prova che non c’è volontà politica americana di assumere una posizione. Ma non ha senso fingere che l’Egitto in questo momento sia nel mezzo di una transizione democratica, considerato quello che sta succedendo nelle strade. Washington e gli alleati europei – scrivono i due analisti – dovrebbero subito chiedersi come moderare gli eccessi dell’esercito egiziano e il suo uso indiscriminato della forza contro gli avversari politici e contro le manifestazioni. E poi dovrebbero esigere il ritorno a un processo politico inclusivo, quindi anche con i Fratelli musulmani.

    L’alternativa è la crisi politica di adesso, uno stallo tra generali con il pugno pesante e i Fratelli musulmani che non si decidono a cedere il campo. Tutto tempo guadagnato per i fan del jihad. Adesso i siti di al Qaida traboccano di immagini e video delle stragi di Fratelli musulmani al Cairo o dei loro atti di valore – mentre affrontano disarmati i carri armati oppure avanzano verso i fucili dei soldati (non sono propriamente “siti di al Qaida”, ma non hanno problemi a riconoscersi nell’ideologia e nelle azioni di al Qaida). Eppure prima i tifosi di Morsi erano disprezzati perché considerati troppo corrotti e interessati al potere, pronti a vendere l’islam per vincere in politica. Ora sono visti come compagni di strada coraggiosi ma un po’ sempliciotti, che ancora non hanno compreso che porgere l’altra guancia ai generali è perfettamente inutile. La soluzione è l’islam, diceva lo slogan della Fratellanza nella stagione delle elezioni. La soluzione è la guerra, dicono ora gli estremisti, anche in Egitto.

    Per ora si sono fatti notare due gruppi violenti. Uno si fa chiamare Kataib al Furqan, dove Kataib vuol dire “brigate” e Furqan è il titolo della venticinquesima sura del Corano e indica il Discernimento, la distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male. In un video di agosto gli uomini delle Furqan sparano razzi Rpg contro una nave porta container da una sponda del canale di Suez, infrangendo il totem internazionale supremo quando si parla di Egitto, la sicurezza del passaggio marino. In un altro viaggiano in strada, avvicinano automobili di ufficiali egiziani e le crivellano di colpi – un’idea che è stata presa dal manuale d’operazioni dello Stato islamico in Iraq, che fa lo stesso sulle strade di Baghdad. Nel video più recente, di martedì, come già detto, sparano un rpg contro la parabola della stazione satellitare a Maadi, quartiere molto evoluto del Cairo. Sono immagini che lasciano increduli, perché infrangono ogni canone di tranquillità e controllo del territorio a cui l’Egitto ci aveva abituati (ma ci stiamo disabituando in fretta).

    Il secondo gruppo estremista opera da più tempo ma soltanto nel Sinai e ha scelto come nome Ansar Bayt al Maqdis, dove Ansar è “il gruppo dei partigiani” e “Bayt al maqdis” è la casa della santità, il tempio – e si riferisce al tempio sulla spianata di Gerusalemme. Quelli di Ansar Bayt al Maqdis quando riescono colpiscono oltre il confine con Israele, usando razzi e mortai, e nell’agosto 2011 hanno attraversato la frontiera e hanno ucciso otto israeliani a Ein Netafim. Un anno dopo hanno attaccato una base locale e hanno trucidato 16 soldati egiziani, l’esercito voleva una risposta durissima ma il governo di Morsi nicchiò, si mostrò esitante, cominciò ad aprirsi irrimediabilmente la scollatura tra Fratelli musulmani e generali.

    Questa insurrezione islamista è peggio in potenza di quella degli anni Novanta, che toccò il culmine nel massacro di turisti occidentali a Luxor nel novembre 1997. Vent’anni dopo, l’orizzonte è ormai spalancato: la guerriglia in Iraq, Pakistan, Mali, Afghanistan, Somalia, Yemen e Siria ha indicato la via agli adepti: creare ampi spazi di territorio governati dagli islamisti e fuori dal controllo del governo taghout è possibile. Negli anni Novanta ci fu l’esperienza effimera della Repubblica islamica di Imbaba, quando il quartiere più grande del Cairo si autoproclamò territorio islamista, ma non durò molto. Ora ci sono modelli più di successo. Il nord della Siria, sopra l’autostrada che collega le città di Idlib e Aleppo, è off-limits per l’esercito siriano ed è territorio islamista. La provincia più grande dell’Iraq, Anbar, è più sotto il controllo degli insorti sunniti che del governo di Baghdad. Le aree tribali del Pakistan si considerano autonome e sfidano Islamabad. Inoltre il medio oriente e il nord Africa sono un’area che dal punto di vista politico è spappolata, il controllo sul traffico di uomini e armi s’è allentato. Se l’insurrezione egiziana avrà bisogno di armi, potrà guardare alla Libia, dove giacciono ancora gli enormi arsenali di Gheddafi pronti per essere venduti pezzo per pezzo, oppure al Sudan, altra rotta di rifornimenti bellici.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)