Tre palle un soldo
Giustizia adesso
Il cattivo funzionamento della giustizia italiana costa alle imprese italiane ogni anno oltre 3 miliardi, sommando i costi cui devono farsi carico per i ritardi nelle procedure fallimentari e per i ritardi nelle procedure civili di primo e secondo grado (circa il 40 per cento del totale per ciascuna delle due voci) ai quali si aggiungono le spese burocratiche relative alle procedure fallimentari (20 per cento). Anche la durata media di un processo civile – circa mille giorni quelli di primo grado, poco meno quelli di secondo – grava sulle imprese, tanto più gli oltre tremila giorni che occorrono per una procedura fallimentare.
Il cattivo funzionamento della giustizia italiana costa alle imprese italiane ogni anno oltre 3 miliardi, sommando i costi cui devono farsi carico per i ritardi nelle procedure fallimentari e per i ritardi nelle procedure civili di primo e secondo grado (circa il 40 per cento del totale per ciascuna delle due voci) ai quali si aggiungono le spese burocratiche relative alle procedure fallimentari (20 per cento). Anche la durata media di un processo civile – circa mille giorni quelli di primo grado, poco meno quelli di secondo – grava sulle imprese, tanto più gli oltre tremila giorni che occorrono per una procedura fallimentare. Basterebbero questi dati, e le relative ragioni sottostanti, per decidere di riformare in modo strutturale la giustizia e l’ordinamento giudiziario. Le ragioni civili, etiche e politiche che si possono aggiungere, e che riguardano principalmente la giustizia penale – il cui costo economico è rilevante ma difficilmente quantificabile – rendono poi ancora più cogente la necessità di intervenire.
Purtroppo, la ventennale vicenda politico-giudiziaria riguardante Berlusconi ha cancellato queste ragioni e trasformato la questione in puro strumento di lotta politica e di potere. Ora, dopo l’errore commesso da Enrico Letta di aver lodato lo stato di salute del diritto in Italia, pare che il tema sia tornato politicamente praticabile, grazie soprattutto al capo dello stato. Solo che lo si è preso dal lato dell’affollamento delle carceri e della necessità – sottolineata persino da un Papa e bollata da sentenze europee – di un loro ritorno a condizioni di normalità e umanità. Il che significa, nel breve, un loro significativo svuotamento, nella speranza che questo serva ad ammodernarle e renderle civili e dignitose, visto che nel migliore dei casi sono antiquate e inefficienti.
Bene, si dirà. Sì, se però non si ripetono gli sbagli commessi nel passato in occasione di provvedimenti di clemenza. E, soprattutto, se si evita l’errore capitale di non capire che non ci può essere iniziativa svuota carceri giusta senza una contemporanea riforma complessiva della giustizia. Anzi, senza capire che solo una riforma vera può ridurre in modo strutturale il numero dei carcerati. Perché se è vero, come purtroppo è vero, che quasi la metà dell’attuale popolazione carceraria – per la precisione il 41,2 per cento – è in attesa di giudizio, è facile capire che è solo cancellando questa mostruosità della reclusione preventiva che si può combattere in modo serio e duraturo l’affollamento. Imputati in detenzione preventiva che avrebbero diritto a un processo rapido, che invece dura anni, e che potrebbero essere liberati su cauzione, se solo s’introducesse nel nostro ordinamento lo strumento della cauzione, salvo i casi di reale pericolosità. Nello stesso tempo, invece, gli imputati realmente pericolosi vengono liberati perché la giustizia è incapace di giudicarli in tempi ragionevoli.
Insomma, tolta la folla di chi sconta una pena che non gli è mai stata comminata, il problema sarebbe risolto. E a quel punto l’amnistia – non l’indulto, che già nel 2006 ha dato cattiva prova – è necessaria non per le carceri, bensì per salvare la riforma dalle macerie dello spaventoso arretrato che concorre a rendere ingiusta la nostra giustizia. Ma questo presuppone che la riforma sia stata fatta, o quantomeno che marci parallelamente.
Cosa può fare la magistratura
Proprio per questo è ora che la questione giustizia sia posta all’attenzione della politica da imprenditori e lavoratori. Se Confindustria e sindacati s’impegnassero a premere perché il governo inserisca la riforma nell’agenda delle cose prioritarie da fare, derubricando l’equivalenza giustizia=Berlusconi, forse tutto cambierebbe. D’altra parte, la necessità di considerare il sistema giudiziario come uno dei fattori cruciali della competitività di un sistema-paese, e di conseguenza rendere il nostro maggiormente efficiente, è cosa sempre più avvertita dagli imprenditori. Non solo per il carico economico che devono sopportare ma, soprattutto, per il fatto che il cattivo funzionamento della giustizia costituisce un grosso ostacolo che allontana gli investitori stranieri dall’Italia.
Certo, molto aiuterebbe se in seno alla magistratura emergesse quella corrente di pensiero – finora rimasta underground, ma molto più diffusa di quanto non si creda – che considera un errore, per la categoria e per la giustizia, il prevalere di quell’anima movimentista e giacobina che ha voluto ingaggiare una battaglia contro il potere legislativo e contro l’esecutivo, teorizzando il principio della giurisprudenza evolutiva con funzione latamente legislativa. Un’evoluzione, culturale prima ancora che pratica, che a sua aiuterebbe il potere politico a rendersi forte, riformatore, illuminato, liberale e lungimirante. Cioè le qualità che occorrono a una classe politica e a un ceto di governo per fare ciò che in vent’anni nessuno è stato capace di fare.
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