Weekend di carta
Un cambiamento importante, quello che si appresta a fare il Ft, forse uno dei pochi a poterselo permettere in un periodo di crisi e orizzonti ristretti per la sopravvivenza economica del giornalismo mondiale. Barber ne è consapevole, arrivando a dire la verità sul metodo di lavoro – “è morto per sempre il processo produttivo del giornale mutuato dagli anni Settanta, che ha subìto cambiamenti nel tempo solo per aggiungere edizioni locali nel corso della notte” – e pronunciando quella che per le orecchie di molti sedicenti puristi dell’informazione tradizionale suona come una bestemmia: “In futuro, il giornale cartaceo deriverà dal web e non viceversa”. Quel futuro è già arrivato.
Sei giorni lavoriamo, il settimo vogliamo andare in gita / […] / Se il tempo è brutto restiamo a casa a leggere i giornali (T. S. Eliot, “Cori da La Rocca”).
"Ora siamo pronti a definire quali debbano essere le prossime fasi della nostra strategia digital first, che finora ha avuto successo. Si tratta di un’opportunità entusiasmante ma anche impegnativa per tutti i giornalisti del Financial Times. Che comporta nuovi cambiamenti nel modo di lavorare, un ulteriore spostamento di risorse a favore di ft.com, un significativo rimodellamento del giornale”. Inizia con queste parole (la traduzione in italiano è presa dal blog Note & notizie) la lettera che il direttore del Financial Times, Lionel Barber, ha inviato martedì pomeriggio ai redattori dello storico quotidiano finanziario londinese. Da qualche tempo gli abbonati all’edizione digitale del Ft hanno superato di gran lunga quelli all’edizione cartacea (si parla di 100.000 in più, su un totale di circa 600.000 lettori) e l’andamento dei dati fa pensare che questo divario si amplierà sempre di più col passare del tempo: oggi il Financial Times vende in media 230 mila copie al giorno in tutto il mondo, il 15 per cento in meno rispetto ad appena un anno fa. Ancora Barber: “Il nostro piano è quello di lanciare una sola edizione cartacea a livello globale nella prima metà del 2014. Il nuovo Ft verrà ridisegnato e aggiornato per riflettere i nuovi gusti e le nuove abitudini di lettura. Il nuovo Ft dovrà trasmettere come sempre autorevolezza e qualità, offrendo una potente combinazione di articoli, immagini e dati per spiegare i più importanti fatti del giorno. Il giornale resterà una parte vitale del nostro business. Ma, soprattutto, sarà prodotto con modalità diverse e più semplici. I cambiamenti avranno un impatto sulla struttura della redazione e sul modo in cui si esplica il nostro giornalismo”. Meno gente a scrivere articoli per la carta, dunque, ma soprattutto meno attenzione alle hard news, le notizie nude e crude: “I nostri giornalisti si disancoreranno dalle notizie hard e daranno invece più contenuti a valore aggiunto, contestualizzando le notizie pur rimanendo fedeli al nostro obiettivo tradizionale: fare buon giornalismo investigativo. I nostri redattori dovranno abituarsi a fare più pre-pianificazione, per decidere con cognizione di causa come trattare le news per la stampa e per l’online. Ciò richiede un cambiamento di mentalità dei responsabili redazionali e dei giornalisti, ma è assolutamente questa la strada da seguire nell’éra digitale”.
Un cambiamento importante, quello che si appresta a fare il Ft, forse uno dei pochi a poterselo permettere in un periodo di crisi e orizzonti ristretti per la sopravvivenza economica del giornalismo mondiale. Barber ne è consapevole, arrivando a dire la verità sul metodo di lavoro – “è morto per sempre il processo produttivo del giornale mutuato dagli anni Settanta, che ha subìto cambiamenti nel tempo solo per aggiungere edizioni locali nel corso della notte” – e pronunciando quella che per le orecchie di molti sedicenti puristi dell’informazione tradizionale suona come una bestemmia: “In futuro, il giornale cartaceo deriverà dal web e non viceversa”.
Quel futuro è già arrivato. Qualche giorno fa, Katherine Viner del Guardian ha raccontato un episodio interessante. Intervistando un giornalista che ha sempre lavorato nella carta stampata si sente rispondere così alla domanda se si sentisse pronto a lavorare nelle digital news: “Be’, ho già un computer, lo uso da anni”. La risposta, come fa notare Viner, dice molto di come il cambiamento in atto nel mondo dell’informazione da molti sia visto soltanto come un salto tecnologico, un passaggio importante sì, ma al massimo analogo a quello dalla macchina per scrivere al pc. Ovviamente non è così. E’ innanzitutto il lettore a essere cambiato, sottolinea la giornalista del Guardian, il quotidiano inglese che più di ogni altro ha puntato sul digitale negli ultimi anni, con ottimi risultati in termini di clic ma ancora scarse entrate economiche. Innanzitutto, il lettore moderno vuole informazioni gratis, le prende da dove capita e rimane poco tempo a leggere o guardare notiziari. Una ricerca dell’americano Pew Research Center spiega che i giovani dai 18 ai 31 anni passano 46 minuti in media al giorno a informarsi, molto meno rispetto alle generazioni più vecchie, che vanno dai 66 minuti di chi ha dai 33 ai 47 anni fino agli 84 degli ultra sessantenni. Giovani generazioni più distratte e meno attente? No, suggeriva Jeff Jarvis su BuzzMachine, semplicemente più veloci a procurarsi le notizie. Negli ultimi anni, spiega Jarvis, siamo stati abituati a pesare i lettori per ricavare denaro dalla pubblicità: più clic uguale più denaro, più tempo passato sulle pagine del nostro sito uguale più inserzioni. Ora che la gioiosa macchina da soldi dell’advertisement si è inceppata, però, emerge con forza quanto tale sistema fosse fragile. Per questo, suggerisce Jarvis, più che cercare un “pubblico fedele” forse i media dovrebbero puntare a creare un “pubblico informato”, misurando il successo non sul tempo passato dai lettori sulle proprie pagine, ma sulla velocità con cui raggiungono la notizia che interessa loro.
Che questo possa muovere più pubblicità è difficile, ma potrebbe invece piacere a eventuali investitori. I quali, secondo diversi osservatori, sono la sola salvezza del giornalismo di qualità: lo scriveva quest’estate su Reuters l’esperto di media Jack Shafer, spiegando che i giornali non hanno mai prodotto guadagni, neppure in passato, e lo ha ribadito su PaidContent.com Mathew Ingram qualche giorno fa: “Il fatto spiacevole – ha scritto – è che il giornalismo online non può sopravvivere senza un facoltoso benefattore o le foto dei gattini”, là dove per “foto di gattini” si intendono tutti quegli articoli, video e gallerie fotografiche di curiosità (spesso semipornografiche) che nulla hanno a che vedere con le notizie, ma che attirano clic e visitatori, facendo impennare le visite e aumentare la pubblicità. Forse un po’ tranchant, Ingram nel suo cinismo non ha tutti i torti. Proprio per questo ci si sta ingegnando per trovare una terza via: non tutti hanno la fortuna del Washington Post, appena comprato dal ricco Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, che ha salvato la storica testata da una crisi in cui la proprietà era impatanata da anni.
Quale possa essere questa terza via ancora non è dato a sapersi. Non con garanzia di successo, almeno. Il dibattito sull’utilità dei paywall – un limite di articoli da leggere oltre il quale bisogna pagare un abbonamento – ha assunto i toni di quello sulla primogenitura dell’uovo rispetto alla gallina: è troppo presto per trarre conclusioni, anche se là dove è stato inserito a “difesa” di notizie esclusive e di qualità pare abbia funzionato (da poco il New York Times ha persino ristretto il numero di articoli fruibili gratuitamente). Ci sono i fondamentalisti del tutto gratis a ogni costo (a cui viene giustamente obiettato: “E come li paghi i giornalisti?”) e chi si illude che basti mettere a pagamento gli articoli per salvare l’economia dei giornali (quando invece su blog e altri siti si possono trovare gratis gli stessi pezzi). Il tempo dirà chi ha ragione, ma è certo che il dilemma impensierisce soprattutto i quotidiani generalisti, che mettendo a pagamento contenuti facilmente reperibili sui portali della concorrenza vedrebbero calare il proprio pubblico. Il problema è che spesso il giornalismo diventa churnalism (dall’inglese churn, bidone), cioè si limita a recuperare – copiandoli – pezzi di agenzie e comunicati stampa e li spaccia come articoli. E’ ancora Katharine Viner a spiegarlo sul Guardian: “Nel suo libro del 2009, ‘Flat Earth News’, Nick Davis raccontò che l’80 per cento delle storie pubblicate sui giornali di qualità inglesi non erano originali, e che appena il 12 per cento erano effettivamente frutto del lavoro dei reporter”. Tutti seguono le stesse storie, raccontando gli stessi particolari e segnalando le stesse curiosità. Quando il neonato principe George è uscito dall’ospedale di Londra, c’erano centinaia di fotografi e cameramen ad aspettarlo. Che cosa sarebbe successo, si chiede Viner, se qualcuno di loro invece di essere lì fosse stato altrove? Forse avremmo letto sui giornali del giorno dopo altre notizie.
Un fatto da tenere in considerazione è la differenza di pubblico a cui la stessa testata si rivolge online e in edicola. Parliamo di Italia. Dal rapporto sulla comunicazione pubblicato ieri dal Censis emergono dati interessanti: la percentuale dei giovani connessi in rete ha superato il 90 per cento, mentre gli anziani sono appena il 21 per cento; i lettori di quotidiani cartacei sono scesi del 2 per cento rispetto all’anno scorso (del 24 per cento rispetto al 2007), restano stabili i lettori di quotidiani online (quasi il 21 per cento della popolazione) e crescono leggermente i fruitori di siti di informazione diversi da quelli delle testate storiche (34,3 per cento). Sono gli anziani i maggiori lettori di quotidiani (52,3 per cento), mentre gli under 30 preferiscono informarsi online, soprattutto sulla timeline di Facebook: appena due su dieci tra loro vanno in edicola a comprare un giornale (e altrettanti lo leggono su tablet). Almeno in prospettiva, dunque, continuare a mantenere la maggior parte delle forze impegnata sulle edizioni cartacee potrebbe non essere la soluzione migliore per sopravvivere riuscendo nel contempo a fare informazione di qualità.
Parlando ieri a Pisa sul tema della crisi dell’editoria, Carlo De Benedetti si è detto convinto che ci sia “ancora un ruolo fondamentale da svolgere per le testate giornalistiche, cioè per le organizzazioni che per professione ricercano, selezionano, gerarchizzano e propongono le informazioni secondo criteri stabiliti all’interno di un rapporto fiduciario tra esse e il loro pubblico”.
Già, ma come? Tralasciando per motivi di spazio il pur centrale tema del finanziamento pubblicitario online – da ripensare, come diceva De Benedetti – editorialmente l’esempio del Financial Times può essere d’aiuto: una versione cartacea leggera di analisi e approfondimento delle notizie per la maggior parte già note ai lettori che deriva da una versione online più rapida e capace di portare il lettore (per lo più giovane) subito al punto. C’è però un’altra arma nelle mani delle redazioni: il sabato e la domenica, infatti, sono i giorni in cui i quotidiani vendono più copie. L’annotazione è banale, ma ricca di conseguenze: il lettore che in settimana si accontenta di arrivare alle notizie velocemente e dedicando loro poco tempo, nel fine settimana spesso ama approfondire temi e argomenti appena sfiorati dal lunedì al venerdì. Proprio partendo da questa osservazione (supportati dai dati delle vendite), il Guardian a settembre ha proposto una nuova edizione del weekend chiamata “We own the weekend”, il fine settimana ci appartiene. Lanciata in grande stile, con video promozionali di alta qualità, l’operazione del popolare giornale inglese mira a occupare in modo intelligente il tempo libero dei lettori abituati al clicca e fuggi settimanale: “Il nostro giornale vi dà così tanto da leggere e così tanto da fare che abbiamo messo il nostro marchio di fabbrica sulla parte migliore del fine settimana”, è lo slogan che ha scandito il lancio della nuova edizione.
Approfondimenti, inserti speciali, lunghi articoli e fotografie per accompagnare il lettore con molte pagine da sfogliare. Il fatto che a lanciare (o ri-lanciare) questa idea sia il quotidiano più digitale al mondo non è un controsenso: anche i più accaniti sostenitori del mondo digitalizzato hanno capito che – almeno per un po’ – la carta non morirà, ma certamente va cambiata. In un articolo apparso qualche settimana fa sul sito dell’Osservatorio europeo del giornalismo, si faceva notare come la scelta del Guardian non sia isolata: la svizzera NZZ am Sonntag ha da poco lanciato una nuova versione dell’edizione domenicale. Più pagine dedicate ai commenti, alla cultura e agli approfondimenti finanziari. Il direttore Felix Müller è convinto che “i giornali, in particolare i domenicali, continueranno a suscitare un grande interesse e una grande attenzione tra i lettori”.
Ma basta leggere l’ambizioso piano editoriale in discussione in questi giorni al Corriere della Sera per capire che anche in Italia la tenedenza è questa: “Il Corriere della Sera – si legge nel documento messo in rete qualche giorno fa da Prima comunicazione – ora al centro di un sistema complesso e ininterrotto di informazione, deve diventare rapidamente un prodotto molto più selezionato negli argomenti, capace di non seguire un’agenda di giornata che almattino dopo sarà inevitabilmente usurata. Deve dare, in ogni pagina, un valore informativo e di opinione che meritino l’acquisto in edicola. I nostri pezzi rituali vanno aboliti, una notizia d’agenzia può essere solo lo spunto per fornire al lettore qualcosa di davvero diverso da quello che in larghissima parte già conosce”.
Il modello è simile a quello lanciato dal Guardian e annunciato da Financial Times e che i lettori del Foglio, nel loro piccolo, conoscono già: “Il quotidiano dovrà avere una foliazione più contenuta nei giorni lavorativi della settimana – si legge ancora nel documento del Corriere – Non dobbiamo più dare al lettore tantissime cose lasciandogli il peso di scegliere: ha poco tempo da dedicare alla lettura, dobbiamo essere noi a selezionare per lui. L’altra faccia della medaglia è il giornale del fine settimana”.
“Non è il momento di fermarsi – scriveva Barber ai redattori del Financial Times – Diventa più forte che mai la concorrenza tra chi meglio si adatta a un ambiente dove è normale informarsi sui desktop, sugli smartphone e sui tablet. Il ritmo del cambiamento, guidato dalla tecnologia, è implacabile. Ma se affrontiamo nel modo giusto il cambiamento e innoviamo, continueremo a produrre giornalismo di livello mondiale, che è ciò di cui siamo tutti orgogliosi”. Lettori guidati da una fonte autorevole sulla carta nel weekend e liberi di costruirsi la propria rete di informazione online dal lunedì al venerdì. Potrebbe essere questa la chiave del futuro prossimo dell’informazione. Un’informazione a due velocità: rapida, efficace e liquida in settimana; ponderata, utile, originale e bella graficamente il sabato e la domenica.
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