Morte (e ritorno) del re

Edoardo Rialti

“La nave veleggiò nell’alto mare e passò a ovest, e infine, in una notte di pioggia sentì nell’aria una fresca fragranza e dei canti giungere da oltre i flutti allora gli parve che la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba”. E’ su questa soglia che si chiude il viaggio di Frodo ne “Il Signore degli anelli” di Tolkien, il romanzo fantastico più celebre della storia e una delle opere più lette del Novecento; dopo battaglie e vittorie insperate, orrori e dolori, il protagonista, ferito di una piaga che non guarisce, salpa per occidente, ed è con quella fuggevole immagine che il narratore ce lo consegna per un ultimo sguardo.

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    Ha scritto il romanzo più celebre del suo tempo, tenendo svegli a tarda notte bambini, operai, professori universitari, poeti, mistici. Ha immaginato continenti, razze, mostri, e ha valicato raramente i confini della sua città. Ha raccontato una storia per i suoi figli e i suoi amici, senza sapere che sarebbero stati milioni di persone. Ha ripreso antichi miti scovati in pergamene polverose, facendo respirare al Novecento una boccata d’aria fresca. Le destra e la sinistra se lo sono conteso a Woodstock e nei Campi Hobbit. Ha suscitato amori che durano per tutta la vita, e avversioni altrettanto violente. Ha ispirato Auden, Asimov, Stephen King, ma anche i Led Zeppelin, i Beatles, George R. R. Martin, e ovviamente Peter Jackson. Un padre, un artista, un cattolico monarchico innamorato degli alberi e del tabacco: questo e molto altro è J. R. R. Tolkien, di cui il Foglio intende raccontare, con documenti e traduzioni inedite, la vita e le opere, e attraverso di esse il nostro stesso tempo. Quello che segue è il primo di una serie di articoli che usciranno settimanalmente sulle pagine del Foglio.

    “La nave veleggiò nell’alto mare e passò a ovest, e infine, in una notte di pioggia sentì nell’aria una fresca fragranza e dei canti giungere da oltre i flutti allora gli parve che la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba”.

    E’ su questa soglia che si chiude il viaggio di Frodo ne “Il Signore degli anelli” di Tolkien, il romanzo fantastico più celebre della storia e una delle opere più lette del Novecento; dopo battaglie e vittorie insperate, orrori e dolori, il protagonista, ferito di una piaga che non guarisce, salpa per occidente, ed è con quella fuggevole immagine che il narratore ce lo consegna per un ultimo sguardo.

    T. S. Eliot, citando Maria Stuarda al patibolo, aveva scritto negli stessi anni che “nella mia fine è il mio principio”; parafrasandolo si potrebbe dire la stesso, e l’opposto, proprio di Tolkien: quell’immagine non poteva che attendere la struggente chiusa del libro con cui avrebbe incantato così tanti milioni di lettori, perché era ciò che aveva segnato l’inizio della sua vita, e non avrebbe mai smesso di accompagnarla. Gli eventi della sua biografia sono infatti scanditi, fin dai primissimi anni – citando “Lo Hobbit” – da un’“andata e un ritorno” da una sponda all’altra dell’oceano, e da un’altra figura che ha preso la via del mare, qualcuno che, per uno strano caso, porta proprio il nome del re ferito di cui le leggende inglesi attendono ancora il ritorno, e che, esattamente come Frodo, salpa per guarire su un’isola fatata. Arthur Tolkien, padre di John Ronald Reuel.

    E’ da Bloemfontein, stato libero dell’Orange, che, come racconta il biografo H. Carpenter, il giovane responsabile britannico della Bank of Africa Arthur Tolkien assieme alla moglie Mabel scrive in Inghilterra il 4 gennaio 1892: “Mia cara mamma, questa settimana ho una buona notizia per voi. Mabel la scorsa notte mi ha regalato un bellissimo bambino. Il bambino è ovviamente adorabile. Ha belle mani, con le dita lunghe, e belle orecchie, capelli biondi, occhi alla Tolkien e una bocca chiaramente ‘Suffield’. In generale dà proprio l’impressione di essere una versione molto carina di sua zia”.

    Chi sarebbe divenuto poi uno dei filologi più rispettati di Oxford e avrebbe inventato interi linguaggi e grammatiche, non poteva che soffermarsi con attenzione sul proprio stesso nome, quel J. R. R. che sarebbe comparso, oltre ogni sua previsione, sulle t-shirt degli adolescenti di mezzo mondo. Anzitutto John, “molto amato e molto usato dai cristiani e dato che sono nato nel giorno di San Giovanni Evangelista lo considero il mio patrono – anche se né mio padre né mia madre, all’epoca, avrebbero pensato a qualcosa di così romano come darmi un nome perché era quello di un santo”. Quanto agli altri “mio padre propendeva per John Benjamin Reuel (che adesso sarebbe piaciuto anche a me); mia madre era sicura che sarei stata una femmina e dato che le piacevano nomi più romantici (e meno biblici) aveva deciso per Rosalinda. Quando nacqui io, prematuro, e maschio, benché debole e sofferente, Rosalind venne sostituito con Ronald. Allora era abbastanza raro in Inghilterra come nome cristiano… benché oggi, ahimè!, sembra diffuso tra i criminali”. Anche l’amico C. S. Lewis avrebbe sempre mal sofferto di essere chiamato Clive, e si autoproclamò “Jack”. Tolkien per gli amici e gli intimi sarebbe stato sempre e soprattutto “John Ronald” oppure “Tollers”. E non si può non sorridere leggendo i complimenti con cui la madre Mabel lo descrive alla suocera: “Il bambino assomiglia a un essere fatato quando è tutto vestito con fiocchi e scarpe bianche… e quando è svestito mi sembra che assomigli, ancor più, a un elfo”. Non poteva certo immaginare che sarebbe stato proprio lui che, per dirla con Stephen King, avrebbe dato al Novecento tutti gli elfi e i maghi di cui avrebbe avuto bisogno.

    La prima foto di famiglia, nelle parole di Carpenter, ce lo mostra con la madre e la balia mentre “Arthur, sempre un poco dandy, sfoggiava un abito bianco, la paglietta in capo e una posa spiritosa; alle loro spalle stavano in piedi i due servitori di colore, la cameriera e il garzone Isaak, entrambi visibilmente felici e sorpresi per lo straordinario privilegio di essere inclusi nella fotografia”. Sarà proprio il garzone a “rapire” senza malizia il bambino, per mostrarlo come una meraviglia bianca al suo villaggio. Nonostante lo spavento non sarà cacciato e in segno di riconoscenza chiamerà a sua volta il proprio figlio Izaak Mister Tolkien Victor. L’amore per il linguaggio e per il disegno, due passioni che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita, si mostravano già allora: ancora assai piccolo Tolkien “parlava con scioltezza e intratteneva gli impiegati della banca nella sua visita quotidiana all’ufficio del padre, dove ogni giorno chiedeva carta e matita per disegnare e scarabocchiare”.

    Mabel, John Ronald e il fratellino Hilary precedettero Arthur in Inghilterra nel 1895. Il lavoro nella filiale lo obbligava sempre a rimandare. Ma sei mesi dopo le febbri reumatiche resero la sua situazione sempre più grave, tanto che la moglie iniziò i preparativi per raggiungerlo nuovamente con i bambini.
    Mancava poco alla partenza e il 14 febbraio 1896 Tolkien dettò alla balia questa letterina a quell’uomo lontano e ammalato, di cui ricordava solo il gesto di incidere le iniziali del proprio nome sui loro bagagli: “Carissimo papà, sono così felice di tornare indietro e rivederti dopo tanto tempo da quando siamo venuti via e spero che la nave ci porti tutti da te”. Ma, racconta Carpenter, “la lettera non fu mai spedita, perché nel frattempo arrivò un telegramma”, quello della morte di Arthur.

    Il rigoroso docente dell’Alto Medioevo inglese, il cantore di tante fiabe e leggende fu sempre un accanito avversario degli psicologismi letterari: “Sono contrario alla tendenza attuale della critica, con il suo eccessivo interesse per i dettagli delle vite degli autori e degli artisti. Solo l’angelo custode di ognuno di noi, oppure Dio stesso, è in grado di svelare la vera relazione che c’è tra i fatti personali e le opere di un autore”. Paragonava critici siffatti al suo malvagio mago Saruman che “rompe un oggetto per sapere com’è fatto”. L’amico scrittore C. S. Lewis, l’autore di “Narnia”, li chiamava quelli “del gatto invisibile”, per cui se ci fosse un gatto invisibile non lo si vedrebbe e siccome non lo si vede c’è davvero un gatto invisibile. Investigare il tema inconscio della paternità mancata nella sua scrittura facendo ad esempio l’elenco dei protagonisti orfani nelle opere di Tolkien, che pure non sono pochi (basti pensare ai due protagonisti come Frodo ed Aragorn) sarebbe forse accolto dal suo naturale riserbo inglese come una invadenza maleducata e malriposta, oltre che come “abbandonare il sentiero della saggezza”. Ben più interessanti, e ben più espliciti, sono altri temi al riguardo. Uno sarà quello che Tolkien stesso definirà il suo “complesso di Atlantide”: l’immagine di un’intera civiltà travolta da “un’onda inevitabile che si ergeva all’improvviso, alle volte da un mare quieto e, altre volte, incombendo sulle terre verdi”. Ed è contro tale immane distruzione che, nella sua immaginazione, si leva proprio un rapporto padre-figlio. Per tutta la vita Tolkien tornerà a raccontare la caduta di Númenor, la splendida città umana che, istigata dal demoniaco Sauron, si arroga il diritto di salpare per le terre degli deì e conquistarne l’immortalità. Una delle numerose variazioni sul tema che Tolkien dedicherà a questo racconto fu l’abbozzo di un romanzo che in più di un aspetto precorre “La strada” del premio Pulitzer McCarthy, fin dal titolo: “La strada perduta”. Il progetto era ambizioso: comprendeva un padre e un figlio, oggi, a discorrere assieme sulla riva del mare. La scena si sarebbe ripetuta ancora e ancora con coppie simili, ognuna qualche centinaia di anni prima nella stessa linea ereditaria, risalendo al Medioevo longobardo eppoi su fino, appunto, all’immaginaria Númenor, dove un padre e un figlio decidono di opporsi al folle progetto dei seguaci di Sauron, cercando di restare fedeli all’onore, alla dedizione agli dei, e all’amore reciproco mentre tutto un mondo cadrà a pezzi.

    “Atarinya tye-melàne” ti voglio bene, padre, “A yonya inye tyeméla”, anch’ io ti voglio bene, figlio: è su queste semplici parole, le stesse che tante volte ricorreranno tra i grattacieli dilianati di McCarthy, che si suggella la resistenza dei due che fuggiranno, come Noè, dalla rovina imminente.

    L’ambizione di quel vasto disegno non sarebbe mai stata del tutto abbandonata, come confidò una volta Tolkien stesso: “Non ridere! Una volta avevo in mente di creare un corpo di leggende più o meno legate, che spaziasse dalla cosmogonia, più ampia, fino alla fiaba romantica, più terrena, che traeva il suo splendore dallo sfondo più vasto – da dedicare semplicemente all’Inghilterra, alla mia terra… Naturalmente c’era ed esiste tuttora il ciclo arturiano, ma pur nella sua potenza, è solo imperfettamente naturalizzato”. Ed è appunto al misterioso viaggio al di là del mare che Tolkien dedicò negli anni Trenta il suo incompiuto poema “La cadutà di Artù”, edito per la prima volta proprio in questi mesi dal figlio Christopher. Tra le annotazioni su come la storia avrebbe dovuto proseguire troviamo, ancora e ancora, non soltanto la tradizionale conclusione per cui “Artù muore al tramonto. Ladri percorrono il campo… la nave nera risale il fiume. Arthur vi viene deposto” ma anche il cortocircuito narrativo per cui la fatata isola Avalon verso cui Artù viene portato del folklore britannico diventa proprio la Valinor dei miti tolkieniani, quell’Oltre che non si può conquistare ma a cui può essere solo, graziosamente, concesso di accedere. Non solo: a differenza delle consuete leggende, in Tolkien non è solo Artù a partire; alla fine anche “Lancillotto prende una barca, parte verso occidente per non fare più ritorno”. Sarà così anche nella parte conclusiva della sua trilogia, quel “Ritorno del re” dal titolo così esplicitamente arturiano. Alla fine tutti i protagonisti, magari dopo anni di distanza, “passeranno in occidente”, con tutta la potenza allusiva di quel “passare”. Anche Sam il giardiniere, piangendo vede salpare il suo caro padrone Frodo, al pari dei cavalieri arturiani, “rimase lì immobile, udendo soltanto il sospiro e il mormorio delle onde sulle spiagge della Terra di Mezzo, e il rumore penetrò sino in fondo al suo cuore”. E un giorno anche per lui tale richiamo chiederà di essere ascoltato.

    Questo “finale arturiano” – come Tolkien stesso lo definì – sarebbe sempre rimasto, perché già c’era, nelle profondità della sua anima e del suo sguardo. Il mare, il padre, e Artù. Quel mare, solcato da bambino e scrutato in attesa di potersi ricongiungere a un padre che si ricorda a malapena, sarebbe stato per Tolkien sempre carico di una voce assieme dolce e triste; nelle sue opere si parla sempre dell’oceano e delle sue “musiche grandi e terribili; e l’eco di quei suoni percorre tutte le vene del mondo in gioia e in tristezza; poiché, se gioiosa è la fonte che zampilla al sole, le sue sorgenti si trovano nei pozzi di insondabile dolore alle fondamenta della terra”. Questo perché “nell’acqua tuttora vive l’eco della Musica degli Ainur più che in ogni altra sostanza reperibile su questa Terra; e molti continuano a prestare orecchio insaziato alle voci del Mare, pur senza capire che cosa odano”. Per Tolkien, echeggiando Agostino e Dante, ascoltare quella musica angelica nelle onde del mare e nei gridi dei gabbiani, e struggersi per essa, costituiva parte di quel dono misterioso che Dio, Ilúvatar, Colui che è “Padre di tutti”, ha concesso agli uomini: “Volle dunque che i cuori degli uomini indagassero aldilà del mondo, e in questo mai trovassero pace”. Un dono di cui fa parte, misteriosamente, la morte stessa. Per tutta la vita, in tante storie e sfumature diverse, si sarebbe sempre arrivati, da principio o alla fine, a una qualche candida spiaggia, da cui partire o vedere qualcuno partire; Tolkien avrebbe sempre raccontato quell’incantesimo segreto, quel richiamo. Tutta la sua vita, tutti gli anni passati a lavorare, amare la sua famiglia e i suoi amici, a scrivere e dibattere, sarebbe stata in una piccola, cara isola verde, circondata dal misterioso canto del mare, e dalla voce di un padre, tanto umano quanto Divino, che vi mormora delle antiche parole: "A yonya inye tyeméla”. Ti voglio bene, figlio.

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