Pallonari e tagliateste

Beppe Di Corrado

C’è quella scena di “Moneyball” dove Brad Pitt insegna al suo giovane assistente come si comunica a un giocatore che è stato tagliato. “Tu preferiresti un colpo alla testa o una sventagliata al petto che ti fa morire dissanguato?”. Si fa in fretta. Poche parole, senza spiegazioni, senza incartarsi. Grazie, non è stato bello. Bisogna spiegarlo a Maurizio Zamparini ed Enrico Preziosi. Sono rimasti i due presidenti che esonerano, che cacciano, che tagliano. Lo fanno al contrario. Spiegano da Adamo ed Eva il perché e il per come, in una specie di excusatio non petita costante che stride con l’immagine che entrambi vogliono dare di se stessi.

    C’è quella scena di “Moneyball” dove Brad Pitt insegna al suo giovane assistente come si comunica a un giocatore che è stato tagliato. “Tu preferiresti un colpo alla testa o una sventagliata al petto che ti fa morire dissanguato?”. Si fa in fretta. Poche parole, senza spiegazioni, senza incartarsi. Grazie, non è stato bello.
    Bisogna spiegarlo a Maurizio Zamparini ed Enrico Preziosi. Sono rimasti i due presidenti che esonerano, che cacciano, che tagliano. Lo fanno al contrario. Spiegano da Adamo ed Eva il perché e il per come, in una specie di excusatio non petita costante che stride con l’immagine che entrambi vogliono dare di se stessi: se vuoi apparire come il decisionista che non guarda in faccia a nessuno, non devi giustificarti. “Non dobbiamo spiegazioni a nessuno”, dice Brad in versione Billy Beane. Né agli interessati, né ai collaboratori, né alla stampa, né ai tifosi. Invece il pallone italiano anticipa, addirittura mette le mani avanti: se Tizio, o Caio, non vince questa partita, rischia. E’ un logoramento infinito in cui il presidente e l’allenatore giocano a Tom & Jerry. Uno scappa l’altro rincorre. E il gioco finisce sempre nella stessa maniera: il presidente alla fine caccia l’allenatore ma lo paga comunque e continua a disegnare di ss stesso il ritratto del tagliatore di teste. La domanda che torna ogni volta è questa: ma che senso ha? Zamparini ha licenziato Gattuso poche settimane fa. A cose fatte i giornali hanno scritto che l’idea maturava dall’inizio della stagione. Se è così la domanda diventa anche più semplice: perché prenderlo?

    C’è, nelle vicende dei presidenti amanti dell’esonero, una serie di elementi che s’intrecciano: l’irascibilità, la voglia di visibilità, la presunzione, il rischio d’impresa. Ognuno lo fa a modo suo, tutti però condividono queste quattro caratteristiche. Zamparini è diventato un fenomeno di costume, scavalcando lo sport. E’ un termine di paragone per chiunque decida di licenziare qualcuno. Sarebbe da studiare nelle specializzazioni in risorse umane. Avete presente George Clooney nel film “Up in the air”? Ecco, il suo opposto, proprio come opposto di Brad Pitt. Alla calma preferisce la rabbia, al silenzio il rumore.

    Quindi urla, sbraita, minaccia. Al pallone questi personaggi sono utili perché stanno tra il serio e il semiserio: mettono i soldi veri, costruiscono squadre vere, poi si comportano da attori della commedia all’italiana. E’ il prosecutore della specie dei provocatori: Anconetani, Rozzi, Gaucci. Condivide questo ruolo con Spinelli, il quale però è appena tornato in serie A; poi con Cellino, che però negli ultimi tempi sembra essersi dato una calmata. Ci sarebbe De Laurentiis. Anzi c’è De Laurentiis, ma è già andato troppo avanti, troppo in Europa. Vive a un livello che probabilmente Zamparini vorrebbe raggiungere dopo esserci andato vicino, ma che adesso dista moltissimo. Ha se stesso, quindi. Neo capostipite della generazione dei presidenti urlanti. L’idea di base l’ha sviluppata da bambino: “Io sono nato su un campo di calcio, ce l’ho nel sangue. Una finestra dava sul cortile, l’altra sul campetto. Il primo pallone del paese l’ho avuto io. Me lo ha regalato il marito di mia zia, un capitano inglese. Era cucito con gli spaghi, un numero cinque, quando colpivi di testa ti lasciava i segni rossi. Il pallone era mio e quindi la squadra la facevo io”. E’ rimasto lì e nessuno ha capito ancora se sia un bene o un male. Lì sarebbe a Palmanova, sulla strada. Così quando le cose non vanno bene, prende e comincia a fare come i ragazzini che devono comandare: tu dentro e tu fuori, ciao. Grazie, non è stato bello, appunto. Il caso Delio Rossi di qualche stagione fa è il simbolo di un modo di lavorare che s’aggrappa più all’istinto che alla lucidità: si prende un allenatore che piange per la propria squadra e lo si manda via solo perché non vuole ascoltare il presidente sull’impostazione della difesa. Dici: è lui che paga. Giusto, però, è l’allenatore che trascina una squadra anche quando conta poco, anche quando deve soltanto fare da balia ai calciatori. Zamparini fa il padrone: così è, anche se non vi pare. Così è, punto. Ciao ciao Delio Rossi, allora. Come ciao ciao Gattuso poche settimane fa. Come ciao ciao a tutti: 52 cambi di panchina in poco più di vent’anni di pallone. L’ha fatto con tutti, anche con gli allenatori ai quali ha voluto bene, ma dai quali s’è separato ugualmente. Amicizie stravolte per tre partite, per un giocatore fatto giocare poco o troppo. Per ferire Francesco Guidolin, dopo un Roma-Palermo di qualche anno fa, se ne uscì con quel colpo di sciabola: “Il mio tecnico sta rovinando la squadra, deve imparare da Spalletti, lui è un grande allenatore”. Come no. Luciano era lo stesso allenatore e la stessa persona che nel 1999 chiamò “sfigato”: “E’ bravo e preparato, ma non vincerà mai”. L’aveva preso quando era il proprietario del Venezia. La squadra l’aveva comprata nel 1987 per provare a vedere se l’idea poteva diventare futuro: il pallone e col pallone le televisioni, la fama, la gloria. Unì le società di Venezia e Mestre fregandosene della rivalità immensa e degli istinti autonomisti dei mestrini che alla fine degli anni Ottanta avevano deciso di diventare indipendenti, di staccarsi il peso di Venezia, di fare per conto loro. Per non scontentare alcuno fece creare le nuove divise arancio-nero-verdi. Univano i colori dei due club, non le teste però. Allora botte: prima di arrivare in serie B e poi in A, la curva del Sant’Elena era più spaccata dentro che fuori, aveva nemici intestini più che esterni. Zamparini liquidò l’odio tribale con un bel chissenefrega: tanto lui allo stadio non ci andava e non ci va, la partita se la guarda in tv. I tifosi sono uno strumento: quando pretendono gli danno sui nervi, quando lo portano in trionfo, appoggiano una delle sue battaglie contro il Palazzo del pallone, allora sono la “vera risorsa del calcio”. Equivoci.

    Equivoci sempre: la coerenza non fa parte del patrimonio genetico di questo signore alto e possente, nato nel Friuli di Palmanova e cresciuto nel varesotto di Vergiate. Tanto per dirne una: la sua squadra, quella vera, quella per cui fa il tifo, è l’Udinese. Poi viene il Milan. “Ma se gioca Udinese-Milan, tengo all’Udinese”. Quelle di proprietà, invece, sono degli investimenti: Venezia prima e Palermo poi. Ma avrebbe potuto essere anche il Genoa, che era praticamente suo quando le trattative con Sensi per il Palermo sembravano andate in coma. Invece è stato Palermo e con la Sicilia è arrivato un palcoscenico che ha ampliato le sue manie. Da istrione di provincia è diventato un personaggio. Le sue decisioni si sono trasformate in porte girevoli per tutti gli allenatori che ha avuto. Tutto fatto col massimo del baccano e col minimo della sobrietà, anche dopo l’esonero. Zamparini che caccia il mister che non fa risultati è una delle certezze del campionato, qualunque serie sia. Già un po’ di tempo fa lo diceva persino con una punta di vanto: “Di sicuro ne ho silurati più di trenta. In serie C un mister incide sui risultati al 90 per cento. In serie B al 60. In A in una piccola squadra al 50. In A in una grande squadra al 20 per cento”. In onore di questa teoria ha fatto fuori dai suoi club molti tecnici che poi ogni volta che hanno giocato contro le sue squadre l’hanno fatto pentire. Uno è Walter Alfredo Novellino, “l’unico che è riuscito a concludere con me due anni interi. Grande sul campo, ma all’opposto fuori: caotico, incostante, diffidente”. Un altro è Alberto Zaccheroni: “L’ho mandato via due volte. In B prima lo licenziai, poi lo richiamai, ci salvammo all’ultima giornata per differenza reti. Il suo famigerato culo cominciava a funzionare”. Un altro ancora è Luciano Spalletti: “Bravo, ma troppo sfigato”. Poi Cesare Prandelli: “E’ indubbiamente capace, ma ha bisogno di un puntello, di uno che lo sostenga, perché è un po’ debole”.

    Compra e vende, Zamparini. Soprattutto, però, licenzia. E’ rimasto il più grande tagliatore di teste che non ha mai pensato un solo minuto che la testa da tagliare a volte avrebbe potuto o dovuto essere la sua. A ruota lo segue Enrico Preziosi, rimasto probabilmente l’unico su quella scia. Uno che rischia e poi si pente. Quest’anno è accaduto con Liverani: ma chi l’ha obbligato al presidente del Genoa a puntare su una scommessa così? Dicono: ci ha provato. Bene, però per provarci allora bisognerebbe darsi più tempo. Allora aggiungono: ma tempo nel calcio non ce ne è. Vero pure questo, ma una soluzione bisogna pur trovarla e non può essere sempre quella di cacciare l’allenatore. Forse qualcuno s’è dimenticato il magico anno 2009. A un certo punto della stagione, fu licenziato dal Napoli Roberto Donadoni. Era l’inizio del campionato, mica la fine. Ecco: Donadoni diventò il dodicesimo uomo della squadra dei fannulloni della panchina. Loro malgrado. Pagati per non lavorare, stipendiati per guardare, salariati per stare a casa. Un capriccio da un milione di euro, quello di Donadoni. Il Napoli voleva tagliare l’ex ct della Nazionale che l’anno prima aveva firmato un triennale da tre milioni complessivi. La crisi? Il pallone piangeva miseria, già quattro anni fa. Ma niente. Allora, come oggi, quando si devono accontentare le voglie di cambiare dei presidenti, della crisi se ne fottono tutti. Non si fa mercato, magari. Non si comprano giocatori, per esempio. Però nessuno resiste alla tentazione dell’esonero costoso e spesso improduttivo. Non era il caso del Napoli, ovvio. Perché il Napoli i soldi per la squadra li aveva spesi anche quell’anno, però niente scrupoli all’idea di lasciar andare Donadoni sapendo di doverlo pagare per altri due anni. Nei giorni di quell’esonero, nella stessa condizione di nullafacente strapagato c’era Roberto Mancini, lasciato a casa dall’Inter nonostante un ingaggio annuale da otto milioni. Otto milioni sì, cioè più della metà del totale dello spreco che le squadre di A e B in quel momento stavano lasciando andare per il gusto o la necessità di cambiare panchina. L’avrebbe voluto De Laurentiis, Mancini. Invece sarebbe rimasto a guardare ancora un po’, a controllare il bonifico mensile che l’Inter gli versava nonostante non lavorasse. Triste il Mancio stanco di non fare niente, stanco anche Moratti che con quei soldi avrebbe potuto comprare un altro giocatore.

    Contemporaneamente a loro c’era il Brescia di Corioni che pagava Giuseppe Iachini (in panchina), più Alberto Cavasin e Nedo Sonetti silurato l’anno prima alla vigilia dei play-off promozione della serie B. Un allenatore e tre stipendi. Valeva anche per il Bologna: a Sinisa Mihajlovic staccava assegni mensili per un totale di quattrocentomila euro, però pagava anche Daniele Arrigoni che aveva lasciato il posto al serbo.
    I presidenti che licenziano gli allenatori piangono miseria, ma per i cambi in panchina non badano a spese, mai. In quei giorni dei 12 allenatori pagati per non lavorare, non lo fa l’Atalanta, che aveva puntato tutto su Angelo Gregucci, salvo poi decidere di farlo fuori per Antonio Conte. Né il Lecce: fatto fuori Mario Beretta in favore di Gigi De Canio. Speravano tutti che l’ex nemico lessicale di Mourinho, chiamato Barnetta per mezzo campionato, trovasse una sistemazione: invece niente. Il Lecce pagava, senza sconti. Così come doveva fare la Reggina sia con Bepi Pillon, sia con Nevio Orlandi.
    Facendo dei calcoli ballavano tredici milioni di euro. Soldi bruciati senza senso, perché nessuno sa mai stabilire quanto sia capriccio e quanto sia necessità. La relazione tra un allenatore cacciato e il rendimento di una squadra è indefinita. Quando la teoria dei big data sarà definitivamente applicata al pallone avremo una risposta. Nel frattempo ognuno fa come gli pare, a cominciare dallo stesso Zamparini, che pensava di potersi calmare e che invece non resiste alla tentazione di ridurre tutto alla scelta di un nuovo allenatore. Gattuso avrebbe dovuto essere il primo di una nuova èra, esattamente come Liverani per Preziosi. Dicevano (senza pensarlo davvero) che ne avrebbero fatto i Ferguson delle loro squadre: in panchina a prescindere dai risultati immediati, per un progetto, per un’idea di calcio e di rapporto club-allenatore-giocatori-tifosi. La bugia è durata meno di due mesi. Perché il provincialismo di guardare all’estero viene ucciso dal provincialismo di rimanere agganciati agli schemi del passato.

    Allora va bene tutto. Allora va bene continuare a dare i numeri, ciascuno i suoi. A Palermo sarà come dice lui e cioè che in serie B chi sta in panchina conta al 60 per cento. Nessuno ne ha la controprova. E probabilmente nessuno la avrà mai. I presidenti possono dire ciò che vogliono perché investire il proprio denaro in una squadra di calcio gli consente di parlare e soprattutto di far tacere gli altri. Presidente scusi? “Mi perdoni, ma i soldi sono miei e ne faccio quello che voglio”. Non c’è la crisi, né gli stadi vuoti, né la televisione che non ha più gli stessi milioni di una volta. I soldi sono una fisarmonica: non ci sono, ma se tocchi i tasti giusti escono. E il tasto giusto sta sempre in panchina. Facile e immediato. Fila tutto, tranne una cosa: se sbaglia un presidente chi paga? Non si parla di soldi, ma del resto.