Sull'Iran Netanyahu fa la Cassandra atomica e va da solo
“Se arabi e israeliani sono d’accordo su qualcosa, allora è meglio fare attenzione a quel qualcosa”. Così una fonte del governo israeliano che desidera restare anonima commenta con il Foglio la strana unità d’intenti di Arabia Saudita e Israele davanti al nuovo corso diplomatico tra Iran e Stati Uniti. Quel qualcosa su cui sono d’accordo sauditi e israeliani, che tra loro non hanno relazioni diplomatiche, è la certezza che le aperture offerte da Teheran nelle scorse settimane siano soltanto cosmetiche e che l’intento degli ayatollah sia quello d’ottenere un alleggerimento delle sanzioni internazionali senza rinunciare al programma atomico.
Tel Aviv. “Se arabi e israeliani sono d’accordo su qualcosa, allora è meglio fare attenzione a quel qualcosa”. Così una fonte del governo israeliano che desidera restare anonima commenta con il Foglio la strana unità d’intenti di Arabia Saudita e Israele davanti al nuovo corso diplomatico tra Iran e Stati Uniti. Quel qualcosa su cui sono d’accordo sauditi e israeliani, che tra loro non hanno relazioni diplomatiche, è la certezza che le aperture offerte da Teheran nelle scorse settimane siano soltanto cosmetiche e che l’intento degli ayatollah sia quello d’ottenere un alleggerimento delle sanzioni internazionali senza rinunciare al programma atomico.
Oggi a Ginevra si aprono i colloqui sulla questione nucleare tra Iran e il cosiddetto 5+1 (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Cina, Russia e Germania), ma Teheran non ha voluto aspettare il loro inizio per dettare le sue condizioni. “La fuoriuscita dell’uranio fuori dal paese è la nostra linea rossa”, ha detto ieri il ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi. Ora le dichiarazioni di Araghchi sembrano una sfida preventiva (e, secondo Max Fisher del Washington Post, funzionale ad acquisire forza sul tavolo negoziale) ai piani di Israele, favorevole ai colloqui ma pronto a sostenere soltanto un accordo internazionale nel quale l’Iran accetti di fare arricchire l’uranio al di fuori del paese. Eppure, dopo gli inediti eventi di due settimane fa all’Assemblea generale dell’Onu, teatro di un riavvicinamento storico tra Washington e Teheran culminato in una telefonata tra i presidenti Barack Obama e Hassan Rohani, l’ottimismo della comunità internazionale è palpabile.
A “rovinare la festa” – nelle parole di un funzionario israeliano riprese dai giornali nazionali – c’è Benjamin Netanyahu. Con una campagna mediatica senza precedenti per un politico poco propenso a parlare con i giornalisti, il primo ministro israeliano da giorni reitera il suo messaggio. In nove interviste concesse durante il viaggio a New York e, la settimana scorsa, in colloqui con televisioni e giornali francesi, tedeschi e britannici, Netanyahu chiede ai suoi alleati di non sfoltire le sanzioni a Teheran, piuttosto di rafforzarle. Per il premier sono state proprio le restrizioni economiche, spiega la fonte anonima, a portare alle attuali aperture. Nel fine settimana, il primo ministro ha anche telefonato al presidente francese François Hollande e al collega David Cameron a Londra, per chiedere sostegno. “Ignorate i sorrisi di Rohani”, ha detto Netanyahu alle telecamere di France 24. Da settimane, i politici israeliani parlano di una “charme offensive” di Teheran, di un tentativo di ammaliare la comunità internazionale per convincerla a eliminare misure economiche che negli anni hanno azzoppato l’economia iraniana, che pesano sulla popolazione e quindi sull’opinione pubblica.
L’opzione militare più difficile da soli
Una Cassandra: è questa una delle più recenti definizioni comparse sui giornali di Benjamin Netanyahu, il politico che da oltre 15 anni, all’opposizione o al governo, ha fatto della sicurezza d’Israele davanti alla minaccia nucleare iraniana la sua priorità. Il messaggio “è sempre passato con facilità” perché la leadership in Iran “era pazza”, spiega al Foglio Stephen Miller, consulente politico israeliano. “Poi, è arrivato Rohani, con la sua offensiva ammaliatrice: ora che il mondo è stato ammaliato è più difficile per Netanyahu continuare ad attaccare. E’ isolato”.
Scrive il New York Times, che lo ha intervistato pochi giorni fa, che Netanyahu nel suo ufficio ha una fotografia di Winston Churchill. Gli piace l’ex premier britannico, dice, perché è stato capace di vedere il pericolo in anticipo su tutti. L’insistenza quasi ossessiva sull’Iran diventa per il premier israeliano una sfida. Il quotidiano di New York, che in un editoriale di alcuni giorni fa ha definito potenzialmente disastrosa la possibilità che Netanyahu si opponga alle nuove opportunità di dialogo, parla di un leader solitario: “Rischia di sembrare congelato nel passato nel mezzo di un panorama politico in trasformazione”, “sempre più solo all’estero e in casa”.
Molti governi hanno deciso di dare una possibilità a Teheran, senza però aver ancora accennato a concessioni. Dagli Stati Uniti, anche organizzazioni ebraiche, che come Netanyahu reputano di facciata le aperture iraniane, hanno però consigliato al premier di cambiare i toni. In un editoriale sul quotidiano israeliano Haaretz, il direttore dell’American Jewish Committee, David Harris, ha scritto: “A meno che Israele non voglia continuare a trovarsi solo sulla scena mondiale, dovrà trovare nuove vie per esporre i suoi argomenti… Insinuare soltanto che chiunque sieda con Rohani sia un moderno Neville Chamberlain o Edouard Daladier non è un trucco che funzionerà. Al contrario, allontanerà”. In casa, il ministro delle Finanze e alleato Yair Lapid ha criticato l’ordine dato dal premier alla delegazione israeliana all’Onu di lasciare l’aula durante il discorso di Rohani. Il presidente Shimon Peres, in un’intervista al Wall Street Journal, ha approvato il nuovo corso diplomatico degli Stati Uniti con Teheran, differenziandosi nei toni da Netanyahu.
Quello che i giornali non raccontano, spiega al Foglio Zalman Shoval, ex ambasciatore israeliano negli Stati Uniti e consigliere del premier sulle relazioni con Washington, è che in casa Netanyahu gode di vasto sostegno popolare sull’Iran, quello che conta in caso di attacco israeliano alle installazioni nucleari iraniane. L’opzione militare per il governo resta sempre aperta ma un’operazione diventerebbe più complicata senza l’appoggio della comunità internazionale. Voci di peso che nei mesi passati ridimensionavano la minaccia nucleare iraniana – gli ex capi dei servizi segreti interni ed esterni, Meir Degan, Ephraim Halevy, Yuval Diskin – avrebbero inoltre perso d’intensità secondo Shoval proprio perché l’opinione pubblica seguirebbe il premier sull’Iran.
Oggi a Ginevra, ha rivelato il Wall Street Journal, Teheran proporrà un piano per una limitazione parziale dell’arricchimento dell’uranio, in cambio di un allentamento delle sanzioni. Tra le condizioni di Israele, oltre all’uscita di tutto l’uranio arricchito dal paese, ci sono lo stop alle centrali e alla produzione di plutonio e l’inizio di ispezioni internazionali. Un compromesso sembra improbabile. “Netanyahu e la sua squadra affrontano una crisi seria. Quella del premier è una posizione pericolosa – spiega Miller – Non sarà in grado di influenzare questi colloqui e a questo punto non può più cambiare i toni: lui deve fare quello che suona i tamburi di guerra”.
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