Troppa stabilità
La Legge di stabilità non è ancora definita nei suoi dettagli. Perfino dal momento in cui esce dal Consiglio dei ministri a quando viene approvata dal Parlamento, generalmente subisce mutamenti. Ma considerandola allo stato nascente, dalle dichiarazioni degli esponenti di governo e dalle bozze circolate finora, appare una manovra minimalista, composta di tante piccole voci che tendono a complicare il sistema delle entrate e delle spese con nuove variegate deroghe, spesse volte temporanee.
Lo Prete Osservatori stranieri spiazzati dalle manovre stataliste di Letta
La Legge di stabilità non è ancora definita nei suoi dettagli. Perfino dal momento in cui esce dal Consiglio dei ministri a quando viene approvata dal Parlamento, generalmente subisce mutamenti. Ma considerandola allo stato nascente, dalle dichiarazioni degli esponenti di governo e dalle bozze circolate finora, appare una manovra minimalista, composta di tante piccole voci che tendono a complicare il sistema delle entrate e delle spese con nuove variegate deroghe, spesse volte temporanee. Il tutto appare privo dell’approccio in termini di produttività che potrebbe dare un senso anche ai piccoli passi, in un quadro riformista, orientato alla crescita con equità secondo le aspirazioni bilanciate di un governo di larghe intese, in un sentiero stretto come quello attuale dell’Italia. I tre aspetti principali in cui ciò emerge riguardano il cuneo fiscale e la politica tributaria per la produttività del lavoro, il passaggio dall’Imu alla Service tax nella finanza municipale per la produttività della spesa pubblica, e le imprese pubbliche e delle reti per la produttività degli investimenti. Quattro miliardi per la riduzione del cuneo fiscale non sono una cifra significativa se frazionati in due parti, una parte come micro riduzione dell’Irpef per i redditi di lavoro e un’altra per la riduzione dei costi del lavoro nelle imprese. Coloro che concepiscono questa manovra non sembrano curarsi della “logica delle imposte”, con riguardo ai princìpi della tassazione in economia di mercato e al diritto tributario comunitario. Infatti con 4 miliardi si potrebbe attuare la detrazione dell’Irap dai costi del lavoro delle imprese e del lavoro autonomo nell’Irpef, e delle imprese nell’imposta sulle società (Ires). Posto un gettito complessivo Irap di 36 miliardi, di cui 12 sugli imponibili delle pubbliche amministrazioni e 24 su imprese e lavoro autonomo, e posto che i redditi di lavoro lordi di contributi sociali siano due terzi dell’imponibile Irap di imprese e lavoro autonomo, cioè 16 miliardi, la piena detrazione di essi in Irpef e Ires con aliquota del 28 per cento vale 4,5 miliardi. (segue dalla prima pagina)
Poiché ne esiste già una detrazione parziale, è possibile portare a regime la detrazione totale, come richiesto dal diritto tributario europeo e della logica delle imposte sui redditi in economia di mercato. Ciò non è comunque decisivo per la nostra competitività per lo stimolo all’occupazione, ancorché sia meglio di ciò che sembra materializzarsi nella Legge di stabilità. Ma se questo correttivo fosse utilizzato come incentivo a sindacati e Confindustria per accettare una maggior flessibilità nei contratti di lavoro, con particolare riguardo a quelli decentrati del modello Marchionne, si sarebbe fatto un passo incisivo per il recupero della produttività del lavoro, con un limitato costo fiscale.
La Service tax era stata pensata come mezzo per collegare la spesa locale ai tributi locali. Ciò nelle tre componenti: a) dei rifiuti, per i quali occorre ripartirne il costo in base alla loro produzione, con una tariffa che parta dai metri quadri e tenga conto dell’uso dei locali; b) dei cosiddetti servizi indivisibili come illuminazione e pulitura delle strade, con una tariffa collegata alla spesa per essi; c) per l’Imu con una tassazione basata sul reddito capitalizzato, tramite i valori catastali, quale indice dei benefici della spesa locale. Temo che invece si voglia fare macchina indietro con aliquote slegate dalla spesa, disincentivando così la produttività della spesa locale.
Per la mancata politica di produttività degli investimenti registro la manomorta delle imprese pubbliche locali, la deviazione delle Poste dai loro compiti per farle entrare invece nel capitale di Alitalia, l’ignoranza della rete di aeroporti come hub in relazione ad Alitalia e alle sue rotte, e infine la manifesta esitazione a dare alla Cassa depositi e prestiti una funzione nello sviluppo delle infrastrutture, a partire dalla banda larga.
Lo Prete Osservatori stranieri spiazzati dalle manovre stataliste di Letta
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