La dittatura dell'opinione

Salvatore Merlo

Dicono che una forte passione – e quale passione è più forte di un sentimento di morte sospesa? – possa impregnare l’aria, e stamparvisi in eterno. E’ uno dei principi dell’occultismo, spiega l’origine irrazionale dei fantasmi, la paura del passato che ritorna a tormentare i vivi, ma è anche un ideale romantico, come sempre quando si ha a che fare con l’idea del tempo, della storia, delle rimembranze. Dunque chissà se il Parlamento e le stanze della commissione per il regolamento del Senato conservano ancora l’odore di accaduto.

Colombo Il Cav. medita di ritentare la spallata a Letta (e fa proposte ad Alfano) - Di Michele Quel mondo che la sera delle monetine cominciò a odiare

    Dicono che una forte passione – e quale passione è più forte di un sentimento di morte sospesa? – possa impregnare l’aria, e stamparvisi in eterno. E’ uno dei principi dell’occultismo, spiega l’origine irrazionale dei fantasmi, la paura del passato che ritorna a tormentare i vivi, ma è anche un ideale romantico, come sempre quando si ha a che fare con l’idea del tempo, della storia, delle rimembranze. Dunque chissà se il Parlamento, e le stanze della commissione per il regolamento del Senato, gonfie ancora una volta di quelle parole, sempre le stesse, “voto palese o voto segreto?”, quelle espressioni di grammatica protocollare che stavolta avvolgono il destino di Silvio Berlusconi, chissà se conservano ancora, quelle stanze in cui si vuole stabilire ancora una volta la fine di un ciclo politico, l’odore di accaduto, malgrado la memoria stinga ormai nell’indefinito, e malgrado le storie, politiche e personali dei protagonisti di ieri e di oggi, siano così diverse.

    Giovedì 29 aprile 1993, vent’anni fa, in una di quelle giornate che non finiscono mai, dopo quattro mesi di strepiti parlamentari e singhiozzi di piazza, suicidi e arresti a scandire gli sbalzi della terzana politica e giudiziaria d’Italia, Bettino Craxi, a voto segreto, malgrado il tentativo di sovvertire la prassi, venne graziato per pochi voti dall’Aula di Montecitorio. La Camera respinse, dopo aver rifiutato anche la procedura del voto palese, le sei autorizzazioni a procedere contro il segretario del Psi, con i socialisti che si baciavano e si abbracciavano, in un effimero sospiro di sollievo, mentre il Parlamento diventava, da allora e per sempre, soltanto uno stato emotivo, un forte turbamento interiore di fronte a oggetti vaghi e per natura imprendibili come “l’opinione pubblica”. Alle 23 Montecitorio, dopo il voto su Craxi, è sotto assedio, volano uova sui deputati, i socialisti vengono accolti da un coro di pernacchie. Qualcuno cerca il dialogo, Vittorio Sgarbi, allora deputato del Pli, vuole convincere i manifestanti, ma la parola “galera” gli arriva all’orecchio come di contrabbando. “Quel 29 aprile è, fra i giorni della mia vita, uno dei tre o quattro che mi recito da cima a fondo, quando voglio cercare di raggiungere l’estasi mesta di rivivermi”, rievoca Rino Formica, l’ex ministro craxiano, che allora era lì, attore passivo, ma protagonista, d’una vicenda che riassume in sé la tragedia di un mondo al crepuscolo, un sistema certo arrogante, corrotto, eccessivo, ma solido, alfabetizzato, ancora intimamente politico eppure senza speranza, la cui morte ha generato la Seconda Repubblica, quella del populismo e dei sondaggi, dei leader carismatici, di Berlusconi, di Beppe Grillo e di Matteo Renzi. “Quel voto stabilì l’inizio della fine”, sospira Fabrizio Cicchitto. E lo dice con un sospiro evocativo, quasi un singhiozzo. Anche lui era lì, il vecchio socialista oggi berlusconiano, e ricorda bene le urla, il lancio delle monetine fuori dall’Hotel Raphael, “l’onda di piena d’un opinione pubblica che nessuno seppe guidare, una forza che tutto travolse”.

    C’era Gianfranco Fini, capo del Msi, con gli occhi fuori dalle orbite, “voi altri che siete ladri avete difeso un ladro”, e poi Umberto Bossi che già s’agitava e forse prevedeva di raccogliere col retino tutta quella schiuma, Achille Occhetto che ritirava i ministri dal governo, Massimo D’Alema e Giorgio Napolitano che, senza nemmeno sospettare quanto se ne sarebbero poi dovuti pentire, sentenziavano una condanna forse fatale per i successivi vent’anni: “Va abolita l’immunità parlamentare”. Fu abolita da un Parlamento che galleggiava sul vischioso acquitrino dell’emotività collettiva, in un paese in cui la voce della civiltà politica si condannava a diventare un birignao infantile. E di quel provvedimento fu relatore Pier Ferdinando Casini, “guarda un po’ sempre lui”, dice Cicchitto con ironico slancio: l’allievo di Arnaldo Forlani entrò così nel gioco del vivere. “Cercavano in Craxi un capro espiatorio, uno che pagasse per tutti, pensavano di poter assecondare l’onda dell’antipolitica”, dice Riccardo Chiaberge, scrittore, giornalista culturale, editorialista del Fatto quotidiano. “Luciano Cafagna parlò di ‘ilarità degli abissi’ per definire lo stato d’animo e il clima dell’epoca, l’euforia del sub che perde l’ossigeno, quell’allegrezza malata che precede l’embolia e il soffocamento. L’opinione pubblica festeggiava sotto la ghigliottina come se fosse l’alba di chissà che cosa”. E quella che travolse il Parlamento fu dunque l’euforia dei moribondi, mentre anche nel Partito socialista si provò l’ebbrezza di spodestare il capo, e fu una strana guerra civile combattuta in un cimitero. “Era la doxocrazia, la dittatura dell’opinione, con i partiti che assecondavano la jacquerie e si consegnavano al suicidio, e dico tutto questo senza rimpiangere quel sistema sballato e corrotto”, conclude Chiaberge. Il lancio delle monetine non nacque da una civica collera, ma valse a sciogliere una pubblica ossessione, anche se un gesto ha spesso due o tre ragioni, di cui nessuna esclude le altre. E insomma accade a chiunque di sbagliarsi, di cominciare con Rousseau per arrivare al boia di Parigi, di partire con D’Annunzio per ritrovarsi con Farinacci. Da allora in poi la storia d’Italia è andata avanti per spasmi, contrazioni violente, salti nei cerchi di fuoco, il referendum, il maggioritario, il processo ad Andreotti, l’arresto dei ministri, la vittoria di Berlusconi, il balletto dei Dotti e delle Ariosto, Di Pietro, l’avviso di garanzia del 1994, il porcellum, la caduta di Prodi per via giudiziaria, la condanna in Cassazione del Cavaliere. Da quel momento fatale, “il reciproco amore tra la sinistra e i magistrati divenne un labirinto senza uscita per tutti, anche per la sinistra stessa”, sostiene Cicchitto, “una via senza meta, il solito di quasi tutte le tresche clandestine e adultere, che hanno il nulla come ultimo scopo: abissi senza sfogo”. Punire il Parlamento fu l’estasi e la dannazione di Mani pulite. Punirlo, guarirlo, purgando l’eccesso e l’errore, “ma condannando l’Italia a un destino terribile e impolitico”, dice Formica con romanticismo cimiteriale. “I cicli della politica si chiudono con le amnistie. Come nel ’46”, rievoca l’ex ministro socialista amico di Napolitano, “quando Togliatti, De Gasperi e Nenni, pur sapendo di andare contro le pulsioni dei loro stessi partiti, amnistiarono i fascisti. Berlusconi è nato dalla fine della politica e ha incarnato il disprezzo della politica in questo ventennio, quel principio secondo cui il sondaggio è tutto e le idee sono niente. Ecco, adesso lui è vittima di se stesso, ha ucciso la politica e ovviamente non c’è modo di fargli avere l’amnistia”.

    E insomma, Formica vuole dire che Berlusconi, lui che ha costituzionalizzato la tirannia dei sondaggi e dell’opinione pubblica, è la nemesi di Craxi, malgrado il Cavaliere oggi si lamenti del plebeismo antipolitico e vagheggi pure una soluzione di sistema al conflitto con la magistratura, quello scioglimento di tutti i grumi che Napolitano ha tentato di proporre al Parlamento sordo e impolitico. E chissà se il presidente della Repubblica, davvero, come dicono, si è più volte lamentato e pentito d’aver contribuito in maniera determinante all’abolizione dell’immunità parlamentare. Si gettò a occhi chiusi contro l’immunità, a capofitto, come chi è colto e trascinato dal demone della vertigine. “Tutto cominciò il 16 marzo del ’93”, ricorda Formica, “quel giorno si discutevano degli ordini del giorno e degli emendamenti per trovare una soluzione allo scandalo della corruzione. La Lega sventolava il cappio in Aula, e tutti gli ordini del giorno, di tutti i partiti, compresi i Radicali, impegnavano il governo, testualmente, a non assumere atti contro l’azione dei magistrati”. E così si arrivò per gradi, dopo Craxi, dopo le monetine, alla modifica della Costituzione, dell’articolo 68. E quello di Napolitano, il presidente che si trova a gestire il cruento declino dell’anomalia berlusconiana, oggi, raccontano, è un dubbio che nel tempo gli s’è invelenito in fiele, “fu un errore?”, si chiede il capo dello stato. Ed è lo stesso, alterno, tormento di D’Alema, nel cui nome fu innalzata la Bicamerale, insomma, colui che segnò e incarnò e predicò il tempo caduco dell’inciucio, del patto con il Caimano, della normalizzazione, del legittimo e reciproco riconoscimento. E così pare che indugi nel pentimento, fedele compagno e seguace del castigo, che di solito, in Italia, si manifesta con un grado di ravvedimento non incompatibile con il perseverare nel peccato.

    “L’Italia ha sublimato, nella dittatura dell’opinione, il suo già schizofrenico carattere nazionale”, dice Chiaberge. “Nessuno rimpiange Frattocchie e parrocchie, che erano i vivai della classe politica prima di Tangentopoli, però quelle scuole formavano una classe dirigente con una sua ossatura. La politica, prima che diventasse ostaggio dell’opinione pubblica e degli altri poteri, poteva affrontare la gestione della cosa pubblica senza avvitarsi continuamente in una crisi di nervi. Se Margaret Thatcher avesse guardato i sondaggi non avrebbe fatto nulla, si sarebbe accucciata”, dice Chiaberge con gravità malinconica. E insomma Tangentopoli ha distrutto la Prima Repubblica, indebolito strutturalmente la Seconda con l’abolizione dell’immunità, e restituito un sistema politico incapace d’accettare una condizione minoritaria o impopolare seppur al fine di affermare un principio giusto. Doxocrazia, dittatura dell’opinione, “e così Grillo oggi diventa più xenofobo di Bossi per raggranellare dei voti, perché gli conviene. E Matteo Renzi, anche lui in lotta per il consenso facile, si scopre uomo tutto legge e ordine”, conclude Chiaberge. Soltanto dopo l’abolizione dell’immunità parlamentare fu rotto il tiepido non-tempo delle illusioni in cui la politica italiana smemorava malgrado Tangentopoli; prima di allora la morte, l’estinzione, l’impotenza e la sudditanza non apparivano che una peripezia per attori, da recitare fra breve, col tacito accordo che, dopo le ovazioni e gli inchini, si sarebbe tornati tutti dietro le quinte a rivestirsi, a riessere sé. Ancora padroni dell’Italia, anche se per procura, l’America di qua, di là l’Unione sovietica. Ma non è andata così, la storia ha scelto tragitti più cupi.

    E insomma sono due storie diverse, quella di Craxi e di Berlusconi, “e il paragone nobilita il Cavaliere”, sibila Formica. Certo, entrambi sono stati travolti dal trauma giudiziario, l’uno per reati connessi alla politica, al finanziamento dei partiti, l’altro per frode fiscale. L’uno diceva che “così fan tutti”, e alzandosi in piedi un giorno di vent’anni fa pronunciò una drammatica chiamata in correo di fronte al Parlamento ammutolito e carico di grida represse, l’altro giura di non aver commesso alcun reato e accusa i magistrati d’accanimento. Corsi e ricorsi storici, dunque, ma niente è uguale, neanche due piselli che stanno nello stesso baccello sono identici, figurarsi due uomini che appartengono a due mondi così diversi, la Prima e la Seconda Repubblica. Così uno nasconde la calvizie, mentre l’altro la esibiva; uno è ricco, mentre l’altro non aveva una lira in tasca e persino la favoleggiata villa di Hammamet, rispetto ad Arcore, ancora sembra una casa abusiva alla foce del Simeto. Craxi ebbe forse un’amante di cui si chiacchierava tanto, mentre Berlusconi è stato il re delle cene burlesque; Craxi da laico si era consegnato alla moglie, Berlusconi da cattolico ha coltivato il mito della seduzione; Craxi aveva il socialismo e Pietro Nenni, Berlusconi ha il Milan e “Drive In”; l’uno aveva Giuliano Amato, l’altro ha Gianni Letta. E insomma, l’unica cosa che forse Berlusconi e Craxi hanno in comune è Fabrizio Cicchitto. Ma anche l’aria pazzotica di giacobinismo che li avvolge è la stessa. Eterno schema, eterna tenaglia: da un lato l’inchiesta tecnica (leggi: metafisica) sulle responsabilità della corruzione e dei disastri, dall’altra la retorica intorno alle volontà del popolo, lo stato di diritto, la giustizia, le regole. E così in Senato il Movimento 5 stelle ieri pomeriggio avrebbe voluto modificare in corsa i regolamenti parlamentari apposta per Berlusconi, cancellare il voto segreto: Grillo propone un provvedimento contra personam per colpire, con un contrappasso, l’uomo accusato da circa un ventennio d’ogni nefandezza ad personam. E il senatore collettivo del Pd, il magistrato Felice Casson, sostiene la singolare teoria secondo cui è opportuno conservare l’istituto del voto segreto, tranne che per Berlusconi, poiché nel suo caso specifico, nel voto per la sua decadenza, sostiene Casson, “non si tratta di votare su una persona, ma sull’applicazione di una legge”, la famosa legge Severino che prescrive la sopraggiunta ineleggibilità per i condannati in via definitiva. “Io non sono berlusconiano e penso pure che il Cavaliere debba decadere, ma quella di queste ore è pura tirannia dell’opinione”, opina Chiaberge, “il voto segreto o vale sempre o non vale mai, questa classe politica traumatizzata cambia idea e si riorienta a seconda della contingenza, del vento che tira nel paese. Oggi tira un’aria giustamente contraria al reato d’immigrazione clandestina per effetto dell’immane tragedia di Lampedusa, ma fu sempre sull’onda d’una emozione pubblica che quel reato venne introdotto, ed è così che funziona la politica, che schizofrenica s’adegua alle mode”. Un universo di personalità cui non interessa mai la complessità, ma il gioco a spese della complessità, la battuta sfrigolante, un cinismo decorativo e marginale. Ma “stavolta, malgrado la debolezza della politica, non andrà a finire come con Craxi”, è il vaticinio di Cicchitto, anche se il Cavaliere sente le ore correre verso la fine, e senza che nulla valga a sospenderne l’imperterrito precipizio, “ma non è più il tempo delle monetine”, dice l’ex capogruppo del Pdl. Semmai delle flatulenze su Twitter, sgradevoli ma innocue, lì dove il pensiero s’aggrega per rilassamento muscolare.

    Colombo Il Cav. medita di ritentare la spallata a Letta (e fa proposte ad Alfano) - Di Michele Quel mondo che la sera delle monetine cominciò a odiare

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.