Da La Malfa a Evita
Una manovra (modesta) dal sapore peronista
L’unico lato positivo della Legge di stabilità che è stata varata rapidamente dal governo Letta è che in essa non ci sarà l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. La manovra non comporta rilevanti aumenti tributari, ma ciò solo perché si tratta di una manovra quantitativamente molto modesta. In totale si aggira sugli 11 miliardi, vale a dire 0,7 punti di pil. Peraltro i tagli alla spesa sono solo 3,5 miliardi, un terzo della manovra, e si tratta dei soliti tagli lineari.
Leggi l'editoriale La leva della ripresa - Brambilla Cifre e ipotesi per guarire l’ipertrofia della Sanità - Cerasa “Questa manovra non esiste”. Il guru di Renzi asfalta la Stabilità di Letta
L’unico lato positivo della Legge di stabilità che è stata varata rapidamente dal governo Letta è che in essa non ci sarà l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. La manovra non comporta rilevanti aumenti tributari, ma ciò solo perché si tratta di una manovra quantitativamente molto modesta. In totale si aggira sugli 11 miliardi, vale a dire 0,7 punti di pil. Peraltro i tagli alla spesa sono solo 3,5 miliardi, un terzo della manovra, e si tratta dei soliti tagli lineari. Due terzi sono sul lato delle entrate: 3,2 miliardi vengono presi dalle dismissioni di immobili, 2 da misure fiscali vere e proprie, mentre la cifra restante non è ancora coperta, potrebbe dare luogo a un aumento di deficit dello 0,15 del pil cioè pari a circa 2,4 miliardi. Sia il maggior deficit che le vendite di immobili per finanziare le uscite (fra l’altro senza una politica chiara per la loro valorizzazione) sono operazioni che spostano l’onere sul contribuente futuro, accrescendo il suo debito e riducendo il suo attivo patrimoniale.
Tuttavia ciò che più turba di questa manovra è che non si capisce a quale ideologia e a quale linea di politica economica si ispiri. E’ un bricolage fra la tesi assai opinabile della Confindustria, secondo cui per rilanciare la nostra competitività occorre soltanto una robusta riduzione del cuneo fiscale dei costi del lavoro, quelle del Pdl, contrario all’aumento delle imposte e orientato al taglio delle spese, e i vincoli di bilancio dell’Unione europea (che del resto derivano da oggettive considerazioni sulla sostenibilità del debito), insieme alle tesi del Pd, dotate di un vago sapore keynesiano, secondo cui più denaro nella disponibilità dei titolari di busta paga implica automaticamente uno stimolo alla crescita tramite la maggior domanda di consumi.
Tutto ciò con l’aggiunta di micro misure dirigiste riguardanti gli esoneri fiscali come stimolo agli investimenti e all’occupazione. Al tempo del governo Monti, invece, si era sentito il chiaro peso di una ideologia economica nella manovra di finanza pubblica. A volte c’è stata ingenuità nella traduzione del disegno astratto nelle norme concrete. Ma la linea, sin troppo rigida, c’era. Qui non la si trova. O meglio ci si sente un qualcosa di neo corporativo, laddove si stabilisce che saranno i sindacati e la Confindustria a indicare al governo come vanno ripartiti i tre miliardi che saranno disponibili per la riduzione del cuneo fiscale. Una politica dei redditi che ha a disposizione solo 3 miliardi (ossia lo 0,18 per cento del pil), certamente non dà al governo una grande “carota” allo scopo di indurre le parti sociali ad accordarsi. Ma quando il governo la offre senza alcuna contropartita e nessun collegamento con la produttività dà l’impressione di non ispirarsi a Ezio Vanoni o a Ugo La Malfa, e neppure a Bettino Craxi (absit injuria), ma a Evita Perón. Sulla crescita, è stato affermato che è aumentata la spesa pubblica per investimenti. Ma quali sono questi investimenti? Immagino che non ci si riferisca a quello delle Poste in Alitalia.
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