Appunti liberisti per Fassina che non vuole tagliare la spesa
La politica fiscale italiana è un pendolo tra il “vorrei ma non posso” e il “potrei ma non voglio”. Il viceministro all’Economia, Stefano Fassina, con grande onestà intellettuale esprime una posizione diversa: “Non voglio quindi non posso”. Le sue tesi – contrastanti con le intenzioni del ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, a tal punto da spingerlo ad avanzare l’ipotesi di dimissioni – le ha spiegate sull’HuffingtonPost.it.
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La politica fiscale italiana è un pendolo tra il “vorrei ma non posso” e il “potrei ma non voglio”. Il viceministro all’Economia, Stefano Fassina, con grande onestà intellettuale esprime una posizione diversa: “Non voglio quindi non posso”. Le sue tesi – contrastanti con le intenzioni del ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, a tal punto da spingerlo ad avanzare l’ipotesi di dimissioni – le ha spiegate sull’HuffingtonPost.it: 1) la spesa pubblica italiana, al netto degli interessi, è inferiore a quella dei paesi europei comparabili; 2) i tagli di spesa producono effetti recessivi che non sono controbilanciati dalle conseguenze pro crescita delle riduzioni fiscali; 3) pertanto non bisogna tagliare, ma riqualificare la spesa; 4) l’unica finestra di continenza fiscale passa per la lotta all’evasione. L’argomento di Fassina è coerente, anche se poggia su alcune semplificazioni.
Sui livelli della spesa, è fuorviante ignorare sia il rapporto tra la spesa e il pil (perché il reddito nazionale agisce come un vincolo effettivo sulla capacità di spendere) sia il peso del servizio al debito (perché comunque quelle risorse dovranno essere sottratte all’apparato produttivo). Se si guarda alla spesa totale in proporzione al pil, seguono due conseguenze: in primo luogo, l’Italia è un paese spendaccione (più di Germania e Regno Unito, tra gli altri). Secondariamente, il debito, che Fassina mette nell’angolo, diventa una priorità. Inoltre, confrontando i singoli capitoli di spesa con la Germania (che è ragionevole assumere come modello di riferimento in Europa) si scopre che, a parità di servizi erogati, si può abbattere la spesa pubblica italiana (inclusa quella per interessi, attraverso le privatizzazioni) di 5-6 punti di pil. Cioè quasi il doppio della “maxi manovra” anti tasse invocata da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, che di Fassina sono il bersaglio polemico. Ma, dice Fassina, il moltiplicatore della spesa è superiore a quello delle imposte. La questione è ambigua sul piano empirico, anche se le evidenze contrarie sembrano più numerose e più solide. Tuttavia, il punto cruciale nel nostro caso è un altro: la qualità della spesa italiana è molto bassa. Fassina lo riconosce quando chiede di riqualificarla: più acqua in un secchio bucato non è una politica saggia.
La lotta all’evasione, in questa prospettiva, è un elemento importante, ma deve essere qualificata: il gettito va davvero restituito ai contribuenti (e non diretto verso altre destinazioni, come è stato fatto in questi anni), per non tradursi nell’ennesimo incremento dei tributi. Inoltre il contrasto all’evasione deve mantenersi nei confini dello stato di diritto: le metafore guerresche e le armi fiscali di distruzione di massa hanno prodotto più danni che benefici (si pensi alla tassa sulla nautica, che ha devastato un settore industriale erodendo la sua stessa base imponibile). Il viceministro ha però ragione da vendere su un punto: “Bisognerebbe avere il coraggio intellettuale e politico di smetterla con la retorica degli sprechi”. Gli sprechi sono senz’altro un problema ma la questione fondamentale è se alcune tipologie di spesa abbiano ancora senso. La spending review, in quest’ottica, è un atto politico, non tecnico, perché implica scelte precise: vogliamo continuare a erogare i servizi pubblici gratis a tutti? Non riteniamo che le fasce più benestanti dovrebbero pagarsi, per esempio, scuola e sanità, in cambio di meno tasse? Ha ancora senso uno stato onnipresente, che impiega i soldi pubblici in una molteplicità di campi, dall’acqua pubblica all’Alitalia? Vogliamo insistere col dogma della produzione statale dei servizi pubblici, o siamo disposti ad accettare la sfida della concorrenza? Se non si fanno delle scelte, e non si fissano obiettivi chiari, è impossibile non solo tagliare la spesa, ma anche riqualificarla, e l’Italia continuerà a seguire la sua traiettoria inerziale verso il declino.
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