Al grido di “#assedio”
La galassia antagonista invade Roma
L’invasione degli ultracorpi antagonisti, che atterreranno sulla capitale, per provare a scrivere un altro capitolo bellicoso del conflitto sociale, ha una parola d’ordine inequivocabile: assedio. “Assediamo austerity e precarietà, #assedio, #sollevazione generale”: è questo il motto scritto in bianco e nero sui volantini che circolano sui numerosi siti web dei centri sociali più agguerriti. Chi però ritiene che la Val di Susa sia, da tempo, diventata qualcosa di più del terreno di scontro sulla Tav Torino-Lione, e si stia trasformando in un trampolino per rilanciare “l’azione diretta” della galassia eversiva anarco-insurrezionalista, italiana e internazionale, guarda con attenzione a mezzi di comunicazione più tradizionali: un treno e un pullman
L’invasione degli ultracorpi antagonisti, che atterreranno sulla capitale, per provare a scrivere un altro capitolo bellicoso del conflitto sociale, ha una parola d’ordine inequivocabile: assedio. “Assediamo austerity e precarietà, #assedio, #sollevazione generale”: è questo il motto scritto in bianco e nero sui volantini che circolano sui numerosi siti web dei centri sociali più agguerriti. Chi però ritiene che la Val di Susa sia, da tempo, diventata qualcosa di più del terreno di scontro sulla Tav Torino-Lione, e si stia trasformando in un trampolino per rilanciare “l’azione diretta” della galassia eversiva anarco-insurrezionalista, italiana e internazionale, guarda con attenzione a mezzi di comunicazione più tradizionali: un treno e un pullman. Che partiranno da Torino e da Bussoleno, quartiere generale degli attivisti No Tav, a pochi chilometri dal cantiere della Maddalena. Un cantiere diventato non solo un problema di ordine pubblico, ma anche un incubatore, per le frange più radicali del movimento, delle nuove leve rivoluzionarie, che si aggregano e si disaggregano come atomi impazziti. Dalla Grecia alla Spagna fino all’Italia, hanno creato una rete piuttosto estesa e capillare, le cui azioni sono assai imprevedibili e tolgono il sonno agli inquirenti. Un movimento fluido, magmatico, con un unico obiettivo: destabilizzare lo stato. Anche con metodi violenti. Sebbene si temano, in modo fondato, possibili atti di guerriglia urbana, a preoccupare gli investigatori che seguono il filo rosso dell’anarco-insurrezionalismo sin dagli anni 90 è soprattutto il tentativo di estendere la battaglia contro le grandi opere – che gli attivisti considerano “atti di criminale devastazione ambientale” – per trasformarla in una nuova forma di guerriglia costante, endemica. Sulla base ideologica di un luddismo moderno, si cerca di spingere l’antagonismo sociale verso pratiche più eversive. “Portare la valle in città, la città in valle”, come hanno scritto più volte gli autori della Lavanda, un giornale clandestino che circola fra Milano e la Val di Susa. Un giornale che gli investigatori considerano la bibbia da (e)seguire per gli attivisti radicali No Tav, ma anche una traccia concreta per seguire le orme di gruppuscoli in cerca di una propria guerra su misura.
Forse lo schema del procuratore generale di Torino, Gian Carlo Caselli, che evoca gli Anni di piombo, può sembrare eccessivo, perché fino ad ora tutti gli attivisti No Tav fermati, indagati, incarcerati e poi spesso rilasciati o finiti agli arresti domiciliari o con la prescrizione dell’obbligo di dimora, non sono mai stati rinviati a giudizio con l’accusa di associazione con finalità di terrorismo. Ma se verrà dimostrato che il pacco bomba arrivato alla redazione della Stampa il 3 ottobre scorso, che avrebbe potuto ferire gravemente il giornalista Massimo Numa, è stato confezionato nelle zone grigie della galassia insurrezionalista di fede anarchica, allora vorrà dire che quel confine tra la violenza di strada e la pratica eversiva è stato di nuovo superato. Altrimenti non si spiegherebbe perché gli inquirenti non si siano stupiti più di tanto, davanti a quell’hard disk recapitato a Torino e che conteneva 40 grammi di esplosivo. Del resto, uno dei leader più noti in Val di Susa, l’anarchico Luca Abbà, che vive in una baita a pochi chilometri dal cantiere della Maddalena di Chiomonte – diventato un simbolo dei “ribelli” quando finì (quasi) fulminato mentre cercava di scalare un traliccio dell’alta tensione intorno al cantiere – nel 2010 aveva scritto su Facebook parole che ora sembrano una sorta di fatwa contro Massimo Numa: “Peccato che in questi anni nessuno lo abbia ancora posto in condizione di non nuocere, ma se va avanti così credo che a quel momento non manchi molto”.
Una coincidenza? Chissà, ma se le parole sono pietre, allora bisogna seguire il filo rosso che oggi porta al sito anarchico www.finimondo.org, dove invece di ricorrere alla solita teoria complottista sui servizi segreti deviati, si rivendica il diritto a usare la violenza e si critica con disprezzo chiunque cerchi di prendere le distanze da pratiche sovversive. “Lui (il movimento No Tav, ndr) che tanto si atteggia a partigiano, lui che, comandante Giap dei noantri, giura di aver portato Saigon alla Maddalena, si è precipitato a strepitare che ‘Pallottole e bombe non ci appartengono’, si legge in un documento pubblicato sul sito pochi giorni fa. Questa volta il signor Movimento ha davvero rotto i cosiddetti. Tranne che per gli imbecilli che credono nei placidi tramonti, il dissenso ha sempre avuto bisogno di violenza. A renderla legittima è il suo significato, non la quantità numerica dei suoi esecutori o dei suoi fan. Che gli atti di sabotaggio avvenuti in Val di Susa negli anni 90 siano riconducibili ai servizi o a chi per loro, è un’ipotesi cara solo ai politicanti, che hanno infestato il movimento, preoccupati che la rabbia dilaghi fuori dal loro controllo. Un compagno non può averlo fatto? Cosa, incendiare i cantieri del Tav? Ma certo che sì! Spedire un pacco bomba a un miserabile fascista come Massimo Numa? Ma certo che sì! La sollecitudine a dichiararsi estranei ai fatti, l’abitudine alla dietrologia e al complottismo è di una meschinità senza pari. Perché la lotta No Tav, come qualsiasi lotta contro la Società (con la S maiuscola) ha bisogno di tutto: di parole, come di fatti, di discussioni come di incontri, di feste, di assalti collettivi e individuali”.
Bisogna fare un passo indietro, per avere un’immagine più nitida di ciò che si cela fra le pieghe del movimento No Tav. Oltre agli attivisti pacifici, che rivendicano il loro diritto a fermare la Tav, senza essere tacciati di terrorismo, si trovano “gruppi di affinità” anarchici, sempre più numerosi, che vanno e vengono dalla Valle sin dagli anni 90. Si spostano veloci, appaiono e scompaiono. Nelle piazze, nelle case occupate, nelle valli montane, sulla rete. Un popolo di camminatori, si sentono i partigiani del Terzo millennio, e hanno costruito una retorica sovversiva sulla mistica della montagna. Da tempo hanno esteso il loro campo di azione alle battaglie contro le opere pubbliche. Infatti alcuni, dopo la manifestazione di Roma, si recheranno in Grecia, dove da anni è in atto una guerriglia anarchica più organizzata contro lo stato, per cercare di fermare un’altra grande opera: la cava d’oro, ossia la miniera per l’estrazione dell’oro nella penisola Calcidica. A riprova che “i gruppi di affinità” teorizzati dall’ideologo dell’anarco-insurrezionalismo Alfredo Bonanno sin dagli anni 80 promuovono ogni volta campagne diverse individuando nuovi obiettivi verso i quali far convergere in modo concentrico le loro frecce. Frecce apparse per esempio nella rivendicazione dell’attentato contro il manager di Ansaldo nucleare, Roberto Adinolfi, gambizzato il 7 maggio del 2012 dalla Cellula Olga, chiamata così in omaggio a un’anarchica greca in carcere ad Atene.
Uomini e donne uniti dal ribellismo che hanno attraversato, più o meno indenni, processi, carcerazioni, indagini giudiziarie. E ora cercano di passare il testimone a una nuova generazione di anarchici, ancora più determinati, ancora più gonfi di rabbia esistenziale e di indignazione politica, che entrano ed escono dalla galassia, e si riconoscono nella Federazione anarchica informale teorizzata da Bonanno, autore del noto testo eversivo “La gioia armata”. Un sommovimento sotterraneo, che ama le ombre, il rifugio dei boschi, le tenebre della notte, evocate in continuazione nei loro documenti. Infatti è nella loro narrazione, che più si capisce come si muovano, e verso dove. E’ fra quelle righe che si può intuire la cifra della loro azione. E non nelle molteplici ordinanze di custodia cautelare, che invece si limitano a circoscrivere alcuni episodi – ripetuti, va detto, a intervalli temporali sempre più corti – da parte di giovani antagonisti, ai quali si riescono solo a imputare, tranne per qualche eccezione, accuse di violenze contro cose e persone, esponenti delle forze dell’ordine, diversi giornalisti: ma (quasi) mai l’associazione per banda armata, e/o per finalità terroristiche. Anche se è questo il timore più grande: che dopo il pacco bomba si provi a innalzare ulteriormente lo scontro, riuscendo a replicare ciò che è successo nel 2012 a Genova, quando Alfredo Cospito e Nicola Gai hanno gambizzato l’ex manager dell’Ansaldo. Per ora, però, sono solo timori. Se ci si limita a osservare i fatti, a setacciare l’humus delle manifestazioni contro la Tav – sempre più esigue, meno popolate – si può solo osservare che chi era (ed è) ancora disposto a lanciare sassi e petardi contro il cantiere, dopo i tanti roghi appiccati alle aziende coinvolte nei lavori per la Tav, e soprattutto dopo il pacco bomba alla Stampa – ha fatto un passo indietro. Forse restio a superare il confine che separa l’illegalità antagonista dall’eversione. Per non entrare in quella zona buia, dove bombe e pallottole sono più che lecite, e continuamente evocate. Ma si suppone che fra la nuova generazione di “anarchici nichilisti”, sono loro a definirsi così, ci siano alcuni disposti al salto di qualità.
“Un’internazionale anarchica alpina”, la definiscono con sarcasmo alcuni investigatori che hanno studiato l’evoluzione di alcune comunità anarchiche che vivono in “sintonia con la natura”. Condividono la fede vegana, animalista, naturalista. Vivono in baite spartane, dove vanno e vengono militanti spagnoli, greci, baschi.
Allora bisogna fare un altro passo indietro, per ricordare cosa è successo negli anni 90, quando i Lupi grigi, o chi per loro, facevano attentati simbolici in Val di Susa contro ogni manifestazione del progresso o “devastazione dell’ambiente”, contro ripetitori e centrali elettriche. Bisogna seguire i loro spostamenti, ideologici e fisici, nelle valli montane piemontesi e lombarde. Personaggi che sono entrati e usciti dal carcere, indagati per scontri di piazza, attentati bombaroli, rapine di autofinanziamento, se si crede all’impianto accusatorio dei pubblici ministeri Franco Ionta e Antonio Marini, i primi a intentare un processo contro un gruppo organizzato di anarco-insurrezionalisti, che ha portato nel 2003 a diverse condanne per banda armata e associazione sovversiva, ma senza riuscire a dare loro la patente di terroristi. Dove era imputato, fra gli altri, Alfredo Bonanno che, uscito dal carcere, va e viene dalla Val di Susa, va e viene dalle case occupate dalle nuove leve di un ribellismo ancora difficile da inquadrare. Insieme a Massimo Passamani, altro anarchico, che, chissà perché, dal centro sociale di Rovereto sabato scorso è arrivato fino a Saronno, provincia di Varese, per partecipare a un’esigua protesta contro le devastazioni ambientali. Ma da queste parti si manifestava anche in solidarietà con Giacobbe Davide Gioele, detto Giobbe, ex giocoliere, ora attivissimo sul fronte No Tav, arrestato e poi liberato per scontri, violenze e atti di intimidazione su in Valle. Anche lui, naturalista, 33 anni, vive in una baita vicino alla Svizzera, dove i poliziotti hanno registrato un via vai dalla Spagna. “Le montagne sono lì a testimoniare le resistenza di uomini e di rocce, che hanno sentito i respiri dei contrabbandieri, protetto le armi dei ribelli, nascosto le bande dei ribelli”, si legge in uno degli opuscoli naturalisti di un noto attivista No Tav, anche lui imputato dopo anni di latitanza nel processo Marini. Stessa retorica usata nelle note di viaggio della Lavanda, che eccita molto la fantasia degli inquirenti e invece evoca, nella sua narrazione della resistenza boschiva e montana, la necessità storica della guerriglia contro l’Alta velocità. Grazie alla figura mitologica dei boschi valsusini, il Giacu, che esce dall’oscurità per colpire: “Di notte un gruppo di Giacu, si materializza al limitare del bosco, sferra un attacco mirato e veloce, in direzione del cantiere, e poi, come sono apparsi, questi esseri silvani svaniscono nell’oscurità amica, di cui fanno parte”. Folklore? Non tanto, se in un altro passaggio, sul secondo numero della Lavanda si legge: “I servizi segreti ritengono che molti animi ardenti abbiano vissuto l’estate valsusina come addestramento alla guerriglia. Fuori dall’insulso gergo retorico da burocrati della repressione, in una simile considerazione c’è del vero. La Val di Susa non è un altrove, la generalizzazione del conflitto costituisce uno dei migliori contributi alla lotta (…). Giustapporre Tav e guerra, Tav e precarietà, Tav e finanziaria (…), conoscere per tempo camminamenti, anfratti in cui scomparire, altezze da cui colpire, allenare virtù balistiche”. E così via, con passaggi narrativi da cui trapela anche una certa sapienza accademica degli ideologi del movimento più radicale, si arriva a questo auspicio, onirico e velleitario: “La guerriglia partigiana vince solo con l’insurrezione generale”.
Chi cerca di capire cosa si muova all’interno di questa fluida galassia non ha potuto fare a meno di osservare che a settembre, mentre si susseguivano i roghi in Val di Susa e qualche attivista parlava di un settembre di fuoco, è stato tradotto in italiano l’opuscolo “La nuova guerriglia urbana anarchica”, scritto dagli anarchici greci del gruppo Cospirazione delle cellule di fuoco, un anno fa. Lo stesso gruppo che espresse solidarietà e gratitudine alla Cellula Olga per l’attentato ad Adinolfi. Nel loro cruento saggio di lotta armata non si parla di devastazioni ambientali, o di sabotaggio delle grandi opere, ma si evoca lo spettro del terrorismo. Come dimostra questo brano: “Il terrorismo anarchico non è semplicemente un’esplosione esistenziale o emotiva provocata dalle sofferenze e dal dolore che viviamo a causa dei potenti, ma anche una scelta della nuova guerriglia urbana. Crediamo che il passaggio attraverso gli scontri di strada delle lotte di massa sia indispensabile per acquisire esperienza e vissuti che serviranno in futuro a coloro che scelgono la guerriglia urbana come forma di vita”. Nella teoria della guerriglia anarchica del Terzo millennio, la lotta di piazza viene quindi considerata una fase transitoria verso la violenza organizzata e insurrezionale. “Alle compagne e ai compagni e a tutti coloro a cui piace l’anarchia, suggeriamo che non abbiamo tempo da perdere, aspettando la successiva esplosione della lotta di massa. Dobbiamo mettere in piedi piccoli e autonomi gruppi guerriglieri, preparati già all’azione da oggi”, scrivono i greci che fanno riferimento alla Federazione anarchica informale. E poi dedicano un capitolo alla condizione della clandestinità, che non deve essere separata da quella pubblica per evitare di creare dei professionisti militari.
Certo, questo accade in Grecia. Ma è proprio questo lo schema che gli inquirenti temono si sia creato nella galassia insurrezionalista italiana. Come per gli autori della Lavanda, è il buio a creare le condizioni adatte all’azione per gli anarchici greci. “Noi scegliamo le ombre della luna per escogitare i nostri piani, cosi appena l’oscurità della notte ci dà il benvenuto, diventiamo la bottiglia di nitroglicerina che vacilla sulla testa di uno spillo”. Ed è l’oscurità che viene evocata in continuazione anche nel libello insurrezionalista della Lavanda, che descrive in modo lirico la vita nei boschi, ma è stato concepito e scritto in una città. Nell’ultima edizione della Lavanda, pubblicata a fine luglio, gli autori annunciano l’epilogo eversivo contro quello che, per loro stessa ammissione, non è solo un treno: “In Clarea (la montagna in cui si scava il tunnel per la Tav, ndr) se non si va attrezzati, ci si fa male. Oppure si rischia di doversi limitare alla testimonianza. Le iniziative annunciate vengono contenute, quelle improvvise e risolute colgono nel segno, ma non possono essere, da sole, la trama di quest’epica lotta. Ciò che attende l’intreccio delle pratiche è il salto di qualità”. Chi studia da anni i movimenti valligiani e urbani No Tav non teme solo le tenebre anarco-insurrezionaliste, ma anche il silenzio, calato improvvisamente intorno al cantiere della Maddalena.
A Roma si sentirà probabilmente molto frastuono. Ma a chi osserva l’evoluzione della “madre di tutte le preoccupazioni” – così è stata definita la lotta No Tav un anno fa dall’allora ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri, dopo il ferimento in maggio di Adinolfi – fa più paura il silenzio calato in Val di Susa. Perché se è vero, come ritengono gli investigatori, che la fase di sabotaggio contro il cantiere si è conclusa, allora potrebbe aprirsene un’altra, più pericolosa. Ma forse, anche loro, si affidano alla scaramanzia dei boschi.
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