La solitudine dei numeri due

Salvatore Merlo

E’ nell’anticamera di Palazzo Grazioli, a notte fonda, che Silvio Berlusconi ritrova un tono quasi paterno, imperiosamente sentimentale, “quando sarai il numero uno mi capirai meglio”. E dunque il Cavaliere adesso cerca di salvare Angelino Alfano da se stesso e dal demone del gregario, quell’ansia e quell’ambizione tragica che sempre avvolgono i numeri due, sottoposti alla faticosa disciplina del padrinato, uomini che magari riescono a dominare servendo, eppure mai riescono a diventare loro stessi Domine.

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    “Mi sono chiesto tante volte cosa sarebbe cambiato se Craxi e io non avessimo rotto, se avessimo lottato insieme fino alla fine. Avremmo salvato il Psi e la Repubblica o non sarebbe cambiato niente?” (Claudio Martelli, “Ricordati di vivere”, Bompiani 2013)



    E’ nell’anticamera di Palazzo Grazioli, a notte fonda, che Silvio Berlusconi ritrova un tono quasi paterno, imperiosamente sentimentale, “quando sarai il numero uno mi capirai meglio”. E dunque il Cavaliere adesso cerca di salvare Angelino Alfano da se stesso e dal demone del gregario, quell’ansia e quell’ambizione tragica che sempre avvolgono i numeri due, sottoposti alla faticosa disciplina del padrinato, uomini che magari riescono a dominare servendo, eppure mai riescono a diventare loro stessi Domine. Anche Claudio Martelli s’illuse di poter sopravvivere a Bettino Craxi, si fece avversario del suo padrino politico e lo volle accompagnare all’uscio, verso l’esilio, il pensionamento forzato e poi la morte ad Hammamet. E pure lui, anche Martelli, si trovò d’un tratto circondato e blandito da volti un tempo nemici, dal mondo di Achille Occhetto, dai giornali della sinistra, come oggi Alfano riceve sorrisi e pacche sulle spalle dal socio e partner di governo Enrico Letta. Storie diverse, certo, personalità e figure persino inconciliabili, quella del professorino di Filosofia amato dalle donne, elegante, raffinato, e quella del giovane avvocato figlio di un notabile democristiano di mezza provincia. Per Alfano l’avvocatura è un ordine cavalleresco, non ha mai esercitato, quel che conta è la laurea in Legge, l’importante è che, ogni tanto, i ragazzi che siedono ai tavolini del Bar Eden di Sant’Angelo Muxaro, sbocconcellando le granite si chiedano: “Che fa Alfano?”; “l’avvocato”; “mizzica!”. Martelli era tutta un’altra storia, si faceva forte dello sperimentalismo politico, conosceva le lingue, aveva viaggiato, letto Sartre e Aron, Camus e Merleau-Ponty, e affetto da vanità emulativa s’era persino messo anche lui a fumare Gitanes e bere Pernod. Diversi, dunque, il milanese e il siciliano, ma forse uguali, non si può infatti guarire dal proprio destino. Martelli divenne il craxicida, la faccia pulita del Psi, celebrato come oggi Alfano è accarezzato da Giorgio Napolitano, misurato con prudenza da Repubblica, e sinuosamente suggerito da Guglielmo Epifani, che lo vorrebbe nei panni di Bruto (o di Martelli), cesaricida appunto, a capo d’una scissione, la rivolta degli schiavi pidiellini contro il Sovrano di Arcore, “se Alfano costituisce i gruppi autonomi sarà tutto più chiaro”, ha detto il segretario del Pd. E talvolta il numero due si muove come spinto da una specialissima febbre, da una forza irresistibile, da un indice di fuoco che lo incita a compiere il suo dovere, a conquistare il primato, a fare vendetta degli sgarbi subiti, perché essere gregario comporta anche umiliazioni, “Angelino? E’ un bravo ragazzo ma non ha il quid”. La sua statura cresce, il suo odio e il suo amore per il capo fanno un’unica gigantesca ombra sui muri della politica. Un meccanismo psicologico che scivola limpido nelle stesse parole di Martelli, l’ex delfino ne ha scritto nel suo bellissimo libro appena uscito per Bompiani, una raccolta di memorie, un’autobiografia che come ogni diario diventa strumento di catarsi, viaggio all’indietro, revisionismo della propria vita, a tratti sincero, più spesso un aggiustamento della propria esistenza. “Ormai con Craxi siamo al dunque”, racconta Martelli, che sembra Alfano. “Nei partiti e in tutti i consorzi umani esistono leggi non scritte, leggi magari primitive, ma dure ed esigenti. Se, per esempio, qualcuno, a maggior ragione se sta sopra di te, ti sfida, ti attacca, ti minaccia una, due, tre volte, tu puoi sottrarti al combattimento una, due, tre volte; puoi fingere di non sentire anche quando annuncia ai tuoi compagni e ai leader di altri partiti ‘di Martelli farò poltiglia’, ma non puoi sottrarti sempre, a meno di dimetterti dalla politica e anche da uomo. Se poi un contrasto così radicale insorge mentre la nave in cui siamo tutti imbarcati è squassata da una tempesta, e nella tempesta il comandante si ostina in una rotta destinata al naufragio, e tu ne sei cosciente e conservi un briciolo di responsabilità, non puoi continuare a girare la testa da un’altra parte, non puoi non opporti. Infine, se il solo modo che ti rimane per provare a salvare te e il tuo partito è quello di ribellarti, di ammutinarti al tuo capitano per porre fine al suo comando, non puoi scappare, non puoi nasconderti, non puoi non agire”. Ed è impressionante la corrispondenza, ieri come oggi la fedeltà diventa una difficile ginnastica da praticare sull’orlo del baratro, è durissimo lo scontro tra ambizione e affetto, tra la continuità e l’avventura, tra l’obbedienza e l’autonomia. Tra i due piatti della bilancia non c’è nemmeno paragone: su uno sta la luce, la gioventù della luce; il poter dire: io fui, sono, sarò. Mentre sull’altro sta solo un alito d’impalpabile nulla, una patria tenebrosa. E come Martelli lottò per la sua felicità politica, in una prospettiva di fughe sempre nuove, sempre inutili, come in un’adolescenza riottosa, oggi Alfano s’abbandona a una ragionevolezza pedante e spesso peccaminosa, sostiene le virtù d’una puntigliosa stabilità di governo che nel Pdl accentua la confusione e una rissosità fitta e amara. Nel Psi si avvelenavano con fasto e serietà, mentre oggi il Pdl è uno stillicidio di male parole, di grugniti, di allusioni venefiche, di cupi silenzi, e ogni tanto l’esplosione furibonda, isterica, con pugni percossi sul tavolo, porte sbattute, Berlusconi che autoritario cerca di mettere pace. E non c’è angolo ombroso in cui non vengano scambiate parole al curaro: falchi contro colombe, ministeriali contro lealisti, Alfano contro Fitto, Verdini contro Quagliariello, Lupi contro Santanchè…

    Il rapporto di Martelli con Craxi, come quello di Alfano con il Cavaliere, è complicato, sul ciglio della rottura, sempre sottoposto al rischio di qualche agghiacciante equivoco. E’ questo il pericolo: più si aspetta, e più si ramificano le cose da chiarire, da precisare, da smentire, da controbattere. La storia è già scritta, e la politica italiana vive così la strana sensazione del già accaduto: un giorno, all’improvviso, come inattesa rivelazione, il Delfino si accorge di non saper più compiere un gesto o pronunciare un discorso, dentro cui, come il verme nel frutto, non s’annidi, per così dire, una riserva mentale. E d’altra parte il numero due vive in una dimensione di perenne ambiguità, deve essere se stesso ma anche un altro, in un ubriacante e continuo labirinto d’inganni; essere con Berlusconi, ma essere anche con Letta, essere un po’ di lotta e un po’ di governo, approvare la Legge di stabilità dicendo però che la si dovrà modificare. L’ambiguità è una ricchezza, diceva Borges, e non c’è genio che non abbia dato grande prova di ambiguità, a cominciare da Mozart e dalle sue tonalità all’epoca considerate, appunto, ambigue. E dunque l’esistenza di Alfano, il numero due, scivola così, in elegante equilibrio, in un continuo “ma anche”, applicato alla politica e pure alle relazioni umane, una specialissima condizione che lo fa vivere in lotta perenne con la propria sudditanza, un conflitto che lo spinge alla simulazione e alla dissimulazione, come nei frequenti, affettati, e recitati contrasti con il suo presidente del Consiglio Letta. Ed è un ben complicato esercizio quello d’amministrare l’ambiguità, richiede astuzia e nervi, è quasi un’arte esoterica, significa anche scoprire sempre quali sono i desideri, i timori, le paure, i pensieri e persino i sospetti del tuo capo. E Alfano, da ragazzino, già una volta avvertì, nello studio del suo primo numero uno, l’onorevole Gaetano Trincanato, vecchio democristiano di Sicilia, quello stesso odore di crisantemi che forse avverte anche oggi a Palazzo Grazioli. Anche allora simulava e dissimulava con garbo, e all’alba di Tangentopoli, poco prima dell’abisso, mentre il vecchio lapardeo siciliano cercava di candidare il proprio figlio per mettersi così da parte pur restando padrone, Alfano riuscì a farsi candidare lui alle elezioni provinciali estinguendo così quell’antica e non rimpianta dinastia. Ma non è detto che il destino di Alfano debba essere quello di Martelli, il ragazzo promettente, il gregario che non capì il gioco di specchi e di lusinghe nel quale aveva finito per confondersi: gli avversari d’un tempo lo sollevavano agli altari della gloria, gli facevano intravedere una via di salvezza, uno specchietto del potere, ma soltanto per buttare giù Craxi, farla finita per sempre con le velleità riformiste, concorrenziali e aggressive del suo Psi. E Martelli, da numero due ambizioso, non capì che ogni colpo tirato alla sovranità di Bettino era in realtà una sassata anche contro di lui, l’allievo, il satellite che sempre ruotava attorno al sole di Craxi, un uomo la cui storia personale e politica, la cui intera vita, era troppo avvinghiata a quella del padre-padrone per non doverne poi condividere la medesima sorte. I tempi, oggi come allora, sono sempre più infidi, le gerarchie sempre più instabili, non di rado le porte si rivelano finte, o danno su uno sgabuzzino polveroso, su una fogna, sul vuoto. Le vicende personali e politiche seguono talvolta percorsi simili, e certe figure nell’ampio orizzonte della storia finiscono con l’assomigliarsi, con l’assumere persino gli stessi tratti psicologici, se non addirittura fisici, Alfano come Martelli. E dunque in questi giorni, in queste ore, Alfano oscilla e spesso cede alle seduzioni della sinistra come una donna facile che si sente pizzicare i fianchi e il petto, cede con un sorriso di compiacimento, davvero crede al miraggio crudele delle lusinghe, all’adescamento dei nemici improvvisamente sorridenti. E come non comprenderne, e compatirne, la debolezza. Persino Berlusconi sogna la legittimazione, l’ha sempre fatto, e un brivido di contentezza l’ha sempre attraversato ogni qual volta i leader della sinistra lo hanno cercato, voluto incontrare, salutato come un avversario degno e non come un brigante della politica. Da vent’anni il Cavaliere fantastica, nei suoi sogni più dolci e fatui, di poter leggere su Repubblica un articolo a lui dedicato, finalmente amichevole, la legittimazione da parte della sinistra, “lo statista che non ci aspettavamo”. Ed è dunque comprensibile che adesso Berlusconi, non certo un saggio temperato dall’esperienza, ma pur sempre un uomo di settantasette anni che ne ha viste tante, osservi il suo scalpitante scudiero riconoscendo nel suo profilo, in controluce, una storia antica, dolorosa, e sempre uguale, l’eterna illusione dei numeri due, “quando sarai un numero uno mi capirai meglio”.

    Ed è forse una tentazione irresistibile, quella di allungare la mano e afferrare la mela del potere. Se il Delfino non allunga la mano, dentro gli resta come un grumo di disagio, una scontentezza, una intermittente impressione di essere mancato alla prova decisiva, di aver mancato il passaggio all’età adulta, che sempre – in letteratura come in psicanalisi – è un parricidio. E così il “diversamente berlusconiano” scandito dieci giorni fa da Alfano, per chi ha memoria, è risuonato tragicamente lugubre, quasi un’eco del motto sfortunato di Claudio Martelli, “restituire l’onore ai socialisti”. Ma dovrà certo esserci un motivo se al mondo non esiste una sola statua di Bruto, figura rivalutata, revisionata dalla storia, “uccise per amore di Roma e della Repubblica”, dicono i suoi più recenti biografi, eppure figura detestata – il delitto più odioso dai tempi dei fratelli Karamazov è il parricidio – e certo figura anche drammatica perché, pugnalando Cesare, Bruto in realtà pugnalò se stesso condannandosi a una turpe fine. E la molla è forse sempre quella, chissà, il pungolo incandescente, l’irreprimibile necessità, dimostrare di non essere uno dei tanti uomini nati senza avvenire, per fare numero, per figurare in statistiche di epidemie influenzali, di consumi, di trascurabili oscillazioni elettorali. Ma poi, inesorabile, per ogni parricida politico arriva il fallimento, la rivelazione crudele. E la disillusione è tanto improvvisa quanto cocente. Quando il parricidio è compiuto, il Delfino, il figlio omicida, ha d’un tratto la convinzione d’essere caduto in una trappola mortale, che l’aspettava da sempre al fondo di una fila innocente di piccole umiliazioni di corte; compiuto il delitto anche la festosa cerchia dei nuovi amici, con le loro lusinghe, le profferte, le promesse di gloria e di sostegno, sparisce, come il resto, potere e onori, tutto in fumo. Martelli rimase solo, ammaccato, deluso, e il Pci lo finì con una pernacchia assassina, con l’umiliazione dell’indifferenza, lo scaricò, specie dopo gli avvisi di garanzia, schiacciato tra l’odio socialista e la freddezza della sinistra, “come potevo lottare se gli uni mi accusavano di essere complice dei nuovi poteri e gli altri di essere parte del vecchio sistema? Avevo quarantanove anni e la mia corsa era finita”. E allora bisogna proprio chiederselo: che se ne farebbero Epifani e Matteo Renzi di Alfano, una volta morto Berlusconi? Probabilmente niente, anzi sicuramente niente, perché Alfano “è” Berlusconi. Quello del numero due è dunque un destino. Anche nelle coppie, tra attori, scrittori, filosofi, cantanti, c’è sempre la figura principale e la sua spalla, Marx era sempre Marx, ma quale sarebbe stato il destino di Engels senza Marx? Non c’era Macario senza Totò, non è mai esistito Cochi senza Renato, e Romina Power non ha avuto più una carriera dopo aver divorziato da Al Bano. Martelli non era il doppio di Craxi, in politica non vale l’aritmetica, e il numero due non è mai due volte il numero uno, ma una sua propaggine, una cosa sola con il suo grande capo. La successione in politica può avvenire, anzi, avviene, ma sempre per designazione, per affiancamento, fu così tra Giorgio Almirante e Gianfranco Fini, il vecchio capo missino violentò persino la democrazia interna all’Msi, ignorò il risultato di una votazione, pur d’imporre il suo erede designato. Ed è appunto ciò che adesso Berlusconi promette al suo Alfano, “resta con me, il tuo posto è al mio fianco. Quando sarai anche tu un numero uno mi capirai meglio”. Se il numero uno arriva al cielo, allora ti porta al cielo con sé, ma se il numero uno precipita nel fango anche il numero due presto o tardi si ritroverà sommerso. A quel che ci risulta soccombette addossato a un muro di Verona Galeazzo Ciano, nel frigorifero di casa Craxi bruciò l’amore filiale di Martelli, e nell’anticamera di Palazzo Grazioli, a notte fonda, potrebbe essere svanito il quid di Alfano.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.