Mario Monti, il gigante suonato

Salvatore Merlo

Saliva in campo per scendere in campo, si rivolgeva a Giorgio Napolitano rivelando l’efficienza e la disciplina del servitore dello stato, non la tronfia vanità del gradasso, “missione compiuta presidente”. Rivelava che Angela Merkel non era una nemica ma il leader di un grande paese alleato, padrone della tecnica riduceva lo spread e allontanava il fantasma del disarmo economico e della Troika, riformava le pensioni, e intanto sempre più il suo umore e il suo equilibrio dipendevano da un rigo di giornale, da una nota musicale, da una certa misura di luce.

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    Saliva in campo per scendere in campo, si rivolgeva a Giorgio Napolitano rivelando l’efficienza e la disciplina del servitore dello stato, non la tronfia vanità del gradasso, “missione compiuta presidente”. Rivelava che Angela Merkel non era una nemica ma il leader di un grande paese alleato, padrone della tecnica riduceva lo spread e allontanava il fantasma del disarmo economico e della Troika, riformava le pensioni, e intanto sempre più il suo umore e il suo equilibrio dipendevano da un rigo di giornale, da una nota musicale, da una certa misura di luce. E poiché incontenibile è l’orgoglio d’essere la vivente fatalità della vita italiana ai tempi del declino, abbandonato dall’establishment che pure l’aveva coccolato, spingeva la connaturata sicurezza nelle sue capacità, l’elevata comprensione di sé, sino a fondare un mostriciattolo di partito, rovinosamente chiamato Scelta civica, dove adesso non ha l’animo di restare. E già lusinga ed è lusingato da Matteo Renzi, di cui – si mormora nel Palazzo – vorrebbe diventare il ministro degli esteri o dell’Economia, ancora suggerito, non più da Pier Ferdinando Casini ma stavolta da Andrea Romano. Dice infatti: “Mi dimetto, ma non mollo”.

    L’ultimo Mario Monti, che non è Macario e neppure Totò ma un ex presidente del Consiglio ed ex commissario europeo, gran patrizio della tecnocrazia mondiale, professore e bocconiano, non riesce neppure a far parte del se stesso che ha inventato perché troppo gli fa schifo la compagnia che ha radunato e diretto. Si è accorto infatti che i suoi ragazzi, da Gabriele Albertini ad Andrea Olivero, non erano la brigata di giovani aristocratici che lui aveva sognato quando aveva preparato il manifesto della rinascita italiana, quando aveva compilato la sua famosa agenda. C’era, per esempio Mario Mauro, il ministro ciellino della Difesa, che sino a notte fonda, nei giorni in cui si doveva comporre il governo di grande coalizione, offriva improbabili profumi di poltrone ai suoi armigeri assiepati nella stanza che gli mette a disposizione il Senato. “Lo mandai a trattare da senatore, uscì da quella stanza che era ministro”, ha raccontato Monti. E già a marzo, subito dopo le elezioni, scontento, a tratti disilluso, il professore si guardava intorno e non si riconosceva più negli uomini, nei modi, e nelle miserie del suo movimento, con lo sguardo perso della vittima, della carcassa spolpata, perché è del suo prestigio nazionale e internazionale che tutti si sono nutriti, ed è attorno al suo ormai periclitante prestigio che ancora volteggiano affamati. Dentro Scelta civica, partito fermo sulla battigia del dieci per cento, si combatteva fino alla morte per un incarico da capogruppo (ma di un gruppo disfatto), per una poltrona da coordinatore (ma di un coordinamento inesistente), per una vicepresidenza poco più che onorifica, per la leadership di niente. Gli uomini di Luca Cordero di Montezemolo contro i cattolici di Andrea Riccardi, Romano contro Lorenzo Dellai, Carlo Calenda contro Olivero, “il capogruppo lo faccio io”, “no quel posto tocca a me”.

    Armati e combattivi gli uni contro gli altri per agguantare un pennacchio colorato, una medaglietta, una poltroncina, un simulacro del potere, con i sopravvissuti dell’Udc che osservavano le liti e rimanevano fermi, coltivando quell’intelligenza dello sgranocchiamento, del restare sempre a galla, di cui Casini è maestro assoluto. Eppure già nel seguire le agenzie di stampa che sino a tarda sera, ieri, hanno battuto le dichiarazioni di Della Vedova e Aldo Di Biagio con la lunga, stucchevole teoria di smentite e di conferme a proposito di un incontro, ovviamente epico, tra lo stesso Monti e il suo nuovo grande avversario, vale a dire il generale Casini; eppure in questo torrido mormorare di frasi sotterranee, di riunioni al curaro, in questo rullare di tamburelli nelle notti insonni della folcloristica Scelta civica non c’è solo l’ennesima commedia all’italiana, l’eco caricaturale del linguaggio democristiano, scomparso ma non ancora morto. Sul volto stanco di Monti battuto dai Casini e dai Mauro, nell’innaturale e mai visto al mondo, e brevissimo e straziante precipitare verso il nulla di un ex presidente del Consiglio e salvatore della patria, in questa sua resa finale, nell’immagine del Gulliver divorato dai lillipuziani, c’è l’Italia che non riesce mai a essere grande, ma spenna le vicende di ciascun protagonista , trasforma le sue farfalle in crisalidi. Strano paese dominato da uno strano capitalismo, da quell’establishment che ha avuto paura di Monti e l’ha dunque consegnato al suo destino tragico e vanitoso, alla fatuità dei Montezemolo e alla furbizia dei Casini, alla mediocrità d’oratorio dei Mauro e dei Riccardi, e insomma agli oscuri tramatori del “centro”, la pozza dove s’affogano tutti i meriti, l’acquitrino che spegne ogni slancio di fantasia, ogni impeto di riforma. “Una volta tanto”, ha scritto domenica scorsa Ernesto Galli della Loggia, “bisognerà pur parlare di che cosa è il capitalismo italiano”, la grande borghesia che non vuole la riforma del mercato del lavoro, che ha alzato il sopracciglio per la riforma delle pensioni. E regalato Monti a Casini.

    L’Italia è quel paese in cui i borghesoni sono ricchi, ma deboli, perché intimamente incapaci di ricchezza; potenti tremano per una tassa, sussultano per un decreto, palpitano per un articolo di giornale, temono le riforme. “La legge sul mercato del lavoro è un testo pessimo”, disse Emma Marcegaglia, allora presidente di Confidustria. Era il 5 aprile 2012 e dopo un inizio sfolgorante, Monti, lui che da commissario europeo aveva sciolto grumi paurosi come la multa milionaria alla Microsoft, era già sprofondato nelle sabbie mobili d’Italia, trattenuto da una borghesia abituata ad accucciarsi e, come si dice, a concertare nella palude. E le sue grandi riforme, le uniche, le ha fatte nel momento più cupo e drammatico, a un passo dal default, con lo spread sul baratro dei seicento punti, quando ogni briglia era ormai travolta dalla tragedia incombente: non nascevano dall’ottimismo e dalla virtù italiane, ma dalla paura e dall’ansia di una casta inebetita. “Bisognerà pur parlare di coloro che negli ultimi vent’anni hanno avuto nelle mani le sorti dell’industria e della finanza del paese”, ha scritto Galli della Loggia sul Corriere della Sera. “Quale capacità imprenditoriale, che coraggio nell’innovare, che fiuto per gli investimenti, hanno in complesso mostrato di possedere? La risposta sta nel numero delle aziende pubbliche che i suddetti hanno acquistato dallo stato, per lo più a prezzo di saldo, e che sotto la loro illuminata guida hanno condotto al disastro”.

    Il capitale è soltanto un peso da difendere: non seleziona, non raffina. Ed è così che l’Italia ha masticato Monti e l’ha poi risputato, in televisione da Lucia Annunziata, l’altra sera, ma in sembianze livide e macchiettistiche: la polemica canina con Daria Bignardi, Maurizio Gasparri elevato a nemico personale dall’uomo che trattava direttamente con Merkel e Obama, lui che si contrapponeva semmai a Silvio Berlusconi; e poi le parole sull’Europa, e sui suoi propri meriti, come lucidi lampi nella tempesta umorale. E già c’era stata la campagna elettorale, demagogia e ossessione catodica, con il professore berlusconizzato, ma impacciato e goffo in uno strano gioco di scambi e travestimenti, “l’Imu va modificata”, “l’Iva congelata”, diceva, negando se stesso. Il Monti spelacchiato e caricaturale di oggi è come una statua, un monito, un doloroso monumento ai fallimenti della classe dirigente italiana. Non serve a nulla possedere la fede nella tecnica, quella sorta di complesso di superiorità che distingue i dogmatici come Monti, se è messa al servizio d’una borghesia e un popolo indifferenti e chiassosi. E così, di fronte ai telespettatori di Rai3, l’altra sera, l’onda morta d’uno sgangherato rancore è scivolata contro il petto del professore bocconiano, scatenandosi per poi sparire, nera e schiumosa, con un ultimo fiotto, “in Europa e nel Ppe chi vi parla è considerato colui che ha salvato l’Italia e l’Eurozona”; fino al grottesco: “In Italia chi vi parla è colui che in uno studio televisivo si è trovato tra le braccia, di sorpresa, un cagnolino”. E insomma da nessun’altra parte del mondo la tecnocrazia, e il potere delle élite, si sono mai umanizzati, e dunque immiseriti a questo modo. Ma in nessun altro posto del mondo, Italia a parte, si è avuta l’impressione che la guerra all’austerità, che è stata la cifra di Monti al governo, sia stata una piccola furbizia, una doppiezza senza tormento, un escamotage, la concessione ai desideri più immediati e pigri di un popolo in difficoltà cui non si indica mai un orizzonte e una prospettiva di crescita faticosi eppure remunerativi, ma piuttosto la strada più comoda, lasca, in definitiva miserabile.

    Com’era diverso il Mario Monti appena arrivato al governo a novembre del 2011 da quello di oggi, il viso immobile e teso, che a tratti splendeva di quell’extraincandescente splendore che è il risultato dell’essere invocati, applauditi e comunque trattati come un monumento o una personalità ultraterrena da chi davanti a lui infallibilmente s’intimidiva. Solo una superbia e una vanità ottundenti, accompagnati da una straziante solitudine sociale, dall’abbandono da parte dei poteri cosiddetti forti, possono spiegare come Monti abbia potuto correre alle elezioni per giunta collegato a Casini, al più spregiudicato tessitore di trame inutili che la Seconda Repubblica abbia mai conosciuto, senza nemmeno sospettare che sarebbe andata a finire così, con una pernacchia crudelmente democristiana.

    Voleva essere regista, ma sin dall’inizio è stato diretto, come lo avvertiva Annamaria Cancellieri, la ministra e amica del professore, lei che in Scelta civica non ha mai voluto entrare. Monti non è riuscito dov’era certo di farcela, compreso com’è di se stesso e delle proprie qualità. Il professore ha a lungo tentato d’impadronirsi dei tramatori democristiani come un burattinaio che sa stringere in pugno i fili di tutte le sue marionette. Ma ogni qual volta si sforzava di considerare freddamente, spassionatamente, l’intero groviglio nel quale s’era cacciato, allora annaspava, soffocato: i suoi pensieri non bastavano a incorniciare l’irta realtà, i suoi occhi a vedere, fino in fondo, questo suo arido panorama della vita. E in quei fili di pupi è rimasto impigliato. Adesso inciampa verso Matteo Renzi, e il suo fedele Andrea Romano, professore e deputato, lo vorrebbe forse guidare (ancora un verbo al passivo) all’ultimo capitombolo. Altre trame, altro formicolare di lillipuziani intorno al gigante suonato.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.