Le avventure del populismo urbano
“Ignazio Marino flop”; “Ignazio Marino svegliati”, dicono a Roma, con varie gradazioni, i partiti amici e nemici del sindaco, i passanti e i giornali (non solo il Messaggero, avverso fin dall’inizio, ma anche, in modo meno tranchant, il Corriere della Sera e Repubblica). Marino a Roma c’è arrivato sull’onda del “daje”, slogan di lancio del suo programma di populismo urbano e spegnimento luci (lo fa in comune quando esce dalle stanze), con salari di sostegno agli stagisti (500 euro, diceva), buoni casa (700 euro, diceva), fondi per “la fragilità sociale” e biciclette a tappeto.
“Ignazio Marino flop”; “Ignazio Marino svegliati”, dicono a Roma, con varie gradazioni, i partiti amici e nemici del sindaco, i passanti e i giornali (non solo il Messaggero, avverso fin dall’inizio, ma anche, in modo meno tranchant, il Corriere della Sera e Repubblica). Marino a Roma c’è arrivato sull’onda del “daje”, slogan di lancio del suo programma di populismo urbano e spegnimento luci (lo fa in comune quando esce dalle stanze), con salari di sostegno agli stagisti (500 euro, diceva), buoni casa (700 euro, diceva), fondi per “la fragilità sociale” e biciclette a tappeto. C’è arrivato di corsa, a Roma, Marino, senza gran combattimento (anche grazie al sostegno di aree del Pd che ora lo criticano in modo feroce ma in forma anonima), e sul filo dell’annunciata “liberazione” della “città dei bambini e delle mamme” nonché dei cittadini non automuniti, in teoria conquistati dalla sua “cavalcata alla Mussolini lungo i Fori pedonalizzati” (copyright Luciano Canfora), iniziativa invece portatrice di malcontento diffuso e immediato, con quel tratto di strada neppure chiuso al traffico, ma chiuso soltanto al traffico privato. Era arrivato facilmente alla meta, Marino, presto sofferente sul crinale delle discariche, delle assunzioni pasticcione (con curricula inadeguati ai requisiti richiesti, nemesi per un oltranzista del curriculum che tutto salva come lui), degli eterni cantieri della Metro C e dell’immobilismo da scontro con una realtà complessa. Ed è come se Marino, in quattro mesi, si fosse autoridotto in polvere.
Fossimo a New York, ancora ancora. Ma allora servirebbe altro (altro che Marino). A New York il candidato sindaco democratico Bill de Blasio, un passato giovanile nella sinistra terzomondista e un passato più recente nell’Amministrazione di area clintoniana (sinistra liberal), ha vinto le primarie come esponente di punta del “nuovo populismo urbano”, come scriveva due giorni fa il New York Times, e si avvia al trionfo elettorale (a novembre) sulle spalle dello slogan dickensiano “tales of two cities” – la città dei ricconi e la città dei poveracci, con tutto ciò che ne discende in promesse di “case abbordabili” e welfare in espansione. De Blasio giunge dopo più di vent’anni di sindaci repubblicani (e di livello-crimine dimezzato). Arriva come giustiziere post Occupy Wall Street e come Robin Hood anti finanza avida, ma anche come alternativa alla sinistra “di mondo” (clintoniana) in mezzo alla quale peraltro lavorava fino a poco fa. Dice cose di sinistra-sinistra (populista), De Blasio: “A favore degli affittuari e non dei proprietari, degli immigrati senza documenti, dei lavoratori e non dei datori di lavoro, dei sindacati della scuola, dell’assistenza sanitaria” e “della lotta alla disuguaglianza”. E però, si chiede Thomas B. Edsall sul Nyt, “dove porta, sul piano nazionale, l’avvento di una nuova era di populismo urbano sotto De Blasio”? A un futuro revival conservatore o a una rinascita sotto altre spoglie della sinistra liberal resa impopolare dalla crisi economica?
Ma a Roma – e nella Napoli dell’altro populista urbano in bandana ed ex pm Luigi De Magistris – il grido generico poveraccista, pro disoccupato, pro ambiente, pro riscossa dei diseredati, pro eguaglianza, anti caro-alloggio e soprattutto pro “rivoluzione” (ma che vuol dire, in città come Roma e come Napoli?) si è strozzato in gola agli stessi urlatori, con tutti i suoi corollari di periferie sommerse da salvare (tormentone di Marino), di diritti da ampliare (altro Leitmotiv che attira consensi non duraturi) e di case da moltiplicare come i pani e i pesci (bloccheremo gli sfratti, diceva due giorni fa il sindaco di Roma, tirato per la cravatta, letteralmente, dagli attivisti più populisti di lui, quelli accampati a Porta Pia dopo la manifestazione “no all’austerità” di sabato scorso). Anche se il vero problema sono il bilancio da bancarotta e zero idee per uscirne (tranne l’appello allo stato pagatore).
Sotto il Vesuvio, intanto, il De Magistris che voleva “scassare” tutto, si ritrova a sua volta “scassato”, anche lui previa pedonalizzazione del lungomare (già un anno fa i napoletani scrivevano al Mattino lettere insofferenti, per dire che il sindaco aveva fatto fuori “una risorsa per la mobilità cittadina”, senza peraltro “riuscire a rivitalizzare sei chilometri d’asfalto piazzando uno chalet di qua, una paninoteca ambulante di là, qualche equilibrista lungo il marciapiede e qualche giocoliere che scorrazza…”).
Andava in giro ad abbracciare tutti, De Magistris, prima della sequela di non-soluzioni e non-rivoluzioni che lo hanno fatto precipitare all’ultimo posto nella lista di gradimento dei sindaci (indagine Datamedia pubblicata sul Corriere del Mezzogiorno il 16 ottobre). Andava in giro felice del gemellaggio ideale con la Milano di Giuliano Pisapia (come fa Marino). Il colmo dei colmi, ex post: De Magistris e Marino alle corde e il nume tutelare Pisapia al sicuro, sebbene senza sbrilluccichii, come sindaco di Milano dedito ai populismi verbali ma salvato dal genius loci che impone realpolitik (e poi Milano è città quasi austriaca: i cittadini ti vedono come borgomastro, e come tale comunque ti sostengono).
Pareva la panacea per la sinistra ammaccata dalle elezioni politiche (non vinte), l’Ignazio Marino dell’Eldorado arcobaleno (pace, lavoro, felicità), una tiritera che ad alcuni pareva adatta anche a future corse (altrui) sul piano nazionale. Ma come tutti i papi stranieri della società civile da buttare nell’urna (tanto poi si vede), Marino s’è visto ritornare il suo “daje” dritto in fronte. “Daje-de-che? Qui tra un po’ siamo commissariati”, dice un consigliere comunale di centrosinistra. E Roma se ne infischia dello strapotere dei palazzinari (bestia nera del sindaco allegro chirurgo), se poi l’uomo del “daje” produce persino “l’emergenza consiglio comunale” (titolo del Corriere): il consiglio non viene convocato per mancanza di delibere da votare (la giunta non produce). Roma guarda e passa, ma l’“avanti popolo” si accartoccia.
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