La corda e il secchio

Le fatiche parallele di Letta e Alfano

Salvatore Merlo

Le loro vite sono così intrecciate da far pensare alla corda e al secchio, a un unico destino, insieme hanno fondato le larghe intese, percorrono la strada tortuosa della governabilità, e insieme, il 3 ottobre, hanno costretto Silvio Berlusconi a votare la fiducia: parafrasando Montale, Angelino Alfano ed Enrico Letta “hanno salito un milione di scalini dandosi il braccio”. Simul stabunt simul cadent. E così a metà d’un pomeriggio di tormenti e dissipazione, mentre il Senato torpido e distratto quasi manda a casa il governo, Alfano telefona impensierito al suo presidente del Consiglio, “nel Pdl bene o male li tengo sotto controllo, te lo assicuro. Ma i tuoi che combinano?”.

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    Le loro vite sono così intrecciate da far pensare alla corda e al secchio, a un unico destino, insieme hanno fondato le larghe intese, percorrono la strada tortuosa della governabilità, e insieme, il 3 ottobre, hanno costretto Silvio Berlusconi a votare la fiducia: parafrasando Montale, Angelino Alfano ed Enrico Letta “hanno salito un milione di scalini dandosi il braccio”. Simul stabunt simul cadent. E così a metà d’un pomeriggio di tormenti e dissipazione, mentre il Senato torpido e distratto quasi manda a casa il governo, Alfano telefona impensierito al suo presidente del Consiglio, “nel Pdl bene o male li tengo sotto controllo, te lo assicuro. Ma i tuoi che combinano?”. Troppi gli inciampi, gli incidenti, le insipienze degli ultimi giorni: l’elezione muscolare di Rosy Bindi alla commissione Antimafia, gli strepiti e l’insofferenza del viceministro Stefano Fassina, e poi quella legge di stabilità così attaccabile, scritta da Fabrizio Saccomanni con la flemma e il distacco del tecnico, quando sarebbe necessaria – anche in economia – un po’ di politica, uno scarto di fantasia, qualcosa da poter vendere sul mercato dell’opinione pubblica per rafforzare il partito ministeriale e la logica delle larghe intese. Nessuno più di Alfano intuisce la profondità del suo legame con Letta, la corrispondenza quasi geometrica tra la sua posizione e quella del premier; la sofferenza dell’uno è infatti il supplizio dell’altro, “la tua salute è la mia salute”, dice il segretario del Pdl, lui che adesso, accigliato, osserva germogliare i propri nemici interni al partito sotto la cenere del voto di fiducia del 3 ottobre. Più s’appanna Letta, più Alfano avverte il ribollire inesausto, ma non ancora davvero pericoloso, di Daniela Santanchè, Denis Verdini e Raffaele Fitto. Ieri, per quattro voti, Nitto Palma, alla guida d’un manipolo d’armigeri in Senato, non ha disarcionato il governo nel voto sulla legge costituzionale che istituisce il comitato per le riforme. E’ stato quasi un incidente, una manovra non autorizzata da Berlusconi. Ma Alfano prova un amoroso terrore per il Cavaliere e le sue mutevoli inclinazioni. Il Sovrano di Arcore è stato rinviato a giudizio a Napoli, e il voto sulla sua decadenza si avvicina.

    Il Cavaliere tace, ma la sua assenza incombe. E nel giorno del rinvio a giudizio, a circa un mese dal voto sulla decadenza, i falchi del Pdl hanno mandato, anche se un po’ inconsapevolmente, un segnale ai loro nemici ministeriali. Il voto di Palazzo Madama, ieri, è stato poco più d’uno sgarro di calcolo, un errore persino dei falchi, un azzardo, nessuno nel Pdl, nemmeno Augusto Minzolini, che pure ha votato contro il governo, pensava davvero di poter intaccare i numeri d’una maggioranza considerata solida. Eppure, alla fine, la legge costituzionale sulle riforme, voluta da Giorgio Napolitano e coccolata da Gaetano Quagliariello, è passata per soli quattro voti di scarto. E un’ombra, per alcuni interminabili minuti, ha oscurato persino il volto dei crisaioli, anche quello dell’ex ministro Nitto Palma, il regista dell’imboscata che ha infastidito, sì, Alfano, ma che pure non lo ha sul serio preoccupato, come ha fatto capire, ieri pomeriggio, al suo antagonista Raffaele Fitto, dopo averci a lungo parlato a Montecitorio: strana e inconcludente conversazione, la loro, un rimpiattino di omissioni e ammissioni imperfette che non li ha avvicinati di un millimetro. Così nel Pdl si vive ancora da separati in casa, con i corridoi del partito divenuti campi di battaglia, dove in un brevissimo spazio si scontrano e sfogano gli affetti più disordinati, cupe collere, contundenti lusinghe, puntigli e piccole ripicche. E dunque il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, martedì, ha dato forfait a una manifestazione romana, che riuniva all’Auditorium della conciliazione quasi 1.500 medici e tecnici di strutture sanitarie private, elettorato storico del Pdl, perché l’iniziativa (come un’altra simile ad Avellino, la settimana scorsa) era stata organizzata da un senatore del Pdl campano, Vincenzo D’Anna, legato ai falchi di Fitto e Palma. Ma Alfano considera contenibile questo tramestìo. Il segretario sa che potrà tenere a bada la petulante rissosità del Pdl soltanto se, dall’altro lato, il suo partner di governo Letta saprà essere forte. E’ infatti sul Pd, sulla capacità di tenuta di Letta, che il vicepremier e segretario del Pdl addensa le sue inquietudini. Il 3 ottobre l’asse Alfano-Letta appariva imbattibile, dopo il voto di fiducia il governo delle seconde file s’era trasformato d’un tratto in un’élite politica più forte degli stessi partiti che l’avevano espressa. Ma dopo appena venti giorni, in corrispondenza della legge di stabilità, la parabola ha iniziato a inclinarsi, e l’impressione del gruppo ministeriale è che il punto debole della grande coalizione stia a sinistra. E insomma, secondo loro, il premier non è aiutato dal suo partito. Il Pd, sempre di più, percepisce Letta come un corpo estraneo, gli crea problemi, sfugge alla ferrea logica della stabilità. E poiché Letta e Alfano sono diventati i gemelli d’Italia, la corda e il secchio, ai guai dell’uno corrispondono i guai dell’altro. Così anche la schiacciante vittoria di Alfano è oggi messa in discussione nel Pdl esulcerato da baruffe che esplodono più fragorose ogni qual volta il Pd si dimostra indisciplinato e incapace di rispettare accordi semplici come l’elezione del presidente della commissione Antimafia. Non bastasse, Alfano ha pure da gestire il grande capo martirizzato, Berlusconi, lui che vorrebbe tutti con sé gli uomini del Pdl, crocifissi dalle bocche cucite, apostoli tragici del suo verbo.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.