“Ho un amico per cena”. Storia dei cannibali da Polifemo a Lecter

Edoardo Rialti

Una forchetta solleva una fetta di carne alle labbra schiuse di un uomo elegante, avvolto nella penombra di una sala da pranzo in cui riecheggia “La goccia” di Chopin. L’uomo la assapora lentamente, gli occhi come due pozzi, e noi sappiamo, senza bisogno di parole, che quella è carne umana. E’ così che viene introdotto il Dottor Hannibal Lecter – interpretato da Mads Mikkelsen – nella nuova serie tv di grande successo in America e approdata anche su Italia 1, che ne racconta gli anni in cui affiancava nelle indagini quello stesso agente Graham (Hugh Dancy) che, da suo paziente e amico, diventerà poi colui che lo arresterà.

    Una forchetta solleva una fetta di carne alle labbra schiuse di un uomo elegante, avvolto nella penombra di una sala da pranzo in cui riecheggia “La goccia” di Chopin. L’uomo la assapora lentamente, gli occhi come due pozzi, e noi sappiamo, senza bisogno di parole, che quella è carne umana.
    E’ così che viene introdotto il Dottor Hannibal Lecter – interpretato da Mads Mikkelsen – nella nuova serie tv di grande successo in America e approdata anche su Italia 1, che ne racconta gli anni in cui affiancava nelle indagini quello stesso agente Graham (Hugh Dancy) che, da suo paziente e amico, diventerà poi colui che lo arresterà. E’ l’ennesima aggiunta e variazione sul tema di uno personaggi più celebri del recente immginario collettivo, quello creato da Thomas Harris e interpretato da Anthony Hopkins, ma è anche un nuovo tassello di una storia ben più antica, che viene da molto lontano, con la quale da sempre l’occidente ha cercato, nelle varie arti, di tracciare i tratti della nostra identità umana e culturale. Una storia di bocche. E di pasti.

    Il cannibalismo in letteratura venne raccontato in Grecia ora come il retaggio di epoche e dèi più barbari e caotici, ora come una sorta di contraddizione in termini, una iperbole di follia e odio, cui si possono abbandonare con l’immaginazione gli eroi stravolti dall’odio – Achille che minaccia Ettore: “Vorrei che mi bastasse l’animo e il furore / a tagliare il tuo corpo e mangiarlo crudo, per quello che mi hai fatto” – oppure ancora come un surplus di crudeltà cui condannare con l’inganno un avversario (i tanti figli offerti in pasto a padri inconsapevoli, che arriveranno fino a Shakespeare). Gli uomini non si mangiano tra loro, e non è un caso che il più celebre antropofago del mondo antico, Polifemo, che molto prima dell’Orco delle fiabe già fiutava la carne umana, non sia uomo affatto. Il Ciclope avverte Odisseo che delle leggi sugli ospiti egli se ne infischia, e chi ascolta lo stesso Odisseo raccontare ha già tutti gli indizi per rabbrividire dinanzi alla “summa di tutte le infamie”: “Con un balzo sui miei compagni le mani gettava […] non lasciò indietro / né interiora, né carni, né ossa o midollo”. Eppure già il mondo omerico sapeva raccontare – con i Lestrigoni – l’inquietante possibilità che ci siano popoli che non siano affatto “mangiatori di pane”.

    A volte il predatore può farsi molto più sinistramente vicino, ed ecco entrare in gioco quello che Stephen King chiamò uno dei “tarocchi” fondamentali del mazzo di carte delle nostre paure ancestrali: “Il marchio della bestia, il Licantropo”. Già Pausania racconta dei selvaggi culti del lupo in Arcadia, e Petronio nel “Satyricon” inserisce una storiella dell’orrore su un “versipellis”, una “cambiapelle”, visto che si credeva che tali maledetti voltassero all’esterno una pelle di lupo. Nel “Beowulf” anglosassone, con un suggestivo accostamento, l’Orco Grendel, il reietto, l’escluso dalle gioie del banchetto tra uomini, e che si intrufola di notte a mangaire i soldati addormentati viene fatto discendere da Caino, che con il suo tradimento omicida ha dato origine a tutti gli orrori. Ed è proprio nella ghiacciaia dei traditori che Dante incontra il conte Ugolino e il suo “fiero pasto” dell’odiato arcivescovo che lo ha fatto morire di fame e follia assieme a figli e nipotini. Dante conosceva bene l’ammonimento benedettino a mantenere il controllo “Acta sua omnia hora custodire” e definiva appunto “matta bestialitade” la perversione cui il male può far giungere l’uomo corrotto; eppure egli è forse uno dei primi a farci entrare “dentro al mostro”, e incontrare il cuore straziato di un padre che, al pari di Francesca, parla come l’esiliato Enea.

    Tutto si fa più sfumato, man mano che ci avviciniamo ai nostri tempi; è stato sempre Stephen King, nelle sue lezioni sulla letteratura e il cinema della paura “Danse Macabre”, a riconoscere “il marchio della bestia” – come lo definì Kipling – in licantropi meno ovvi di quelli che ululano alla luna: il Mr. Hyde del racconto di Stevenson è il primo “mostro” che “non è facile a descriversi. Nel suo aspetto c’è qualcosa di sgradevole, di assolutamente detestabile. Ci deve essere qualcosa di deforme in lui; dà una forte impressione di deformità, benchè mi sia impossibile specificare dove sia localizzata”. Grendel o Polifemo si fanno più sfuggenti, proprio come il violento seviziatore che nel racconto di Stevenson scivola ogni notte nella porta sul retro della casa di un rispettato dottore. Sono gli anni di Nietzsche e Freud, e se Dante ci aveva mostrato che si può piangere di orrore e pietà per un cannibale, Stevenson fa molto di più, racconta le sensazioni stesse di chi decide di affondare nel magma delle pulsioni più oscure, diventando una belva, e prova “qualcosa di indescrivibile, e, per la sua stessa novità, di infinitamente dolce… al primo vagito di questa nuova vita ebbi coscienza di essere più malvagio, dieci volte più malvagio, incatenato come uno schiavo al mio male originario. E quel pensiero mi inebriò come una coppa di vino”. Ma per King un passo ulteriore, un vero salto quantico, sarà compiuto quando uno scrittore di storie su alieni spaventosi come Robert Bloch “spostò semplicemente la prospettiva dall’esterno all’interno, dove c’è il Licantropo”, e immaginò “Psycho” e il suo Norman Bates: “Per il mondo che l’osserva, Norman è del tutto normale, sembra un così bravo ragazzo. Norman è il Licantropo. Solo che invece di farsi crescere il pelame, per trasformarsi si mette addosso mutandoni, sottane e vestito della madre morta. E invece di mordere gli ospiti, li prende a coltellate. Noi vediamo che Norman è il Licantropo solo esteriormente, ma ci coglie lo sgradevole sospetto che interiormente egli sia Licantropo sempre”.

    Ed eccoci arrivare così al Dr. Lecter in cui tutti questi filoni confluiscono assieme, in una sorta di vertiginoso cortocircuito. Al pari del mr. Hyde di Stevenson, anche qui la descrizione è difficile, ma a un livello più profondo ancora. Chi ne tracci un profilo elenca solo una serie di negazioni, quasi non ci siano parole adatte, una sorta di “teologia negativa” del male: “Non era uno sbandato, non aveva precedenti penali. Non era poco intelligente e afflitto da piccole manie, come la maggior parte dei sociopatici. Non è privo di sensibilità. Non sanno come definirlo. I suoi elettroencefalogrammi mostrano un andamento strano, ma nessuno è stato in grado di capirne molto”. Gli strumenti di rilevazione che mancavano sulla fronte o al polso di Norman Bates o di Polifemo qui non possono che aumentare lo sconcerto: “Le pulsazioni non sono mai salite oltre 85. Anche quando le ha strappato la lingua”. Con sapienza narrativa Harris lo introduce poco a poco, prima con una serie di incespicanti dialogi tra i suoi custodi. Quando poi giungiamo dinanzi a lui, per prima cosa è un dettaglio a essere evidenziato: non la bocca sanguinosa, ma il “Grande dictionnaire de cuisine di Alexandre Dumas”, e l’edizione italiana di Vogue; si tratta di “un uomo piccolo, esile. Molto ordinato”, ma quel che conta davvero non è che “la mano sinistra aveva sei dita”, quanto “gli occhi castani che riflettevano puntini rossi di luce”, e il loro effetto: “Per un secondo vertiginoso Clarice ebbe la sensazione che quello sguardo emettesse un ronzio. In realtà sentiva soltanto il rombo del proprio sangue”. Potrebbe dirlo anche una gazzella che fissi un leone.

    Passo dopo passo scopriamo che stavolta il mostro è ben lungi dall’essere un reietto, anzi si tratta di un membro di spicco e ammirato della civitas, di cui si leggono ancora gli scritti, i disegni di Firenze, e di cui qualcuno ricorda anche le sontuose cene per amici e colleghi (“Devo avvertirvi – spiega il Lecter della nuova serie tv – niente stasera è per vegetariani”). Norman Bates arrestato si chiude in manicomio in un mutismo sorridente, inghiottito dalla follia, ma il Dr. Lecter è, appunto, un dottore, e tale resta. Non c’è bisogno che il Dr. Jekyll faccia uscir fuori Hyde. Anthony Hopkins spiegò di essersi ispirato per la voce gentile al computer Hal di “Odissea nello spazio”. Persino in carcere è ancora in grado non solo di rispondere con calma suadente di essersi mangiato il fegato di un tizio del censimento “con un buon Amarone” (il film “Il silenzio degli Innocenti” corresse in Chianti), ma anche di sollevare domande sconcertanti. All’agente Starling che prova a definire il suo operato come distruttivo, e a prenderne così le distanze, egli chiede: “Il male è soltanto distruttivo? Per passare il tempo faccio collezione di crolli di chiese. Ha visto quello che è accaduto di recente in Sicilia? Meraviglioso! La facciata è crollata addosso a sessantacinque nonne che assistevano a una messa speciale. E’ stato un atto malvagio? Se è così, chi lo ha commesso? Se c’è un Dio, si diverte, agente Starling. Febbre tifoide e cigni provengono tutti dalla stessa fonte”. Per poi spingersi ancora oltre, in una sorta di maieutica socratica con allieva tanto spaventata quanto attratta. Alla giovane agente che gli chiede ragguagli su come catturare un feroce serial killer domanda a sua volta: “Che cosa fa, l’uomo che vuole catturare?”. La risposta, “uccide”, merita solo un’alzata di spalle. La vera soluzione è molto più radicale, e condivisa: “Desidera. Desiderare è nella sua natura”. Un verbo che accomuna Bates e Hyde, ma che sguscia elegante fuori della cella di Lecter, e coinvolge gli agenti dell’Fbi e il lettore.

    La cieca furia irrazionale è lontana come le navi di Odisseo o la furia di Achille. Non solo all’allontanarsi di Starling “Hannibal Lecter non le voltò la schiena”, ma arriverà a spiegarle che, sfuggito al manicomio, non andrà “a farle visita perché la sua presenza rende il mondo più interessante”. Il cambiapelle ha percorso una lunga strada da quando divorava gli ospiti a oggi che spiega di avere “un caro amico per cena”. Nella nuova serie tv l’agente Crawford ospite di Lecter domanda cosa stiano gustando. Gli viene risposto “coniglio” e allora scherza che la bestiola avrebbe dovuto correre più veloce. “Lo penso anche io”, ribatte Lecter, e i due sorridono. Per motivi diversi. Odisseo si è seduto a tavola con Polifemo e lo ha trovato civile, educato e divertente.