L'Italia sempre eguale
Passano i decenni, passano i secoli, ma l’Italia è sempre uguale. Vero o falso? Noi non vogliamo crederci, ma per gli stranieri è cosa ovvia. Gli italiani parlano, si esprimono, litigano: e questa esagitazione emotiva, verbale e retorica crea un’impressione di dinamismo. E’ mezzo secolo che sento parlare di riforme e modernizzazione. La modernizzazione è stata fatale, ma le riforme che dovevano governarla sono rimaste un proposito, un sogno. La società si muove come può, si muove passivamente, per impulso esterno. Lo stato rimane fermo e i partiti sono i suoi parassiti.
Passano i decenni, passano i secoli, ma l’Italia è sempre uguale. Vero o falso? Noi non vogliamo crederci, ma per gli stranieri è cosa ovvia. Gli italiani parlano, si esprimono, litigano: e questa esagitazione emotiva, verbale e retorica crea un’impressione di dinamismo.
E’ mezzo secolo che sento parlare di riforme e modernizzazione. La modernizzazione è stata fatale, ma le riforme che dovevano governarla sono rimaste un proposito, un sogno. La società si muove come può, si muove passivamente, per impulso esterno. Lo stato rimane fermo e i partiti sono i suoi parassiti.
Chi è sprovvisto, come me, di passione politica, chi non si diverte a leggere la cronaca delle attività governative, parlamentari e partitiche, può andare soggetto a quel tipo di malinconia che non apprezza l’attività ma soltanto i risultati. E’ stato detto (da un grande critico d’arte come Roberto Longhi, mi pare) che la prima caratteristica dello storico è la presbiopia. Se guardo le cose da vicino, capisco poco. Se mi allontano e lo sguardo si allunga, più che la folla degli eventi, vedo i fenomeni di lunga durata. Gli storici degli avvenimenti sono ispirati dalla passione politica. Gli storici della “lunga durata” si appassionano all’antropologia, ai caratteri di popoli e paesi.
Il discorso sul carattere e sui costumi degli italiani è ridiventato di moda da un quarto di secolo. All’improvviso tutti si sono messi a parlare di quello che diceva Leopardi nel suo “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”. Ma uno dei primi, o forse il primo, a riproporre il problema in termini nuovi è stato, fin dagli anni Settanta, Giulio Bollati: protagonista editoriale della Einaudi, saggista e storico, direttore dal 1987 al 1996 della Bollati Boringhieri. Il suo libro più noto, “L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione”, uscito esattamente trent’anni fa, raccoglieva le sue ricerche sul tema, precedute da una “digressione sul trasformismo” e seguite da un bilancio delle “Peripezie italiane di politica e cultura” dopo il 1945, la cui prima pagina è dedicata a una conversazione torinese con il suo compagno di lavoro Italo Calvino: “Lo apprezzavo”, scrive Bollati, “per la sua capacità di cogliere a volo i mutamenti anche minimi della politica, della cultura, delle mode intellettuali, un vero sismografo; anche se mi irritava la facilità con cui prendeva atto delle novità senza inutili sentimentalismi”.
Se c’è un autore per il quale il rapporto fra critica e autobiografia (essenziale, secondo Giacomo Debenedetti) è più scoperto, questo è Giulio Bollati. Ma l’autobiografia di un critico, per fruttare criticamente, deve essere implicita: un movente che agisce restando in ombra. Per formulare i propri progetti e problemi di intellettuale-editore e per capire l’Italia postfascista, Bollati scelse come specchio le vicende italiane del secolo 1750-1860, cominciando dalle diagnosi e terapie a proposito della “decadenza italiana” formulate da Pietro Verri e dal gruppo del “Caffè” (1764-’66) per arrivare a Carlo Cattaneo e alla sua rivista neoilluminista “Il Politecnico” (1839-’44).
La sintesi più limpida di questa storia sette-ottocentesca, che ci riguarda da vicino anche perché la dimentichiamo, Bollati l’ha scritta in uno studio di cinquanta pagine, poco meno che un libro, pubblicato nel 1995, un anno prima della sua morte. Il titolo è “La prosa morale e civile”, ma il suo contenuto è più storico e politico che letterario. Anche i maggiori scrittori del periodo, Alfieri, Foscolo, Manzoni e soprattutto Leopardi, sono letti da Bollati più come eroi intellettuali, come filosofi militanti e ideologi, che come artisti. Il tema è l’Italia di fronte a un mondo moderno ancora ignorato e da conquistare, che arriva nella nostra assonnata penisola con lo sviluppo del commercio, della produzione e degli scambi culturali, con la rivoluzione francese e con Napoleone.
Pietro Verri, “illuminista nobiliare”, nota subito che la tradizione culturale italiana dominata dalle accademie e dal culto della bella forma, è inadeguata al presente. Se la nobiltà vuole dare prova di possedere ancora qualche “virtù” reale e non formale e cavalleresca, dovrà occuparsi dell’utilità economica e del bene pubblico: “Un atto utile in generale agli uomini si chiama virtù, e l’animo virtuoso” scrive Verri “è quello che ha desiderio di far cose utili in generale agli uomini”. Compito dell’intellettuale aristocratico, che lascia la spada per impugnare la penna, è incrementare e governare il progresso, senza idealizzarlo e farne una religione.
Per questo la letteratura italiana doveva cambiare, rinunciare al vocabolario della Crusca, parlare del presente e parlare a tutti: “La repubblica delle lettere sparse per l’Europa se per lo passato era considerata una società di curiosi che si occupavano di oggetti indifferenti per il ben essere della società, ora ha cambiato aspetto… L’agricoltura, le finanze, il commercio, l’arte di governare i popoli”, continua Verri, “questi sono gli oggetti che occupano gli uomini di studio. Né mai tanta connessione vi fu tra gli studi e la felicità delle nazioni quanta al dì d’oggi”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano