Si chiama “stop and go” il guaio peggiore per il petrolio libico
L’attacco via mare portato a termine nel fine settimana contro gli impianti energetici di Mellitah, a un centinaio di chilometri da Tripoli, è l’ultima prova di una crisi che attraversa l’industria del petrolio libico, con ripercussioni sia sulla produzione globale sia sugli interessi dell’Italia nella regione. Secondo le ricostruzioni, sabato notte un gruppo di berberi è riuscito a salire su una nave dell’Eni e ha iniziato un sit in che per il momento pare pacifico. Negli ultimi mesi gli analisti hanno cercato di dimostrare gli effetti della guerra in Siria sulle quotazioni del petrolio, ma la ricostruzione in Libia pare avere conseguenze molto più pesanti.
L’attacco via mare portato a termine nel fine settimana contro gli impianti energetici di Mellitah, a un centinaio di chilometri da Tripoli, è l’ultima prova di una crisi che attraversa l’industria del petrolio libico, con ripercussioni sia sulla produzione globale sia sugli interessi dell’Italia nella regione. Secondo le ricostruzioni, sabato notte un gruppo di berberi è riuscito a salire su una nave dell’Eni e ha iniziato un sit in che per il momento pare pacifico. Negli ultimi mesi gli analisti hanno cercato di dimostrare gli effetti della guerra in Siria sulle quotazioni del petrolio, ma la ricostruzione in Libia pare avere conseguenze molto più pesanti.
Le stime più recenti di Reuters dicono che la produzione è scesa del 10 per cento, che significa novantamila barili in meno sui mercati internazionali. Ma i calcoli oscillano a seconda dell’interlocutore, e in questo gioco delle parti le società petrolifere assicurano che i lavori nei principali snodi del paese proseguono, mentre i trader registrano stop significativi al terminal di Mellitah, che è gestito da Eni e costituisce il punto di partenza per il gasdotto Greenstream diretto in Sicilia, così come nella raffineria di Zawiya, sulla costa ovest.
Tre sono gli anelli che compongono la catena libica del greggio, e tre i problemi che le compagnie petrolifere devono affrontare in queste settimane fra Tripoli e i deserti al confine con l’Algeria. Si comincia dalla produzione, dai giacimenti Murzuk, al Hamra e Sarir, nella parte più interna del paese. In un primo momento si pensava che questi pozzi fossero rimasti danneggiati durante gli scontri che hanno portato alla fine di Muammar Gheddafi e del suo regime, e che le compagnie petrolifere avrebbero dovuto affrontare uno scenario simile a quello già visto in Iraq. In realtà nessun sito ha avuto danni particolarmente gravi, così il lavoro si ferma soprattutto per le proteste e gli scioperi degli operai libici, che chiedono stipendi più alti e migliori condizioni di vita. Non si tratta di un blocco “totale e assoluto”, dicono al Foglio fonti impegnate sul campo, è piuttosto uno “stop and go” che ha comunque conseguenze significative sui livelli di produzione. Il ministro del Petrolio, Abdelbari Arusi, ha visitato uno di questi siti proprio lunedì, ma è tornato a Tripoli senza un accordo perché gli operai hanno rifiutato di incontrarlo.
Poi vengono gli oleodotti, una rete lunga centinaia di chilometri che si snoda dall’interno verso la costa. Questo anello è al centro di una contesa tra milizie locali che cercano di imporsi una sull’altra, le compagnie straniere non hanno rapporti diretti con le milizie, tutto quel che ha a che fare con loro passa attraverso l’azione dell’esercito e i punti oscuri, in questa transizione, sono numerosi. Le riserve della Libia sono le più importanti dell’Africa, il petrolio è l’unica possibilità di guadagno in un paese colpito dalla guerra civile e da una ricostruzione sempre più lenta e difficile. Nel 2010 il paese era in grado di fornire ai mercati un milione e mezzo di barili al giorno, circa l’1 per cento della produzione globale, a prezzi particolarmente bassi, una quota molto lontana dai livelli di oggi. Le materie prime hanno retto da sole l’economia nazionale, dato che il fabbisogno della Libia ha raggiunto la soglia dei 50 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni, mentre le entrate di petrolio e gas toccavano tranquillamente il tetto dei 60 miliardi. La fine della produzione ha privato il governo di risorse fondamentali, per il governo è diventato quasi impossibile pagare gli stipendi alle forze dell’ordine e garantire un futuro ai giovani che hanno combattuto contro le milizie di Gheddafi, e che oggi chiedono una ricompensa per la rivoluzione. Ora il livello della sicurezza intorno alle infrastrutture ha raggiunto il massimo livello di guardia, ma in questo scenario è quasi impossibile comprendere chi abbia davvero il controllo della situazione.
I problemi sono soprattutto a terra
Il terzo e ultimo anello della produzione è quello dei porti, che sono stati il bersaglio delle azioni più eclatanti da parte di milizie e gruppi terroristici, come gli attacchi portati a termine con straordinaria regolarità contro Mellitah, nella parte ovest del paese. Ma la questione che più preoccupa i produttori è quella della Cirenaica, la provincia orientale della Libia, quella al centro di intense rivendicazioni federaliste: si teme, insomma, che le tensioni politiche possano culminare in un blocco prolungato di porti pesanti sul piano del traffico petrolifero come Marsa el Brega, Zuetina, Bengasi e Marsa el Hariga, i centri che distribuiscono il greggio in arrivo da Sarir.
Sinora i giacimenti marini hanno offerto qualche vantaggio in più rispetto a quelli di terra perché è più difficile organizzare proteste in mare aperto – anche se l’ultima azione a Mellitah mostra che nessun posto, in Libia, è davvero al sicuro. Sulle piattaforme “ci sono state richieste di aumenti salariali, ma siamo riusciti a risolvere il problema e fortunatamente non abbiamo avuto scioperi”, dice un responsabile libico di Bouri, un giacimento che si trova nel Mediterraneo, a 150 chilometri da Tripoli, e fornisce 40.000 barili di petrolio al giorno. Questo sito dovrebbe toccare quota 55.000 barili entro i prossimi sei mesi, quando le nuove pompe sottomarine di Eni diventeranno operative. La parte più consistente del problema resta a terra, dove gli scioperi e gli scontri fra milizie hanno il massimo impatto possibile sull’industria.
I contraccolpi per l’Italia sono evidenti, dato che la maggior parte di quel petrolio dovrebbe passare attraverso raffinerie di Sarroch e Priolo (sono rispettivamente nelle province di Cagliari e Siracusa), costruite proprio per chiudere il ciclo che comincia in Libia. Il petrolio di Tripoli, il più pregiato nel bacino del Mediterraneo, è usato nei cicli di lavorazione particolarmente redditizi, ma il crollo nelle forniture ha costretto le due raffinerie a cercare altrove, soprattutto in Russia e in Azerbaigian, con un aumento considerevole dei costi. Ma dai produttori arriva anche una nota di ottimismo: il governo libico non sta chiedendo soldi al governi stranieri, vuole soltanto aiuto tecnico per riuscire a riprende la produzione. Se la situazione politica tornerà stabile, l’obiettivo potrebbe essere raggiunto entro il 2014.
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