“Un congresso tra virgolette”

Claudio Cerasa

 A Roma, i più dotti tra i politologi direbbero che i candidati la stanno un po’ buttando in caciara. E anche se manca ancora un mese al risultato del congresso già oggi si può dire che il primo risultato certo  è che Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati hanno rottamato il congresso, lo hanno messo tra virgolette e hanno trasformato la loro corsa verso la leadership del Pd in una competizione anomala dove ogni candidato prima di ogni altra cosa si preoccupa di spiegare ai propri elettori che quello che stanno osservando è un congresso, sì, ma in realtà non è un classico congresso.

    A Roma, i più dotti tra i politologi direbbero che i candidati la stanno un po’ buttando in caciara. E anche se manca ancora un mese al risultato del congresso già oggi si può dire che il primo risultato certo  è che Matteo Renzi, Gianni Cuperlo e Pippo Civati hanno rottamato il congresso, lo hanno messo tra virgolette e hanno trasformato la loro corsa verso la leadership del Pd in una competizione anomala dove ogni candidato prima di ogni altra cosa si preoccupa di spiegare ai propri elettori che quello che stanno osservando è un congresso, sì, ma in realtà non è un classico congresso. Di Renzi abbiamo già in parte detto, e nelle nostre cronache dalla Leopolda abbiamo raccontato il modo in cui il sindaco sta tentando di trasformare il Pd in una sorta di formidabile Forza Renzi, mettendo da parte le bandiere del Pd, le discussioni sulle tessere, i simboli dell’apparato, la cinghia di trasmissione con la Cgil, e comportandosi come se la selezione del segretario fosse diventata una corsa per eleggere il primo cittadino della Leopolda – salvo poi naturalmente, e ci mancherebbe, scegliere come coordinatore della propria campagna il signore delle tessere della regione con più tessere d’Italia, il mitico Stefano Bonaccini, segretario dell’Emilia Romagna, regione che lo scorso anno ha raccolto da sola la bellezza di 80 mila iscritti al Pd.

    Ma a suo modo anche la campagna di Cuperlo – per non parlare di quella di Pippo Civati, caso estremo di candidato del Pd che si candida a guidare il Pd ispirandosi al progetto di un politico che fino a qualche mese fa non aveva neppure la tessera del Pd, e avete capito di chi parliamo – rientra a pieno titolo nella categoria di chi il congresso  lo mette in un certo senso tra virgolette. E di chi, insomma, pur non potendolo ammettere pienamente, cerca di impostare la sua campagna come se fosse figlio di una nuova minoranza antropologica, di una politica simile sì a quella di un tempo ma allo stesso tempo molto diversa e molto estranea al vecchio apparato – che naturalmente se non va rottamato quantomeno va urgentemente trasformato. E qui, oggettivamente, il gioco di prestigio di Cuperlo – candidato che in nome della lotta al nuovismo oscilla tra chi deve dimostrare di essere nuovo senza potersi permettere di fare la parte del candidato eccessivamente devoto al nuovo – da questo punto di vista stenta a decollare. E si capisce che a molti risulti complicato capire come il candidato che più degli altri in fondo rappresenta la sintesi perfetta tra il dalemismo e il bersanismo possa pensare di trasformarsi nel simbolo della discontinuità rispetto al Pd dalemiano e bersaniano, e possa insomma pensare di essere efficace più nella parte di chi la butta sull’estetica, sul bello e sul democratico, che nella parte, forse più credibile, di chi rivendica le cinquanta sfumature di grigio dell’apparato. Il vecchio saggio direbbe che in questo congresso-non congresso – dove in pochi tra l’altro sanno che alla vigilia delle primarie ci sarà un congresso vero dove saranno gli iscritti del Pd a scegliere i tre candidati che si giocheranno la segreteria l’otto dicembre – tutti i candidati del Pd hanno rinunciato a invocare il voto della vecchia massa critica della sinistra. E il sospetto che il giochino stia un po’ sfuggendo di mano lo percepisci ogni volta che ti ritrovi di fronte a un qualsiasi militante del Pd. Che può essere di fede renziana, di fede civatiana, di fede pittelliana, di fede cuperliana ma che pensando alla data dell’otto dicembre più che al risultato finale, quello sembra scontato, pensa a un problema diverso, a un altro risultato. Sintesi del problema: “Ma se tutti i candidati sono così impegnati a nascondere il congresso e a recuperare i voti dei cinque stelle, della sinistra vendoliana, dei socialisti e del centrodestra, non è che si corre il rischio di ritrovarci ai gazebo con pochissimi elettori del Pd?”. Già, risposta esatta.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.