Perché dicono “no” al Cav.

Sillabario ministeriale. Ogni alfaniano ha la sua pena. Eccole una per una

Salvatore Merlo

La carne è debole, mentre il partito personale è esageratamente forte. Può dunque capitare un giorno di guardarsi allo specchio e non riconoscersi più, il naso che pende un po’ a sinistra, un velo d’indipendenza nello sguardo, una ruga di ribellione a incidere la fronte in cui albergavano solo pensieri beati e remissivi. Ci si scopre insomma, una mattina, “diversamente berlusconiani”. Ed è l’improvviso balenìo di ambizioni e vanità a lungo soffocate, il distillato di pene incruente, compresse, quietamente corrosive che esplodono libere, d’un tratto, imprevedibili. Dura, durissima, è la vita di corte accanto a Silvio Berlusconi.

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    La carne è debole, mentre il partito personale è esageratamente forte. Può dunque capitare un giorno di guardarsi allo specchio e non riconoscersi più, il naso che pende un po’ a sinistra, un velo d’indipendenza nello sguardo, una ruga di ribellione a incidere la fronte in cui albergavano solo pensieri beati e remissivi. Ci si scopre insomma, una mattina, “diversamente berlusconiani”. Ed è l’improvviso balenìo di ambizioni e vanità a lungo soffocate, il distillato di pene incruente, compresse, quietamente corrosive che esplodono libere, d’un tratto, imprevedibili.

    Dura, durissima, è la vita di corte accanto a Silvio Berlusconi, mago e circense capace di tramutare la Fininvest in un partito, lo share in voti, l’acqua in vino, i somari in parlamentari, e anche dei docili cortigiani in un manipolo di rivoltosi. Il Cavaliere non è soltanto un po’ sadico – “Angelino? E’ tanto bravo ma gli manca qualcosa… non ha il quid” – Berlusconi è persino imprevedibile, ubriacante, capace di snervanti oscillazioni: “Faremo le primarie”, “non ci saranno mai le primarie”, “voteremo contro la fiducia”, “il governo ha la nostra fiducia”. E proprio quando uno crede di averlo accanto a sé, alleato e benevolo, come in un labirinto di specchi e tragici disinganni lo scopre invece lontano e ostile. Per cinismo ludico, ed equivoco sulla natura della politica, il Cavaliere ritiene che perdere tempo equivalga a guadagnare tempo (e guadagnare è ovviamente un verbo che a lui piace molto), dunque non decide mai, tira a fatica ogni cosa fino alla decomposizione, lascia ciascuno dei suoi fedelissimi, siano questi dei falchi o delle colombe, nel vischio d’una pericolosa incertezza che trascinata oltre ogni umana sopportazione può anche spingere all’ammutinamento, come in questi giorni, all’aperta ribellione da cui sono tentati parecchi degli uomini del Pdl.

    E’ duro vivere degli ondeggiamenti della volontà altrui, e il Cavaliere, bugiardo ma sincero, è impigliato nelle sue troppe contraffazioni della realtà, nelle fate morgane con le quali (lui persuaso) ha blandito, ghermito, e controllato un piccolo esercito oggi scontento, famelico, pronto a disertare. Quello che segue è un sillabario biografico, note a margine d’un fenomeno costante, sin dai tempi di Casini e Fini, l’imperituro scontro tra l’ego del Cavaliere e le ambizioni dei suoi tanti cavalli.

     

    Angelino Alfano, Spartaco. Adesso i suoi compagni ne temono il vezzo mimetico, lo guardano con un misto di speranza tenorile (“Angelino, tira fuori gli attributi!”, gli dice Giovanardi) e sussurrato batticuore (“non è che poi si accontenta d’un altro buffetto del Cavaliere?”, si chiede Roberto Formigoni). E’ il capo riluttante della rivolta. Intimidito e fiero della sua nuova vita, ha offerto lo spaccato di quanta sofferenza deve essergli costata la disciplina, il padrinato: “Nel partito non possono prevalere posizioni estremistiche estranee alla nostra storia. Sarò diversamente berlusconiano”. Quando vivi con Berlusconi devi accettare terribili gesti di patronage, e lui, il Delfino blandito, persuaso, scaricato e riabbracciato, ne ha subiti più di chiunque altro, tanto che il suo rapporto con Berlusconi si riassume tutto in un buffetto padronale, quello di cui parla Formigoni, un pizzico alla faccia che è, sì, affettuoso, carino, ma lascia pure i lividi. Un sabato notte di fine settembre l’avvocato e onorevole Niccolò Ghedini gli aveva comunicato con freddezza burocratica le volontà del Sovrano: “Dunque, Angelino, dovresti dimetterti stasera, ora ti detto anche la dichiarazione che dovrete firmare tu e gli altri ministri”. E lui, il 2 ottobre, in Senato – mentre Berlusconi lo terrorizzava agitando il nome della figlia Marina – ha di conseguenza interpretato l’urlo di Spartaco: “Ah, se gli schiavi si contassero”, scoprendo dunque d’avere i numeri per inchiodare il tiranno, cioè, nello specifico, una lista di ventiquattro senatori esibita sottobraccio da Gaetano Quagliariello nel pomeriggio fatidico della fiducia al governo di Enrico Letta. Troppo a lungo Alfano s’è sentito come un tronco d’albero gettato sulla spiaggia, ripreso dall’onda, rigettato, ripreso, con una monotona, indifferente pendolarità. Ma Alfano, che soffre d’acidità di stomaco, e assomiglia a un personaggio di Dostoevskij più che a uno di Stendhal, vive con tormento la sua scapigliatura, corroso da dubbi introversi: come evitare che il sospetto del tradimento, una volta piantato, non resti? Non ingigantisca? Non si diffonda? Di conseguenza il suo andamento è un trotterello spezzato, un lento beccheggiare, un arresto dubbioso che tocca ad altri (spesso a Maurizio Lupi, suggeritore) raddrizzare e indirizzare.

     

    Maurizio Lupi, suggeritore. Esibisce Alfano, ed è esibito da Alfano, di cui è il confessore e il persuasore occulto, la cinghia di trasmissione con quel mondo cattolico, nordista e ciellino che è già da tempo “diversamente berlusconiano”. Il 16 dicembre 2012, Lupi fu tra gli organizzatori di Italia popolare, al teatro Olimpico di Roma, assieme ai compagni di Cielle Roberto Formigoni e Mario Mauro (poi andato in Scelta civica). Sognavano l’unione dei moderati attorno a Mario Monti, il Ppe italiano, senza Berlusconi, azzoppato dai processi, indebolito da una vita esagerata, come nella canzone di Vasco Rossi. E tale speranza, cattolica, democristiana, neocentrista, ricamata intorno alle ambizioni floreali di Luca Cordero di Montezemolo e a quelle parrocchiali d’Andrea Riccardi, fa ancora balenare nell’eccitata fantasia di Lupi l’immagine dei suoi desideri: è stato lui ad aver convinto Alfano a non presentarsi all’ufficio di presidenza del Pdl la settimana scorsa. Mossa che è valsa qualche titolo di giornale su questo tono: “Il quid oltre l’ostacolo”.

     

    Beatrice Lorenzin, freelance. Con un sorriso ribaldo, Berlusconi ha recentemente confessato a un amico, ma chissà se è vero (Berlusconi è un uomo le cui doti e i cui vizi si sono cristallizzati in un’armatura di scaltra potenza), che “tranne Alfano, i ministri non li ho scelti io”. E allora da chi sarebbero stati scelti tutti gli altri? Chissà. Ma è nei dedali del berlusconismo laziale, tra Gianfranco Sammarco, Antonio Tajani, Fabrizio Cicchitto e Andrea Augello che è emerso il volto sorridente e pulito di Beatrice Lorenzin, ministro della Salute, una “freelance” del Pdl romano che ha maturato nel tempo, e con queste frequentazioni legate alla fronda, un suo giovanile e orgoglioso autonomismo dal padrinato egotico del Cavaliere. Dopo le dimissioni imposte da Berlusconi (ma respinte da Letta) è stata la prima, assieme a Quagliariello, a dichiarare che non avrebbe mai aderito alla nuova-vecchia Forza Italia. L’ingiunzione protocollare delle dimissioni è stata per lei un’umiliazione gratuita, definitiva, indelebile.

     

    Renato Schifani, ventriloquo. Ex presidente del Senato e già una volta capogruppo di Forza Italia, ventriloquo del Cavaliere con professionalità da avvocato palermitano, personalmente non ama Alfano ma come tutti gli altri insegue il miraggio della ricandidatura. Una fiche su Alfano, dunque, ma anche una fiche (tardiva?) sul Cavaliere, di cui adesso è il più agguerrito difensore in Senato dalla tenaglia della decadenza. Schifani è a tratti animato da un senso cupo di rovina, e dunque avanza, presta ad Alfano i suoi uomini, Vicari, Azzolini ed Esposito (tutti da garantire e rieleggere), ma poi arretra improvvisamente, si fa cauto, propaganda di sé l’immagine del mediatore. “In politica si dicono mediatori quelli che non hanno ancora capito chi vince”, sibila Gianfranco Rotondi. E dunque Schifani si ferma, si accorge d’essersi spinto troppo in là, teme, si spaventa, e nell’ipnotica partita a ping pong tra Berlusconi e Alfano, in questo gioco di furbizie e omissioni, lui, a volte deve avere l’impressione di essere la stranita pallina. Come ci sarà salito, su questi rami altissimi, insensati e pericolanti?

     

    Roberto Formigoni, tuffatore. Con una mano costruiva lo scintillante palazzo della regione Lombardia, la più solida e duratura trama di potere nella regione più ricca d’Italia, con l’altra cercava sempre un approdo romano, fino a quella disastrosa serie di fotografie che lo ritraggono mentre si tuffa dallo yacht di Pierangelo Daccò. Adesso è presidente della commissione Agricoltura del Senato, poteva essere tutto. Da governatore onnipotente ha sempre accettato il padrinato di Berlusconi con superba condiscendenza, e Berlusconi, nelle sue innumerevoli prestidigitazioni da sincero bugiardo lo ha sempre lusingato e illuso, “sarai ministro”, “sarai il capogruppo”, “sei il mio successore”, “sei il migliore”. Per anni è passato, continuamente, dall’umiliazione a un aspro orgoglio impotente. Adesso Formigoni, comprensibilmente, è il più esposto sostenitore della scissione, animato da un risentimento antico, sedimentato sul molle e tenace acquitrino d’innumerevoli delusioni.

     

    Gaetano Quagliariello, sciatore. Ci sono degli uomini la cui missione fra gli altri è anzitutto quella di servire da intermediari: sono come dei ponti sui quali si passa e si va oltre. E’ così, non senza un difetto di misura, che Berlusconi è finito col considerare il suo ex vicecapogruppo in Senato, il ministro delle Riforme: “ponte” tra Arcore e il Quirinale, tra il Cavaliere e Giorgio Napolitano. Fu “saggio” del capo dello stato, voluto lì da Berlusconi in una fase in cui tutti s’erano un po’ convinti che dal Quirinale potesse discendere la soluzione ai guai politici e giudiziari del Sovrano. Ma non era così. E intanto Quagliariello, ponte e ambasciatore, s’andava però accreditando, e cresceva in statura, ambizioni, indipendenza. Da vicecapogruppo, e uomo di corte, sin dal principio aveva scelto di vivere sotto tutela, era stato accontentato: il padrinato non c’è dubbio che sia stato per lui fonte di umiliazioni e di fastidi, e che in certi momenti l’abbia schiettissimamente detestato; ma era indispensabile, soddisfaceva un suo bisogno psicologico e gli regalava, come si dice, un posto al sole. Ma la vicinanza con la presidenza della Repubblica lo ha cambiato, mutato, dentro e fuori, anche agli occhi del Cavaliere. Se per Arcore “Napolitano è il mio nemico”, a Quagliariello aderisce oggi il nomignolo ingrato di “traditore”: attorno a lui germoglia una letteratura più o meno fantasiosa su telefonate in seggiovia con Monti, trattative e mormorii, cospirazioni e fumisterie neodemocristiane.

     

    Fabrizio Cicchitto, tenore. Una luce di tragedia è sempre un gran finale per un politico emerito, che ne ha viste tante, che forse rompe con Berlusconi ma non con il berlusconismo e rivendica il diritto – come un grande vecchio tenore – di un ultimo gorgheggio capitale. Socialista lombardiano, non craxiano come Berlusconi, ha raggiunto e oltrepassato il suo sol dell’avvenire.

     

    Nunzia De Girolamo, stabile. Cuore e professionalità, grancoalizionista per vocazione e vicende personali (è sposata con Francesco Boccia, economista, deputato del Pd, amico di Enrico Letta). “Credo che la stabilità sia un valore, il progetto di Napolitano va difeso, funziona”, dice. Crederle è doveroso.

     

    Maurizio Sacconi, sussidiario. Socialista assalito dalla fede, legato a Quagliariello e a un certo mondo curiale, crede nella sussidiarietà al punto tale che, infatti, sussidia Letta come può. Sacconi ha sempre trattato, mediato, anche da ministro del Lavoro: è quello il suo posto, e non vuole rinunciarci. Fu maestro di tennis a Conegliano.

     

    Carlo Giovanardi, Dc ala dura. Democristiano fatto e finito, forse l’unico che ci crede davvero alla rifondazione della Dc. Tanto da aver rotto con Casini, quando capì che non s’andava da nessuna parte con quel giovane-vecchio rentier. Oggi rompe con il Cavaliere, per lo stesso motivo.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.