Emma chi?
Licenziati in tronco. La fabbrica chiude il 31 dicembre e 134 lavoratori non mangeranno il panettone. Frutto di una scelta industriale sbagliata. Succede. E’ il capitalismo, bellezza. E’ il darwinismo sociale. E’ Emma Marcegaglia. No, proprio lei? Anche lei? Che predicava così bene dal pulpito, s’è dovuta arrendere alla realtà? E Susanna? Che ne dice Susanna? Emma e Susanna. La Marcegaglia e la Camusso, le due donne che avevano in mano le leve della moderna dialettica tra capitale e lavoro. Duellavano certo, ma da signore per bene.
“In ogni gerarchia, ciascuno tende a salire di grado fino al proprio livello di incompetenza” (Laurence Peter, “Il principio di Peter”)
Licenziati in tronco. La fabbrica chiude il 31 dicembre e 134 lavoratori non mangeranno il panettone. Frutto di una scelta industriale sbagliata. Succede. E’ il capitalismo, bellezza. E’ il darwinismo sociale. E’ Emma Marcegaglia. No, proprio lei? Anche lei? Che predicava così bene dal pulpito, s’è dovuta arrendere alla realtà? E Susanna? Che ne dice Susanna? Emma e Susanna. La Marcegaglia e la Camusso, le due donne che avevano in mano le leve della moderna dialettica tra capitale e lavoro. Duellavano certo, ma da signore per bene. Discutevano in televisione, ma come se fossero davanti a una tazza di tè. Donne forti, sia chiaro. Emma veniva chiamata la “lady di ferro” dalla stampa e non solo perché il padre fondeva il duro metallo. E Susanna aveva resistito anche alla epurazione gauchiste dalla Fiom e prometteva aria nuova in Cgil. Entrambe si incontravano all’insegna del cambiamento, delle riforme. Adesso, eccole qua. La cicuta distillata dalla crisi riporta tutti agli antichi dolori. Capitale e lavoro l’un contro l’altro armati. Mentre i fili del destino sono in mano a ben altro capitale, lontano, anonimo, liquido come moneta contante. Che le cose andassero male a Gazoldo degli Ippoliti, vicino a Mantova, era evidente. Ma così male questo no, non era venuto in superficie. C’è voluto l’annuncio che chiude la Marcegaglia Buildtech, fabbrica tarantina di pannelli fotovoltaici, per capire fino a che livello fosse salita la panna montata.
Nel settembre 2011 Emma Marcegaglia è presidente della Confindustria già da tre anni. Suo fratello Antonio sbarca a Taranto e incontra tutti gli amministratori locali tra i quali il presidente della regione, Nichi Vendola, il miglior governatore d’Italia, secondo il giudizio non proprio nuancé pronunciato da Emma in un giorno di particolare entusiasmo. “Dobbiamo fare della città ionica – proclama Antonio – la capitale del fotovoltaico italiano”. Lamine sottili di silicio amorfo, vengono incollate su un pannello per ottenere un manufatto perfettamente integrato nella copertura dei tetti delle nuove costruzioni e volto alla produzione di energia elettrica solare. Altro che ferro arrugginito e polveroso carbone. Tecnologia pulita, americana. Una superficie inferiore a 20 metri quadrati, viene spiegato, è in grado di produrre più di un chilowattora di energia elettrica per 25 anni. Ma la bolla si sgonfia.
L’Italia, con la Germania e la Spagna, è il paese che ha speso di più per le energie rinnovabili, grazie al contributo forzoso dei contribuenti. E non può andare avanti così. Gli incentivi pubblici sono stati il frutto dell’alleanza inattesa tra ecologisti e confindustriali ben prima che Emma arrivasse ai vertici del patronat. Meno armonioso il rapporto sulla gestione dei rifiuti, un altro ramo d’affari nel quale la Marcegaglia si diversifica con un ruolo di punta ancora una volta in Puglia. Qui la presidente della Confindustria fa campagna per la privatizzazione insieme agli imprenditori delle discariche tra i quali Monica Cerroni figlia di Manlio, titolare della romana Malagrotta. E trova l’opposizione dei verdi di ogni sfumatura.
Fotovoltaico, ambiente, turismo (curato personalmente da Emma tanto che la società operativa si chiama Gaia, il nome della figlioletta di dieci anni) vengono presentati come il futuro dell’impresa creata raccogliendo i rottami della Seconda guerra mondiale. Invece si rivelano un flop. Tanto che Antonio, nel luglio scorso, presentando il bilancio 2012, annuncia un cambio di marcia: si torna alla siderurgia nuda e cruda, vendendo il vendibile, a cominciare dal fiore all’occhiello di Emma: il Forte Village in Sardegna, resort di lusso, per il quale i russi di Gazprom hanno pagato 150 milioni in contanti. Nessuno, invece, vuole l’albergone a cinque stelle (109 camere più porto turistico per 600 barche, con un costo di 742 mila euro a stanza) costruito nell’isola della Maddalena per il G8 del 2009. Un’altra privatizzazione all’italiana. L’area del vecchio porto e dell’arsenale è stata affidata per 40 anni in gestione alla Mita Resort di Emma, unica società presentatasi all’asta, e ora sta andando in malora.
Tutto è davvero sossopra in casa Marcegaglia. Il bilancio consolidato della holding Marfin alla quale fanno capo le società del gruppo (7.000 dipendenti con un fatturato di 4 miliardi) si è chiuso con un rosso che dai 10,6 milioni del 2011 è salito a 41,1 milioni. Hanno pesato oltre 24 milioni di svalutazioni su partecipazioni e titoli non immobilizzati, ma anche 4,1 milioni di maggiori imposte accertate dall’Agenzia delle entrate e l’accantonamento di 1 milione per una nuova verifica dell’erario che si è conclusa nei primi mesi di quest’anno. Anche i Marcegaglia, dunque, soffrono la sindrome dell’ex che contagia chi è stato al vertice della Confindustria. Come i Lucchini, i Merloni, i Pininfarina, i Marzotto. Ascesa e declino delle famiglie che hanno fatto rinascere il capitalismo italiano.
Il paesino del mantovano non ha ancora elaborato il lutto che ha colpito il 10 settembre scorso la famiglia più eminente per la morte di Steno il fondatore del piccolo impero di metallo, partito come sindacalista agricolo nel Dopoguerra e arrivato, alla soglia degli 80 anni, a piazzare sua figlia Emma sulla poltrona più alta e grande della Confindustria, la padrona dei padroni avrebbe detto quando difendeva i contadini rossi. Lui che teneva il consiglio d’amministrazione al mattino in cucina durante la colazione con la moglie e i due rampolli. Figlio di un emigrante, comincia a lavorare nell’Alleanza contadini, l’organizzazione creata dal Partito comunista. Poi, non ancora trentenne, proprio a Gazoldo degli Ippoliti inizia la sua attività imprenditoriale sviluppando la produzione del “tondino” da forno elettrico. Poi passa ai profilati in acciaio, il materiale che segnerà la storia del gruppo. Nell’ottobre 1982 viene rapito. Dopo 51 giorni di prigionia fra Napoli e l’Aspromonte riesce a fuggire, ma viene ripreso dai rapitori e successivamente liberato fortunosamente dall’arrivo di un elicottero dei carabinieri in perlustrazione.
Fino al 1991 Steno abita ancora nella casetta che s’era costruito con i risparmi iniziali. “Avevamo un bagno solo – ha raccontato alimentando il mito – Per non perdere tempo, la mattina eravamo costretti a usarlo in accoppiata: io con Antonio, mia moglie con Emma”. Poi va a vivere nel Palazzo Pretorio degli Ippoliti, i signori di Gazoldo, un edificio del 1500 con 76 stanze, tra cui 20 bagni. Quello padronale è dotato di monitor per tenere l’occhio sui listini di Borsa. Da quando s’è sposata nel 2001 con Roberto Vancini, ingegnere informatico, Emma si è trasferita in una villa con sala di proiezione interna.
Gli anni 90 segnano dunque il vero boom dei Marcegaglia. E con la crisi, anche per loro cominciano i guai. Siccome non vengono mai da soli, ecco che si moltiplicano anche i guai giudiziari. Il procuratore di Mantova Antonino Condorelli si è occupato di diciassette conti dei Marcegaglia, domiciliati in Svizzera presso la banca Ubs, utilizzati, secondo l’accusa, per depositare milioni di euro in fondi neri dal 1994 al 2004. Per dieci anni la Marcegaglia Spa non avrebbe comprato la materia prima direttamente dai venditori, ma da una serie di società di trading che gonfiavano le fatture per permettere alla famiglia di far uscire dall’Italia fondi neri. Il tesoretto elvetico era venuto alla luce già indagando sulle tangenti Enipower che hanno coinvolto una serie di altre società tra le quali la multinazionale francese Alstom. Antonio Marcegaglia ha ammesso di aver versato, una tangente da 1 milione 158 mila euro per una fornitura di caldaie da 127 milioni di euro. Il caso si è chiuso nel marzo del 2008 con il patteggiamento.
In quello stesso anno, proprio mentre le cose cominciano a peggiorare, si apre per Emma il portone della Confindustria. Non che fosse una new entry. Al contrario, forse come pochi altri si è dedicata fin da giovanissima all’associazionismo, diventando una vera “professionista”, tanto per usare la celebre definizione (non proprio elogiativa) attribuita a Gianni Agnelli. Su di lei sono state scritte vere elegie. La “piccola Thatcher” (piccola solo di statura, sia chiaro), con “le seste gambe più belle d’Italia” secondo Cesare Lanza (la sua classifica vede in testa Simona Ventura seguita da Alessia Marcuzzi, Paola Barale, Martina Colombari e Marta Flavi, davvero un parterre des reines). “Bellissima ragazza, cui sono toccati in sorte i bei colori del profondo sud, capelli corvini mossi, pelle olivastra abbronzata, occhi neri tagliati all’insù, gonna corta, gambe scattanti, fisico asciutto”, così la descrive Barbara Palombelli. Da bambina sognava di fare la ballerina classica. Il papà la manda alla Bocconi e, dopo la laurea, a New York per un master in business administration. Rimane solo otto mesi: la Grande mela la inebria, però lo studio l’annoia e infatti molla tutto per tornare a casa. Ad Antonio il padre ha affidato l’azienda. La cadetta morde il freno, cerca strade parallele, come il turismo (con l’aiuto di Massimo Caputi, l’uomo della stazione Termini, di Sviluppo Italia, dei fondi immobiliari) o la Confindustria.
Nel 1996 diventa presidente dei giovani, dal 2000 vicepresidente accanto ad Antonio D’Amato con il quale si crea una familiarità. “Ciclone Emma” aveva raggiunto il massimo della popolarità grazie alle sue opinioni nette su tutto e ai comportamenti anticonformisti: ancora si favoleggia di quella volta che a Capri, dove si soleva svolgere l’annuale convegno, si mise a ballare su un tavolo. Difficile starle dietro, anche in politica. Massimo D’Alema allora a Palazzo Chigi l’apprezza. Ma ha estimatori anche a destra. Lei, del resto, si definisce centrista proprio perché passa da destra a sinistra. E lo si vedrà quando la giovane entra nel salotto dei grandi.
Il sodalizio con D’Amato dura due anni. Poi la clamorosa rottura. Il presidente della Confindustria vuole la fine dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello secondo il quale non si può licenziare nessuno senza giusta causa. Al governo c’è Silvio Berlusconi e D’Amato conta sul suo sostegno. La Cgil è guidata da Sergio Cofferati che mobilita tutta la sua macchina da guerra. Milioni in piazza e al Circo Massimo. L’esecutivo fa marcia indietro. Resta solo Maurizio Sacconi, sottosegretario al Lavoro, a tenere alta la bandiera. Passano due anni e tocca a Luca di Montezemolo riportare Emma a Roma, in Viale dell’Astronomia, come vicepresidente. Comincia un’altra storia che rimanda alle radici del mito, a Pigmalione e Galatea. Montezemolo la sostiene, l’accompagna all’altare della vittoria con il retropensiero di continuare così l’esercizio della propria influenza. Un pensiero, in realtà, ben fisso nella testa di Emma con ben altre implicazioni. Tanto che, prese le misure, comincia a prendere le distanze.
La “presidente di ferro” trascorre il primo anno nel tentativo di liberarsi dall’ombra del proprio mentore. E rompe con la Cgil, firmando la riforma dei contratti senza attendere il sindacato legato alla sinistra. Nel momento in cui sostituisce i montezemoliani per prendere possesso della struttura, comincia a zigzagare. Accarezza i piccoli, scottati dalla rottamazione che favorisce l’auto. Poi si allinea sulle posizioni del Lingotto. Chiede meno imposte. E riceve solo dei no da Giulio Tremonti. Delusa, alza la voce nella critica al governo.
Nel secondo biennio della sua presidenza, il pendolo di Emma s’inverte più volte. Prima a favore di Berlusconi il quale, intervenendo all’assemblea annuale, esalta il programma della Marcegaglia, poi a favore della Cgil soprattutto dopo l’elezione della Camusso a segretario generale, con la quale spera di ripercorrere i fasti degli accordi neocorporativi anche al di fuori (o sopra la testa) del governo e del Parlamento. Finché non scoppia la bomba Marchionne. Che l’amministratore delegato della Fiat non amasse la Confindustria e i suoi giochi era evidente. Ma c’era Montezemolo a coprire il fronte. Uscito lui di scena, Emma invita John Elkann nel direttivo e al gesto viene dato il significato di una ricomposizione epocale. Invece, il 3 ottobre 2011 si vede recapitare una lettera firmata da Marchionne: “Cara Emma, Fiat ha deciso di uscire dalla Confindustria”. Il casus belli è l’accordo firmato con i sindacati il 21 settembre che “snatura” l’intesa del 28 giugno precedente e sconfessa soprattutto l’articolo 8 approvato dal Parlamento che estende la flessibilità anche ad accordi precedenti. In sostanza, la Fiat intende sfuggire alla gabbia “interconfederale”, intende regolare per proprio conto i rapporti con i dipendenti, vuole uno schema di relazioni industriali flessibile senza sottostare alla burocrazia confindustriale.
Per Emma, ormai agli sgoccioli del mandato, è il colpo finale. Non si riprenderà più, nonostante il sostegno che riceve da eminenti associati. La guerra di successione che si scatena immediatamente, vede a confronto un partito Fiat espresso da Alberto Bombassei e un partito anti Fiat che si raccoglie attorno a Giorgio Squinzi, industriale chimico da sempre assertore di un buon rapporto con i sindacati. Sarà lui a vincere, ma la verità è che quel 3 ottobre segna un discrimine e il declino, già avanzato, della Confindustria va a braccetto con la crisi inarrestabile del modello concertativo che Emma Marcegaglia ha cercato di salvare. Forse credeva nelle sue virtù (dopo averle a lungo contestate), certo sapeva che, fuori da quel modello, la Confindustria non avrebbe avuto più ragion d’essere. Tanto meno con la crisi.
Certo, i tempi sono cambiati da quando Vittorio Valletta scendeva a Roma al mattino e, compiuto il giro delle sette chiese, tornava la sera a Torino dormendo in vagone letto. Oggi il potere è diffuso e confuso.
Bisogna accompagnarlo in tutta la sua microfisica con un apparato capillare, presente in ogni regione e provincia. Tra rappresentanze locali, federazioni di settore, organizzazioni di categoria e altre associate, esistono 503 terminali della Confindustria la quale possiede quotidiani (il Sole 24 Ore, L’Arena di Verona, il Giornale di Bergamo e il Giornale di Vicenza) e altri ne influenza, case editrici (tra le quali Neri Pozza), una università, la Luiss. Questa galassia è snodo di rapporti a ogni livello e offre la chiave per la stanza dei bottoni soprattutto per industriali piccoli che vengono dalla provincia e nulla sanno dei grandi giochi. Senza di lei sarebbero stati distribuiti alle imprese 57 miliardi di euro dal 2000 al 2007? Probabilmente no. Ma dopo il 2008 nemmeno questo è più possibile. La crisi è stata davvero come la scopa manzoniana.
Dipingere la Marcegaglia come l’ultima esponente di un sistema, finisce per ingrandirne la figura. C’è qualcosa di eroico nel perseverare fino alla sconfitta. In realtà, ha sempre perseguito una strategia personale, usando di volta in volta i contenuti e le posizioni politiche come scalini per l’ascesa. Adesso finisce nel cono d’ombra insieme alla sua rete di affari, mentre la morte di Steno ha l’aria di una finis imperii. “Ricominciamo nel suo nome”, ha detto Emma nei giorni scorsi a Mantova. E’ sempre difficile capire quanto lei debba all’azienda di famiglia e quanto la crescita del gruppo debba alla sua proiezione pubblica. E’ lei che ha trasformato il nome in un brand direbbero i McKinsey boys. E’ la sua scalata in Confindustria ad averla fatta uscire dalla provincia padana. Finché, giunta al vertice, è scattato, come per tutti, il principio di Peter.
Il Foglio sportivo - in corpore sano