Le metamorfosi opposte di Toni e Petkovic
Se ci pensa Francesco Totti, perché non dovrebbe proporsi Luca Toni: "La Nazionale? Mi convocherei e mi schiererei sempre" le parole buttate lì domenica, dopo aver aperto la partita contro il Cagliari con una capocciata come ai tempi belli e dopo essere stato coccolato dai cori dei tifosi del Verona, increduli di ritrovarsi al quarto posto dietro le grandi e a fianco dell'Inter. E come sia difficile confermarsi lo sta sperimentando a sue spese Vladimir Petkovic. Da allenatore-rivelazione a tecnico traballante in pochi mesi, con una metamorfosi impensabile, sua e della Lazio.
Se ci pensa Francesco Totti, perché non dovrebbe proporsi Luca Toni? "La Nazionale? Mi convocherei e mi schiererei sempre", le parole buttate lì domenica, dopo aver aperto la partita contro il Cagliari con una capocciata come ai tempi belli e dopo essere stato coccolato dai cori dei tifosi del Verona, increduli di ritrovarsi al quarto posto dietro le grandi e a fianco dell'Inter. Difficile dar torto al centravanti, in un calcio italiano che allontana sempre più l'età limite dei pensionabili obbligando i suoi giovani a scoprire come sia bello e formativo tagliare il cordone ombelicale con mammà per mettersi in gioco all'estero. Come il romanista, l'attaccante è uno degli ultimi reduci del Mondiale vinto nel 2006. E come il capitano giallorosso – oggi bloccato da un infortunio – sta vivendo una nuova età dell'oro, dopo essersi sottratto volontariamente a un morbido tramonto a Dubai, oggi divenuto la Florida di chi calcia un pallone. Pensava fosse giusto andar là, nel 2012, al misconosciuto Al Nasr, dopo aver riportato il Palermo in serie A, dopo aver consegnato la Fiorentina alle grandi, dopo aver vinto in Bundesliga con il Bayern facendo rimangiare ai tedeschi molti luoghi comuni sugli italiani. Questo prima di incrociare Louis Van Gaal, che lo aveva spedito nella seconda squadra convincendolo, al tempo stesso, a tornare in Italia. Quel che ne era seguito, al rientro dalla Germania, era stato però un peregrinare senza arte né parte, attirandosi l'appellativo di "scaldabagno" per una presenza ingombrante e inutile. Era così apparso logico concedersi un ultimo contratto in Asia (quella ricca, ovviamente), dove il calcio è ancora un'ipotesi e dove basta saper toccare decentemente un pallone per passare da fenomeni. Ma a Toni era bastato poco per capire che si trattasse soltanto di una parodia di ciò per cui per anni aveva incassato e distribuito botte, forte di un fisico da centravanti vecchio stile, capace di intuire prima degli altri dove un pallone sarebbe andato a finire. Il ritorno con l'Italia è stato utile per rinverdire gli antichi amori con la Fiorentina, con otto gol inutili per la conferma. In estate soltanto il Verona ha creduto in lui, accordo di un anno per vedere l'effetto che faceva. Perché Toni aveva 36 anni e perché i veneti erano appena tornati in serie A, e non volevano prendere impegni sulla media distanza. E l'effetto è stato dirompente, fin da subito. Al debutto una doppietta che avrebbe dovuto far capire molte cose al Milan, a seguire altre tre reti, assist e prove da sfinimento fisico. Andrea Mandorlini non lo toglie mai dal campo, lui ripaga non mollando su ogni pallone. Perché soltanto così si sale oppure si ritorna in alto, per restarci e per insegnare ai ragazzetti ambiziosi come si fa. O meglio: per tenerli al loro posto.
E come sia difficile confermarsi lo sta sperimentando a sue spese Vladimir Petkovic. Da allenatore-rivelazione a tecnico traballante in pochi mesi, con una metamorfosi impensabile, sua e della Lazio. Era stato accolto con grande indifferenza, come solo la superbia pallonara italiana sa fare nei confronti di chi aveva guidato squadre come Bellinzona e Lugano, che sono di seconda fila - a essere generosi - persino in Svizzera. Eppure il bosniaco con sangue croato e passaporto rossocrociato, aveva fatto in fretta a conquistare il favore del nuovo pubblico. Anche perché a Roma, si sa, basta fare una sola cosa per essere eletti a eroi: vincere un derby. E Petkovic lo aveva vinto subito, al debutto, pareggiando quello successivo e – soprattutto – vincendo quello andato a coincidere con la finale di Coppa Italia. Sembrava la partenza di un'ascesa luminosa, si è rivelato l'inizio della fine. Perché Claudio Lotito ha finito per perdersi tra eccessi di latino e topiche di mercato, indebolendo una squadra ritrovatasi orfana di leader (Stefano Mauri bloccato dal Calcioscommesse) e di attaccanti (Miro Klose che, a essere maligni, si comporta come ogni straniero nella stagione pre-mondiale). Troppo anche per uno sgobbone come Petkovic, che oggi soffre il confronto con un altro arrivato a Roma come signor nessuno e che invece ha conquistato i tifosi proprio vincendo – guardacaso – un derby. Tira molto più l'accento francese di Rudi Garcia che non la parlata slava di Petkovic. E sedici punti di differenza disegnano la distanza tra due mondi oggi lontanissimi, dopo essersi scambiati di ruolo.
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