Obama ignora il vestito blu di Morsi

Paola Peduzzi

L’abbiamo intravisto, Mohammed Morsi, soltanto nel filmato ufficiale della tv di stato egiziana, erano vietate riprese e smartphone al primo giorno del processo in cui l’ex presidente islamista dell’Egitto è l’imputato principale. E’ accusato di aver incitato i suoi ad atti di violenza e omicidio durante le proteste di quasi un anno fa, quelle del 4 dicembre del 2012 di fronte al Palazzo presidenziale (otto vittime, di cui almeno quattro della Fratellanza, un po’ azzardata come accusa): rischia la pena di morte, se va bene l’ergastolo.

    L’abbiamo intravisto, Mohammed Morsi, soltanto nel filmato ufficiale della tv di stato egiziana, erano vietate riprese e smartphone al primo giorno del processo in cui l’ex presidente islamista dell’Egitto è l’imputato principale. E’ accusato di aver incitato i suoi ad atti di violenza e omicidio durante le proteste di quasi un anno fa, quelle del 4 dicembre del 2012 di fronte al Palazzo presidenziale (otto vittime, di cui almeno quattro della Fratellanza, un po’ azzardata come accusa): rischia la pena di morte, se va bene l’ergastolo. E’ stato visto da lontano, Morsi, mentre arrivava al Cairo da provenienza ignota, con addosso un abito blu: una volta dentro all’Accademia della polizia, dove si svolge il processo, non ha voluto infilarsi il vestito bianco dei detenuti. Per due ore hanno insistito, per due ore Morsi s’è rifiutato, e quando è entrato nella gabbia davanti al giudice, nel suo vestito blu, gli altri imputati accanto a lui – buona parte della leadership della Fratellanza musulmana egiziana – hanno iniziato a ritmare “illegale, illegale, illegale”, come una cantilena, che è la sintesi della linea difensiva di Morsi. L’ex presidente, deposto il 3 luglio scorso, ha dichiarato a voce molto alta, secondo quanto riportato da persone presenti: “Sono il dottor Mohammed Morsi, il presidente della Repubblica. Sono il presidente legittimo dell’Egitto. Mi rifiuto di essere giudicato da questa Corte”. La Corte è illegale e quello del 3 luglio “era un colpo di stato militare, i capi di quel putsch dovrebbero essere giudicati”, ha detto Morsi, in una confusione tale che il giudice ha deciso di raggiornare il processo all’8 gennaio.

    L’Egitto non è pronto per questo processo, non è detto che lo sarà tra un paio di mesi. In vista delle manifestazioni a sostegno di Morsi previste per ieri i militari, guidati dal furbissimo generale Abdel Fattah al Sisi, hanno dispiegato ventimila uomini soltanto “a contenimento” della minaccia islamista. Da quando Morsi è stato deposto, sono stati uccisi quasi mille suoi sostenitori, mentre duemila rappresentanti della Fratellanza sono stati arrestati, e il movimento è tornato allo status di illegalità che vigeva ai tempi di Mubarak. Le forze di sicurezza sono diventate il bersaglio principale degli islamisti in Sinai, nella valle del Nilo, nei villaggi sul canale di Suez: sono morti almeno in cento, gli assalti continuano, brutali. Era dall’inizio degli anni Novanta che non si assisteva a tanta violenza in Egitto: se l’occidente s’è rifiutato di chiamare golpe quello che è stato in effetti un golpe, Morsi ha tradito la promessa di pragmatismo e riformismo: non ha tentato di smantellare il sistema dittatoriale, ha semplicemente infilato i suoi uomini – con annesso fondamentalismo – nei posti occupati dalla leadership militare.

    L’Egitto non è pronto per il processo e non sa ricomporre questa storica frattura, ma il resto del mondo vuole mettere Morsi – e la sua elezione legittima e l’esperienza della Fratellanza al potere – dentro a una parentesi, vuole chiuderla dietro di sé, senza voltarsi indietro. L’ha già fatto, in realtà. Il segretario americano John Kerry è arrivato al Cairo per qualche ora domenica alla vigilia del processo, e ha ignorato la questione Morsi. In uno stanzone, con l’aria spaesata, s’è limitato a dire che ci sono alcuni temi che ancora vanno chiariti, s’è rivolto al popolo egiziano per evitare di incappare in un endorsement dei generali un po’ troppo spinto, ha chiesto che la road map sia rispettata e si arrivi alle elezioni e alla guida civile del paese, e ha ridimensionato la sospensione degli aiuti americani al Cairo: alcune commesse militari sono state sì ritardate ma è una questione più legale che politica, l’alleanza è solida, così come è solida la transizione, o meglio la “tremendous transformation that Egypt is undergoing”. Il golpe di luglio può essere dimenticato, in nome di un ritorno al passato che elimina dal conto non soltanto i morti, ma anche le promesse di cambiamento sostenute da Obama, il quale ha a lungo dato il suo appoggio a Morsi, pure quando già mostrava un deciso carattere dittatoriale, salvo poi scaricarlo per recuperare la storica consuetudine con i militari. Washington porta come argomentazione decisiva la stabilità, che in medio oriente è anche e soprattutto sopravvivenza per Israele, ma come tutto quel che riguarda questa Amministrazione è stata in particolare l’inerzia a portarla sin qui. O forse un sostanziale disinteresse nei confronti di questa regione, che fa il paio con la rinuncia alla difesa dei diritti umani e della democrazia: non siamo noi a dirlo, ma i documenti della politica estera obamiana.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi