L'Europa latina non balla
A memoria, l’ultimo che provò a tenere insieme qualcosa di francese, di italiano e di spagnolo fu Enrico Berlinguer: lo fece in riferimento ai rispettivi partiti comunisti, per rinverdire speranze nel continente, la cosa chiamata eurocomunismo finì in poco tempo e nel nulla. Ora c’è l’Europa latina: non è una compilation di Julio Iglesias, Francis Cabrel e Toto Cutugno ma una proposta fatta qualche giorno fa da Romano Prodi in un editoriale sul Messaggero. E’ quindi cosa seria.
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A memoria, l’ultimo che provò a tenere insieme qualcosa di francese, di italiano e di spagnolo fu Enrico Berlinguer: lo fece in riferimento ai rispettivi partiti comunisti, per rinverdire speranze nel continente, la cosa chiamata eurocomunismo finì in poco tempo e nel nulla. Ora c’è l’Europa latina: non è una compilation di Julio Iglesias, Francis Cabrel e Toto Cutugno ma una proposta fatta qualche giorno fa da Romano Prodi in un editoriale sul Messaggero. E’ quindi cosa seria. Scrive l’ex presidente del Consiglio ed ex presidente della Commissione che l’Italia dovrebbe fare fronte comune con Francia e Spagna per contrastare, qui e ora, lo strapotere economico della Germania, sconfiggere la linea dell’austerità a oltranza. Si tratta di imporre che più o meno l’equivalente di quanto versato da ogni singolo stato al fondo di solidarietà possa essere speso nazionalmente per investimenti produttivi e infrastrutture, ovviamente al di fuori del vincolo di stabilità. Solo così si potrebbero gettare le basi per un periodo di crescita significativa, almeno del 2 per cento, perché un ritmo anche positivo ma inferiore non solo non creerebbe nuovi posti di lavoro ma farebbe addirittura fatica a salvare quelli che già ci sono. Come in una sorta di riedizione della cooperazione rafforzata, dunque, le “tre sorelle” dovrebbero forzare la mano e strappare il permesso di spendere di più senza incappare in sanzioni. Ma in questa famiglia in crisi permanente, riottosa e rissosa, di ventisette membri, si può pensare davvero che ci si comporti da sorella e non da sorellastra avida, ripiegata sul proprio interesse e abituata a guardare le altre o con invidia o con disprezzo?
Per ora di certo c’è l’acronimo: Fis, Francia, Italia, Spagna. Non è Brics che abbiamo imparato a conoscere e che, comunque lo si scomponga, dal Brasile alla Russia alla Cina all’India al Sudafrica, evoca popoli lontani e di robusta costituzione che non si piangono addosso, vasti spazi con tante ricchezze nascoste sotto terra ed è portatore di ragionevoli speranze. Fis non scoppietta, semmai ha assonanza con qualche parola napoletana ben nota e per niente esaltante. Evoca popoli stanchi e vicoli angusti, inique rendite fondiarie e l’imperio del mattone. Porta con sé l’olezzo stantio di vecchi imperi coloniali. Di stati nazionali. Di cui non importa nemmeno l’efficienza: nel Fis lo stato è tutto, esiste e resiste, non c’è progetto di decentralizzazione che sia stato degnamente concepito e realizzato.
Se la Germania è la bestia nera dell’economia dell’Unione, la Francia, tanto per dire, lo è nettamente della politica. Fra i soci fondatori è quello che più si è opposto a qualsiasi delega di sovranità, che non vuole nemmeno sentir parlare di Europa federale. Non riesce a vedersi in uno specchio se non per rimirarsi, non si accorge che grandi leader come quelli del passato non ci sono più, è convinta che sia la grandezza dell’istituzione a fare grande un paese, ma un mediocre è un mediocre anche se sta all’Eliseo e tiene il dito sul bottone nucleare: e una successione di due mediocri, forse addirittura tre, fanno più di un indizio. Eppure il mito dell’eccezionalità di destino nel mondo e nell’Europa delle patrie aleggia ancora. Per cinque anni Sarkozy si è fatto bellamente prendere in giro, credeva di essere capo meccanico ai box del motore franco-tedesco, si scoprì che stava lì a gonfiare le gomme. Hollande se possibile ha fatto di peggio: ha parlato tanto come nelsuo carattere, ci ha messo anche passione e convinzione intellettuale, ma nei fatti si è accucciato sul tappetino della cancelliera a fare gesticolazione. Perché un’azione concertata con Rajoy e Letta dovrebbe avere migliore fortuna, solo perché sommando, che so, pil produzione industriale esportazioni e altro secondo i calcoli dell’economista della Cattolica, Marco Fortis, le “tre sorelle” sarebbero più ricche e potenti della sola Germania? E’ vero, insieme sono forti: anche nel calcio lo sono, ma messe insieme non credo che oggi come oggi riuscirebbero a sconfiggere i bianchi di Joachim Löw. Uno spagnolo con poco appeal e vagamente noioso, un francese intristito dalla dieta, un italiano che non conosce la falcata: a volte in un’unione non si sommano le forze ma le debolezze.
Romano Prodi sembra scommettere su un comprensibile risentimento, su un legittimo desiderio di rivincita. E sull’urgenza del momento, una sorta di ultima finestra di opportunità. Nemmeno lui si fida troppo di Angela Merkel. Sa che non sarà mai come il gigante Helmut Kohl che in una notte prese la decisione folle di cambiare alla pari il marco dell’est con quello dell’ovest e con l’idea “una sola moneta, un solo paese” inaugurerà l’èra della nuova Germania unita. Scrive Prodi: “Sarà difficile attenderci una politica diversa anche perché la cancelliera tedesca non è certo nota per prendere decisioni coraggiose durante le campagne elettorali, di qualsiasi tipo esse siano”. A Berlino sono ancora in corso le negoziazioni per formare la Grosse Koalition, il nuovo governo si insedierà a gennaio, qualche mese dopo si rivoterà in tutta l’Unione per il rinnovo del Parlamento europeo. Chi pensa di dover mettere in campo forza comune sufficiente a vincere la battaglia e a schiodarla dalle sue certezze effettivamente dovrebbe provarci ora. Ma non troverà né la ragazza dell’est, né la figlia del pastore né la pupilla di Kohl: troverà la “signora delle betteraves” come dicono i francesi, leader vincente e vittorioso che mai arrufferà il pelo dei produttori di barbabietole suoi elettori e mai chiederà loro altre tasse per tappare i buchi lasciati da popoli sconsiderati. Piuttosto che lasciar fare decine di miliardi di investimenti pubblici straordinari al di fuori del Fiscal compact, farà saltare il banco: in fondo è “frau Merkiavelli” come l’ha definita il politologo Ulrich Beck che esitando, dicendo e non dicendo, facendo e non facendo, ha tratto forza e vitalità proprio dall’indeterminatezza e dallo stato di sospensione in cui vive l’Unione e in pochi anni è riuscita a cambiare la forma del potere.
Prodi ha proposto questa mini Europa latina, contingente e a tempo, come ultima ratio per far tornare la ragione nel quadro esistente. Ma nemmeno lui sembra credere che fare opere pubbliche basti a ritrovare gli antichi spiriti. Che si possa uscire dalla crisi dell’Europa e dell’Unione senza sconquassi e senza rimettere molte cose in discussione.
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