Manovre ardite per John Kerry

Daniele Raineri

Lunedì il segretario di stato americano, John Kerry, ha incontrato il re saudita Abdullah e ha celebrato l’alleanza “strategica” tra Washington e Riad. Se si potesse riassumere in modo informale, il dialogo sarebbe questo: “Il presidente Obama mi ha mandato qui perché abbiamo capito perfettamente che siete furiosi con noi per tante ragioni. Ad agosto abbiamo cambiato idea all’improvviso dopo aver minacciato di bombardare il presidente siriano Bashar el Assad come giusta punizione, promessa da tempo, per il massacro di civili con le armi chimiche alla periferia di Damasco. Abbiamo fatto un accordo con la Russia e voi che avete deciso di tenere una linea dura e inflessibile con Assad vi siete sentiti abbandonati e vi chiedete quale sia il vantaggio a collaborare con noi, se tanto cambiamo idea all’improvviso".

    Lunedì il segretario di stato americano, John Kerry, ha incontrato il re saudita Abdullah e ha celebrato l’alleanza “strategica” tra Washington e Riad. Se si potesse riassumere in modo informale, il dialogo sarebbe questo: “Il presidente Obama mi ha mandato qui perché abbiamo capito perfettamente che siete furiosi con noi per tante ragioni. Ad agosto abbiamo cambiato idea all’improvviso dopo aver minacciato di bombardare il presidente siriano Bashar el Assad come giusta punizione, promessa da tempo, per il massacro di civili con le armi chimiche alla periferia di Damasco. Abbiamo fatto un accordo con la Russia e voi che avete deciso di tenere una linea dura e inflessibile con Assad vi siete sentiti abbandonati e vi chiedete quale sia il vantaggio a collaborare con noi, se tanto cambiamo idea all’improvviso. Ancora di più vi rende furiosi questo nuovo clima di riconciliazione con l’Iran, la vostra grande nemesi in questa regione. ‘Bisogna tagliare la testa del serpente’, dite, e invece noi ci stiamo calando in una nuova fase fatta di telefonate e aperture reciproche. Il tutto senza che l’Iran, che parla con parole dolci perché è sotto sanzioni, abbia fatto ancora qualcosa di concreto, come potrebbe essere rinunciare a un pezzo del suo programma nucleare. Però, pensateci: la nostra alleanza dura da settant’anni e conviene a entrambi se proseguiamo a braccetto e non tronchiamo la nostra collaborazione”. Il re saudita potrebbe aver risposto così: “Da quando avete mollato Mubarak al suo destino – che se ci penso ancora mi sento male dalla rabbia  [come in effetti successe, si dice] – abbiamo capito che non possiamo fidarci di voi per tenere una linea dura, coerente e senza scarti imprevedibili: insomma, qualcosa che possa opporsi alla coalizione fin troppo volenterosa di Siria, Iran e Russia. Ora però state esagerando. Avevate detto che avreste aiutato i ribelli in Siria, ma vi siete tirati indietro. Avevate detto che avreste scatenato l’inferno se Assad avesse usato le armi chimiche sui civili e invece prima avete minacciato un attacco ‘incredibilmente piccolo’ e poi avete fatto di Assad il partner di un contratto a tre con la Russia. Avete sentito che ha scherzato sul fatto che meriterebbe lui il premio Nobel? In medio oriente, per citare il vostro Al Pacino, la strada sta a guardare, sta a guardare tutto il tempo. Cosa credete che stia pensando ora di questo nostro asse – tra sauditi e americani? Che non vinciamo nulla e che non è granché averci come alleati. E sul capitolo Iran: quando il nuovo presidente Hassan Rohani è stato eletto gli ho mandato una nota personale di congratulazioni. Ma Teheran continua a intervenire nel mondo arabo. Dalla Siria al Libano, dall’Iraq al Bahrein. E sul loro programma nucleare vorrei dire soltanto questo: stanno uscendo notizie sui contatti che stiamo prendendo con Israele per fare fronte alla questione che voi non mostrate di voler risolvere. Siamo arrivati al punto che ne parliamo con Israele. Serve aggiungere altro?”. I due erano seduti a un tavolino in una sala stile impero, non grande. Due traduttori erano accanto, Kerry aveva la cravatta rossa, il re aveva il pizzo e i baffi perfettamente neri, incongrui su un ottantanovenne.

    Uscito dall’incontro il segretario di stato americano è stato impeccabile. “L’Arabia Saudita – ha detto Kerry – è l’attore più importante dell’area”. E il diritto per le donne di guidare? “E’ una questione che va lasciata decidere all’Arabia Saudita”. Poi ha ripreso la missione di undici giorni che l’Amministrazione Obama gli ha affidato per ricucire le relazioni con un gruppo di paesi importanti che sono ancora definiti alleati, come l’Egitto e Israele.


     La diplomazia saudita per decenni ha fissato uno standard: era sottile e opaca. La reggia dei Saud mandava messaggi verso il mondo esterno grazie a microvariazioni di una stessa liturgia fissata nel corso degli anni e giocata soprattutto tra la Lega araba, il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite e la Casa Bianca. Gli osservatori dovevano notare questi cenni, decifrarli e trarne le conseguenze, come con il Vaticano e con il Cremlino. Se e quando ne valeva la pena.

    Da quando il re ha rotto con Obama, la diplomazia saudita non è più così sottile. A settembre l’Arabia Saudita ha rifiutato di prendere la parola quando è venuto il suo turno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Messaggio chiaro: “Se le cose stanno così, non vale neanche la pena parlare”. Il 18 ottobre l’Arabia Saudita ha fatto un altro brusco scarto diplomatico e ha rifiutato il seggio temporaneo al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Al mattino i diplomatici sauditi a New York avevano già cominciato a celebrare il raggiungimento di un traguardo considerato storico, al pomeriggio è arrivato l’ordine da Riad: non se ne fa niente, stiamo per annunciare che rifiutiamo. Il principe Turki al Faisal dice su Slate che per avere quel seggio era stata fatta una campagna politica di alto livello, ma poi c’è stata la scelta accuratamente studiata di rifiutare, anche se alcuni diplomatici minori non erano stati avvertiti e quindi c’è stata l’impressione di una decisione all’ultimo minuto. In questi giorni, un altro strappo: i sauditi non hanno ricevuto Lakhdar Brahimi, rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la Siria.


    Barack Obama era il presidente che avrebbe dovuto rimettere le cose a posto. In politica estera si è fatto elegggere con un mandato chiaro: sistemare le relazioni lasciate a pezzi dal suo predecessore texano e recuperare le posizioni perse dall’America davanti agli occhi del mondo, o almeno era questo che si diceva durante la campagna elettorale. E’ successo il contrario, per accidente ma anche per scelte prese deliberatamente. Il caso Snowden che sta mettendo alla prova relazioni che sembravano scontate, come quella con la Germania di Angela Merkel, può essere messo nella categoria degli accidenti. Un contractor dell’intelligence scappa con un tesoretto di informazioni e con particolari micidiali sulle spiate ai danni degli alleati, e questo sarebbe un disastro sotto qualsiasi amministrazione. Il fatto che invece altre relazioni siano a pezzi non è un incidente di percorso: l’Amminstrazione Obama sta rompendo con l’Egitto, con l’Arabia Saudita e con Israele allo stesso tempo – e le cose con Mosca non vanno certamente meglio di prima.

    Washington sta agendo in politica estera secondo due impulsi. Uno è lo shift verso il Pacifico, un piano ambizioso per spostare il focus dell’America sul mondo: Obama sogna che occuparsi di Foreign agenda voglia dire occuparsi di Cina, Giappone e di coste pacifiche dell’Asia, e non più di Libia, Egitto e Siria, aree dove c’è soltanto da perdere. L’altro impulso è quello verso l’isolazionismo: l’America non può occuparsi dei problemi del mondo. Questa linea politica è riassunta seccamente in una domanda retorica circolata durante i dibattiti interni all’Amministrazione sulla Siria: se non facciamo nulla per la guerra in Congo, perché dovremmo agire a Damasco? La questione è legittima, ma l’isolamento isola e gli alleati in medio oriente stanno scegliendo di muoversi per i fatti loro. Secondo il Washington Post di domenica, i sauditi stanno trattando con gli altri regni del Golfo per intervenire in autonomia nella guerra civile siriana. Uno dei punti discussi è fornire ai ribelli anti Assad le armi che Obama vorrebbe che non fossero date loro, come i missili antiaerei. La Casa Bianca teme che questo tipo di aiuti bellici potrebbe cadere nelle mani di gruppi estremisti e considerata la situazione in Siria è uno scenario probabile. Certo però che i ribelli potrebbero finalmente annullare uno dei grandi vantaggi che il presidente Bashar el Assad ha su di loro, la superiorità aerea. Finché i Saud e la Casa Bianca si consideravano alleati il veto sui missili ha funzionato. Ora però potrebbe cadere. E’ soltanto un esempio di guaio venturo formulato da Simon Henderson in un pezzo per Foreign Policy, ma spiega perché Kerry ha davanti ancora molte missioni pacificatrici.

    • Daniele Raineri
    • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)