Aprite quelle celle
Mentre là fuori ci si incartava sull’affaire Cancellieri-Ligresti, lì dentro, nelle patrie galere che scoppiano, si verifica il seguente, inedito paradosso: i detenuti che vi fanno ingresso attraverso il consueto e mai interrotto circolo vizioso delle porte girevoli – entro-esco-e-poi-subito-ritorno – chiedono ora di poter finire nelle celle più sovraffollate, dove sempre più spesso, per motivi di sopravvivenza, le porte blindate vengono lasciate aperte durante il giorno.
Mentre là fuori ci si incartava sull’affaire Cancellieri-Ligresti, lì dentro, nelle patrie galere che scoppiano, si verifica il seguente, inedito paradosso: i detenuti che vi fanno ingresso attraverso il consueto e mai interrotto circolo vizioso delle porte girevoli – entro-esco-e-poi-subito-ritorno – chiedono ora di poter finire nelle celle più sovraffollate, dove sempre più spesso, per motivi di sopravvivenza, le porte blindate vengono lasciate aperte durante il giorno. Un’apertura, anche metaforica, decisa ai vertici del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) all’interno di un piano di ambiziosa riforma volto ad accentuare il valore rieducativo della pena, fino a ora garantito soltanto in alcuni istituti più virtuosi e gestiti da direttori di buona volontà. Una riforma, quella delle carceri, improvvisamente accelerata dall’emergenza e dalle scadenze imposte dall’Europa. Le celle scoppiano e le porte blindate si aprono, mentre si attenuano persino le critiche e le perplessità di chi attribuisce alla pena un significato esclusivamente punitivo.
Quando si parla di carceri, in Italia, si procede esclusivamente per paradossi. Di leggi per tutelare i diritti umani dei detenuti, anche i più disgraziati, e per favorire il loro reinserimento, ce ne sono state persino troppe: ma non si applicano, perché vengono vanificate da altre norme che vanno in direzione contraria. Oppure perché finiscono nell’imbuto della lentezza giudiziaria e dipendono esclusivamente dalla discrezionalità dei tribunali di sorveglianza. O ancora, perché s’incagliano nella distorta ed eccessiva applicazione della custodia cautelare, nella mancanza di sostegno sociale all’esterno per favorire il reinserimento, nell’assenza di lavoro da offrire ai detenuti, nei fondi che scarseggiano persino per il recupero terapeutico dei tossicodipendenti. Il tutto in un contesto reso ancora più stagnante dalla presenza di migliaia di carcerati che devono scontare condanne molto brevi (quasi 10 mila detenuti sono in prigione con una pena residua di 12 mesi), ma non hanno fissa dimora per poter accedere alle misure alternative come la detenzione domiciliare. Oppure impossibilitati a usufruire di altre misure alternative per via della legge ex Cirielli, che ha imposto ai recidivi molti vincoli, solo leggermente attenuati dal decreto governativo sulle carceri approvato l’estate scorsa.
La riforma che il ministro Annamaria Cancellieri vorrebbe realizzare (con il sostegno del presidente Giorgio Napolitano) è ambiziosa, persino pretenziosa. A Strasburgo tre giorni fa il Guardasigilli ha replicato, abilmente e punto per punto, ai rilievi critici della sentenza pilota della Corte dei diritti dell’uomo emessa nel gennaio scorso – in seguito al ricorso di sette detenuti negli istituti di detenzione italiani – per dimostrare che finalmente, dopo decenni di riforme annunciate e nonostante alcuni provvedimenti di clemenza che però non hanno avuto conseguenze efficaci e durature sul sovraffollamento, si sta cercando di porre mano e rimedio alla questione penitenziaria.
Ora che la sentenza Torreggiani (8 gennaio 2013) della Corte dei diritti dell’uomo, sospesa fino a maggio del 2014 per dare tempo allo stato italiano di rimediare al degrado e al sovraffollamento, rischia di diventare esecutiva e molto onerosa (da giugno 2014 lo stato italiano potrebbe pagare 60-70 milioni di risarcimenti a migliaia di detenuti che hanno cercato il loro giudice a Berlino), la riforma diventa ineludibile. E le porte si devono aprire per forza. A Strasburgo il Guardasigilli ha incontrato il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjorn Jagland, e i vertici della Corte dei diritti dell’Uomo per spiegare la futura configurazione delle carceri, più umane e civili. E ha annunciato la decisione, inedita, di prendere in considerazione l’eventualità di compensare i sette detenuti ricorrenti, che hanno chiesto e ottenuto in totale centomila euro di risarcimento, con sconti di pena. Il suo viaggio, nel bel mezzo di una bufera personale e politica, è stato una mossa tattica, di “cortesia” e di “avvicinamento” – così l’hanno definita i collaboratori del ministro Cancellieri – per illustrare alle istituzioni europee il piano di interventi ed evitare una sanzione pecuniaria rilevante (i ricorsi per detenzione inumana e degradante sono già 2.800) in modo da sottrarre il governo alla gogna mediatica internazionale che scaturirebbe per l’Italia dal diventare a tutti gli effetti uno “stato torturatore” che vessa i propri carcerati violando le regole della Convenzione europea. Come ha detto e ribadito in modo solenne, e accorato, il presidente della Repubblica Napolitano nel suo messaggio alle Camere il 7 ottobre scorso.
Per capire quanto sia complicata la questione penitenziaria su cui l’Italia si arrovella da oltre vent’anni, è utile leggere la bozza della relazione elaborata dalla presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti del Pd, che riassume i disegni di legge all’esame del Parlamento per avviare entro la fine di novembre un dibattito in Aula sul messaggio del capo dello stato, nella speranza di trovare una soluzione. Soluzione che, al momento, non sembra essere quella dell’amnistia-indulto, pur suggerita da Napolitano e appoggiata dal Guardasigilli. Ci sono infatti da considerare il fragile equilibrio del governo delle larghe intese, e soprattutto l’opera di contrasto dello schieramento, trasversale ai partiti, da sempre affezionati al giustizialismo e a una visione puramente retributiva, quando non vendicativa, della pena.
Diversamente, si pensa a una serie di riforme strutturali da affiancare a una lista di provvedimenti interni alle carceri per alleviare le gravi condizioni di vita dei detenuti. Le norme all’esame della Camera sono diverse. Come per esempio l’approvazione, ora al Senato, della sospensione del procedimento penale con la messa in prova dell’imputato, fino a ora utilizzata solo per i minori per condanne fino a 4 anni, e anche per reati che hanno sempre destato un rilevante allarme sociale (violenza, minaccia o resistenza e oltraggio a un pubblico ufficiale, rissa, furto aggravato e ricettazione) attraverso l’affidamento a un servizio sociale o mediante lavori di pubblica utilità. Opportunità da concedere per due volte, una sola se si commette di nuovo lo stesso reato. Altra ipotesi, ricorrere anche alla possibilità di concedere la detenzione domiciliare come pena detentiva principale (e non più solo alternativa al carcere) per condanne fino ai 6 anni di reclusione (finora la detenzione domiciliare è prevista per motivi di salute o, secondo l’ultima norma del 2010, per una pena detentiva non superiore ai 18 mesi; norma però di carattere temporaneo, valida cioè fino alla conclusione del piano di costruzione di nuove carceri). E siccome questo ultimo provvedimento temporaneo ha permesso fino a ora di scarcerare 12 mila detenuti ma, per ammissione dello stesso Guardasigilli durante una recente audizione in commissione Giustizia a Montecitorio, non ha avuto effetti deflattivi sulla presenza complessiva dei 64.564 detenuti presenti nei 208 istituti penitenziari, si cercano altre strade per limitare con più efficacia gli ingressi. Perché se è vero che c’è stata una diminuzione degli ingressi (63 mila nel 2012, nel 2009 erano 80 mila), il numero delle custodie cautelari è rimasto invece identico: i detenuti in attesa di giudizio sono 24.715, numero rimasto stabile sin dagli anni di Tangentopoli, nel 1992, che corrisponde al 38 per cento della popolazione complessiva, di fronte alla media europea del 25 per cento.
I principali fattori all’origine del sovraffollamento delle carceri sono essenzialmente due: la presenza massiccia di detenuti tossicodipendenti e gli immigrati. Ai primi si vorrebbero dare maggiori chance per non varcare la soglia degli istituti di pena, anche grazie a un maggior ricorso all’affidamento terapeutico (“In carcere un detenuto costa 125 euro, in una comunità di recupero 50”, osserva la presidente della commissione Giustizia di Montecitorio, Donatella Ferranti), mentre ai secondi si vorrebbe imporre l’obbligo di rimpatrio: 22 mila stranieri di 128 nazioni, di cui la metà non cittadini degli stati membri dell’Ue.
Per aiutare i detenuti tossicodipendenti, bisognerebbe modificare il testo unico sulle sostanze stupefacenti, e rimuovere ogni ostacolo previsto per i recidivi: 23 mila finiti in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti Giovanardi-Fini, che un altro provvedimento all’esame della Camera vorrebbe modificare. Con un’attenuazione delle condanne e depenalizzazione di alcuni reati più lievi (come ad esempio la coltivazione di canapa indiana, che diventerebbe un reato amministrativo, storico cavallo di battaglia dei radicali). Per i detenuti stranieri è ancora più difficile arrivare alla meta prefissata dal governo: nel 2012 ne sono stati rimpatriati solo 212, nei primi sei mesi del 2013, 81.
Per dare ali alla riforma, ed evitare la condanna definitiva da parte dell’Europa, bisognerebbe anche riuscire ad approvare il disegno di legge sulla custodia cautelare, a cui i giudici fanno ricorso con abbondanza e in molti casi con estrema leggerezza, se solo si raffronta il numero delle custodie inflitte con i successivi esiti di indagini e processi: il caso di Silvio Scaglia è solo la punta mediatica di un enorme iceberg. Una leggerezza rilevata anche nella sentenza pilota (e spada di Damocle) della Corte dei diritti dell’uomo. Dei 24 mila detenuti imputati, 12.348 sono in attesa della sentenza di primo grado. Il testo di legge sulla riforma della custodia cautelare, arriverà, si spera, presto in Aula: l’11 novembre scade il termine per gli emendamenti. Si tratta di una priorità per il ministero della Giustizia, che ha affidato al presidente della Corte d’Appello di Milano, Giovanni Canzio, una commissione apposita di studio sul processo penale. Ma può essere considerato anche l’ennesimo tentativo dello stato italiano di emendare i propri errori, visto che l’ossessione coercitiva ha lasciato molti morti sul campo di battaglia delle patrie galere. In tredici anni, dal 2000 a oggi, 2.200 detenuti si sono tolti la vita. Anche se forse nel 2013 ci deve essere stata un’attenzione maggiore alla salute psichica dei carcerati: 42 suicidi rispetto ai 60 del 2012.
In realtà (altro paradosso), secondo quanto risulta da un monitoraggio europeo nelle carceri italiane non ci sono troppi detenuti rispetto alla media continentale: il vero problema è che sono troppo pochi quelli che possono accedere alle misure alternative. Infatti se oggi in Italia sono circa 30 mila le persone che scontano la pena all’esterno del carcere, in Francia sono quasi sei volte tanti, 173 mila, e nel Regno Unito addirittura 237 mila. Ecco perché, in uno studio elaborato da una commissione del Csm guidata dal penalista Glauco Giostra, “Sovraffollamento delle carceri, una proposta per affrontare l’emergenza”, si osserva: “Se è vero che il condannato espia la pena in carcere” nella maggior parte dei casi, in Italia la popolazione detenuta “è composta dal 68 per cento di recidivi, laddove chi ha usufruito di misure alternative alla detenzione ha un tasso di recidiva del 19 per cento, che si riduce all’uno per cento fra i reinseriti nel circuito produttivo”. La conclusione a cui arriva il professor Giostra è uguale alla premessa, visto che i mali del sistema penitenziario sono sempre gli stessi, come lo sono i rimedi escogitati che però non si riescono mai ad applicare: bisogna abolire gli automatismi che portano alla carcerazione, abrogando una serie di norme interdittive previste dal legislatore per contenere gli allarmi sociali. Secondo le proiezioni statistiche di Giostra, messo dal Guardasigilli alla guida di un commissione ministeriale sulle misure alternative, un circuito virtuoso di ricorso “all’esecuzione penale esterna” potrebbe “liberare” 10-20 mila detenuti. Ipotesi plausibile o proiezione astratta?
Considerando che in Italia mai si seguirà l’esempio della Germania, che ha istituito addirittura liste di attesa per detenuti che non entrano in carcere finché non ci siano condizioni dignitose per ospitarli (altrimenti nelle galere italiane probabilmente non entrerebbe quasi più nessuno), i dati forniti dal Dap sul ricorso alle misure alternative è davvero sconfortante: secondo i numeri aggiornati al settembre 2013, ci sono 10.755 persone affidate ai servizi sociali, 2.742 agli arresti domiciliari e circa tremila affidate alle comunità di recupero, mentre i “semiliberi” sono meno di 800. Fanno bene gli esperti del diritto penitenziario a mettere sempre l’accento sul lavoro, come strumento salvifico del condannato – poiché è stato ampiamente dimostrato che il lavoro nobilita anche il detenuto – peccato però che a lavorare fuori o dentro il carcere ci siano complessivamente 13 mila condannati definitivi, di cui solo 436 alle dipendenze del Dap. Anche perché il Dap, a discapito di quanto enunciato a Bruxelles da Annamaria Cancellieri sui progetti lavorativi e trattamentali da offrire ai detenuti, deve fare le nozze coi fichi secchi, visto che nel 2010 poteva contare su un fondo di 11 milioni di euro per attività produttive interne (ma nel 2010 i lavoranti erano comunque pochi) mentre ora ha a disposizione solo 3 milioni di euro.
Ecco perché il ministero della Giustizia annaspa per trovare fondi europei e sostegni dalle regioni per promuovere il lavoro interno o esterno al carcere e offre sgravi fiscali ad aziende e cooperative in grado di offrire occupazione ai detenuti. Intento nobile, ma di complessa attuazione. Consapevoli delle difficoltà per poter arrivare in tempi brevi ai cambiamenti normativi in Parlamento, al Dap contano di utilizzare in modo costruttivo la condanna subita in sede europea per poter modificare lo stato di detenzione e portarlo verso una custodia attenuata. Perché se “il fabbisogno standard” di spazio (e di ossigeno) necessario per non vessare i detenuti con una pena afflittiva e degradante, è di 4 metri quadrati, allora sarà più facile, come era nei piani dei vertici del Dap, arrivare all’apertura del 79 per cento delle celle entro aprile del 2014, un mese prima della scadenza europea. Una volta liberati dagli spazi angusti almeno per otto ore, rimane da decidere cosa fare dei tanti detenuti che potranno stare fuori dalle celle. L’obiettivo è quello di riconfigurare gli istituti penitenziari, vecchi e nuovi, in modo che possano avere molti spazi comuni. Adottando un modello di custodia attenuata e comunitaria, con una vigilanza cosiddetta “dinamica” che permetta agli agenti di polizia penitenziaria di svolgere un ruolo più educativo (considerata anche la penuria di educatori, mai risolta), fatti salvi ovviamente i punti più critici degli istituti penitenziari.
Quasi un libro di fiabe, che in parte potrà essere realizzato anche grazie alla pressione dell’Europa, che invera però un ennesimo paradosso: si costruiscono nuove carceri per poter aprire le porte delle carceri. E se è vero, come ha sottolineato il ministro Cancellieri, che il decreto cosiddetto “svuota carceri” approvato nell’agosto scorso ha permesso di dimezzare gli ingressi (passati da 1.000 a 500 al mese) e si prevede che nell’arco di un anno si potrebbero evitare complessivamente 4.000 nuovi ingressi, è anche vero che nelle prigioni italiane ci sono comunque ventimila detenuti oltre la capienza sostenibile. Ecco perché nel nome del motto di Voltaire – “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri perché da esse si misura il grado di civiltà di un paese” – l’Osservatorio carceri dell’Unione delle camere penali di Venezia ha optato per una singolare iniziativa in grado di rappresentare tutti i paradossi delle galere italiane. Non potendo portare fuori i detenuti, ha deciso di liberare una cella. Allestendo in una piazza di Mestre una stanza sovraffollata di 3 metri per quattro, per dimostrare ai cittadini cosa significhi quella parola usata e abusata, “sovraffollamento”, che si trasforma in tortura agli occhi vigili dell’Europa.
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