Cuneo fiscale adieu. Letta preferisce l'elemosina redistributiva

Francesco Forte

In origine il “clou” della Legge di stabilità consisteva in una manovra per raccogliere risorse al fine di ridurre il cuneo fiscale. Lo chiedevano Pd, Cgil, Confindustria anche sulla base di “studi” dell’Ocse che non si è mai capito in cosa consistano. L’idea originaria era di una manovra di almeno un punto di pil, cioè 16 miliardi, forse divisi in tre anni. A ciò dovevano servire aumenti dell’Iva, tagli di spese fiscali e tassazioni varie mentre per pagare l’abrogazione dell’Imu prima casa (4 miliardi) si sarebbe ricorso ad accise per un miliardo e mezzo e alla Service tax.

    In origine il “clou” della Legge di stabilità consisteva in una manovra per raccogliere risorse al fine di ridurre il cuneo fiscale. Lo chiedevano Pd, Cgil, Confindustria anche sulla base di “studi” dell’Ocse che non si è mai capito in cosa consistano. L’idea originaria era di una manovra di almeno un punto di pil, cioè 16 miliardi, forse divisi in tre anni. A ciò dovevano servire aumenti dell’Iva, tagli di spese fiscali e tassazioni varie mentre per pagare l’abrogazione dell’Imu prima casa (4 miliardi) si sarebbe ricorso ad accise per un miliardo e mezzo e alla Service tax. Ma le esigenze redistributive premevano e man mano la dote finanziaria destinata al cuneo fiscale è servita per il rifinanziamento della cassa integrazione in deroga, l’assunzione nel pubblico impiego di precari che facevano già quel lavoro con compensi molto minori e con orari ridotti e altro. Dato il mancato recupero di produttività la congiuntura è peggiorata e parte degli stanziamenti per la riduzione del cuneo sono serviti a rattoppare il bilancio. Per il “cuneo” sono rimasti solo 1,5 miliardi. Che però non sono stati destinati al costo del lavoro delle imprese, ma all’Irpef per i redditi di lavoro sino a un certo tetto. Per dare sostanza allo sgravio s’è abbassato tale tetto. Alla fine il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, ha proposto che la somma vada a sgravi per soggetti a basso reddito, indipendentemente dal fatto se siano lavoratori dipendenti o no. Cuneo fiscale: adieu.

    La vicenda del “cuneo” è emblematica del male di cui soffre la nostra economia che non cresce: la prevalenza del tema distributivo su quello produttivo. La crescita s’ottiene rafforzando la produzione e la produttività, anche a costo di un peggioramento distributivo di breve termine: se si fa prevalere la distribuzione s’ottiene, nel breve, un miglioramento di chi sta peggio, ma nel medio e lungo termine l’effetto è deteriore. Bettino Craxi n’era consapevole quando tagliò la scala mobile, facendo riemergere la produttività e la crescita. Sicché crebbero anche i salari globali, quelli orari e quelli medi mensili. E’ vero che i profitti in percentuale aumentarono di più. Qualcuno perciò sostenne che la distribuzione era peggiorata: assurda difesa del punto di vista redistributivo. Se i pochi soldi disponibili per la riduzione del cuneo fiscale, 1,5 miliardi, fossero usati per finanziare la riforma di contratti di lavoro alla Marchionne, orientati alla produttività, il loro effetto sulla crescita sarebbe molto rilevante, con un costo modesto (lo 0,09 per cento del pil). Nel Regno Unito la produzione industriale è aumentata del 2 per cento: i contratti di lavoro flessibili ne stanno facendo un hub della produzione d’auto. Lo stesso in Spagna ove si producono Volkswagen, esportate in Germania col marchio Seat. Ma da noi si tutela il salario dell’addetto a tempo pieno che lavora negli orari giornalieri feriali, mentre la produttività italiana, comparativamente, sta scendendo. Per capirlo basta un confronto. Fatto 100 il livello medio di produttività dell’Europa a Ventisette, nel 2003 la produttività italiana per persona occupata era a quota 117 ed è scesa a 109 a fine 2011. Quella della Spagna, invece, era a 103 nel 2003 ed è salita a 109 a fine del 2011. Nello stesso periodo, la produttività per ora lavorata in Italia era a quota 107 ed è scesa a 102. Mentre quella della Spagna era a 102 ed è salita a 108.

    Il motivo distributivo spiega anche perché non si smantellano le imprese pubbliche inefficienti. I burocrati europei, invece, che chiederci di adempiere comunque agli obiettivi di bilancio, anche con aumenti di imposte che deprimono la crescita e il gettito fiscale, dovrebbero chiederci di fare politiche produttive e non distributive. Così il deficit sparirebbe. Ridiventeremmo competitivi, senza bisogno di keynesiani o d’anticuneisti di vario genere.