Telecom e il manifesto post-Bernabè
Per chi ama leggere l’oroscopo di un’azienda sui grafici di Borsa, il destino di Telecom Italia potrebbe aver registrato una svolta alle cinque della sera di ieri, vigilia del cda in cui l’amministratore delegato, Marco Patuano, dovrebbe tracciare il primo quadro del dopo Bernabè. A quell’ora della sera, i titoli dell’ex incumbent delle tlc hanno preso la via del rialzo, oltre il 3 per cento, dopo una giornata di relativa bonaccia.
Per chi ama leggere l’oroscopo di un’azienda sui grafici di Borsa, il destino di Telecom Italia potrebbe aver registrato una svolta alle cinque della sera di ieri, vigilia del cda in cui l’amministratore delegato, Marco Patuano, dovrebbe tracciare il primo quadro del dopo Bernabè. A quell’ora della sera, i titoli dell’ex incumbent delle tlc hanno preso la via del rialzo, oltre il 3 per cento, dopo una giornata di relativa bonaccia. Le ragioni? Forse si trovano a Madrid, dove pare che i vertici di Telefonica abbiano messo a punto un’iniezione di mezzi freschi, aumento di capitale (ma non solo) attorno ai due miliardi, per dimostrare al governo italiano e agli altri azionisti che l’interesse per la società è genuino e non subordinato alla possibile vendita di Tim Brasil. La carta segreta prevederebbe anche un convertendo, cioè l’opzione che consente di trasformare quote di debito in un equivalente numero di azioni. Ovvero, in parole povere, un modo per versare quattrini in Telecom facendo figurare un credito e non (per il momento) un investimento azionario che farebbe traballare il rating di Telefonica, che già ha i suoi problemi. Accanto al convertendo, da quel che si è capito dalle prime indiscrezioni, il gruppo spagnolo proporrà una quota di aumento di capitale e suggerirà qualche misura di austerità: la rinuncia di parte del dividendo, qualche cessione e, magari, la richiesta ai soci di Telco di prevedere una finestra d’uscita a metà del 2014, sei mesi dopo il previsto.
Il motivo? Evitare il rischio di consolidare i debiti di Telecom con quelli di Telefonica, con la conseguenza di finire sotto la mannaia delle agenzie di rating. Una mossa che già ha creato più di un sospetto: sta a vedere che Telefonica vuol solo guadagnare tempo per organizzare la cessione o lo spezzatino di Tim Brasil, operazione che sarà realizzabile solo nel 2014 o addirittura nel 2015, dopo le elezioni del prossimo ottobre. Ma allungare i tempi comporta un rischio per i partner italiani: fare passare più tempo rende più concreta la prospettiva di una riforma della legge sull’Opa che obblighi Telefonica a lanciare l’offerta su Telecom, ovvero a far saltare tutta l’operazione. Se i tempi saranno più stretti, sarà invece difficile che, nonostante l’attivismo del senatore Massimo Mucchetti, la modifica veda la luce entro l’anno. A tal proposito, infatti, vale il monito di Bruno Tabacci, presidente della commissione bicamerale per la Semplificazione che, attraverso il sito Firstonline, ha fatto sapere che “poiché il nostro è un sistema parlamentare bicamerale, non credo che il governo possa intervenire per decreto legge affidandosi esclusivamente alle valutazioni espresse da due commissioni del Senato”. Perciò la modifica, osteggiata da economisti autorevoli come Marco Onado (e dallo stesso Tabacci) o dall’ex commissario Consob, Salvatore Bragantini, avrà bisogno di tempi lunghi, come probabilmente non dispiace a buona parte dell’esecutivo che non apprezza certo l’idea di aprire un altro fronte con un partner europeo dopo gli strali su Alitalia per l’intervento delle Poste.
In questa cornice sofferta non c’è nemmeno spazio in agenda per affrontare il capitolo della presidenza dopo le dimissioni di Franco Bernabè (in agguato c’è sempre Massimo Sarmi che però starebbe perdendo interesse, l’alternativa pare dunque essere il presidente di Borsa italiana Massimo Tononi). La vigilia del consiglio di amministrazione che si tiene oggi, insomma, è tanto agitata quanto confusa, più ricca di punti interrogativi che di certezze. Oggi l’ad Patuano dovrà fare il punto sulle possibili cessioni, da Telecom Argentina alla vendita delle torri. Archiviare una volta per tutte la questione della scissione della rete, invisa a Telefonica, ma escogitare una soluzione per gli investimenti nella banda larga, sollecitando i soci (ovvero Telefonica) ad aprire i cordoni della borsa. Una bella quadratura del cerchio perché visto che i soci italiani che finora controllano la società attraverso la finanziaria cassaforte Telco (Generali, Mediobanca, Intesa Sanpaolo) sono in uscita dal capitale; gli spagnoli di Telefonica hanno margini d’azione stretti, impegnati come possono a fare cassa in Irlanda e Repubblica ceca per finanziare l’acquisto della compagnia e-Plus in Germania; l’indebitamento elevato (29 miliardi tondi) richiede terapie d’emergenza per la società retrocessa da Moody’s nel girone dei titoli spazzatura. Cosa che riduce ulteriormente i margini d’azione perché, sottolinea Carlos Winzer, analista della società di rating americana, “dopo il nostro downgrade a Ba1, qualunque strumento finanziario diverso da un aumento di capitale, sarà considerato debito nella struttura di Telecom Italia”.
Fossati va all’offensiva con un rimorso
Si capisce perchè, in mezzo a tanto trambusto, risuoni minaccioso l’eco dei tamburi di Londra, suonati da Marco Fossati, azionista del gruppo con una quota di poco superiore al 5 per cento, che ha radunato, sempre ieri pomeriggio, gestori e analisti per creare un fronte comune in grado di dare forza alla sua richiesta di un’assemblea per revocare il cda e intimare il no pasarán al capo di Telefonica César Alierta che – è l’accusa – ha in mente una cosa sola: sistemare Tim Brasil in mani amiche e rientrare dei quattrini investiti in Italia. Marco Fossati, che in Telecom Italia ha investito (e perduto) una fortuna, ha deciso così di impugnare la bandiera della governance e dei diritti delle minoranze, cercando in quel di Londra di mobilitare i fondi di investimento contro l’operazione Telco. In realtà, Fossati è sceso in campo dopo che Telefonica si è rifiutata di comprare le sue azioni, il 4,9 per cento del capitale, alle stesse condizioni (1,1 euro per azione contro una quotazione ieri di 0,75 euro) offerte ai soci di Telco. Di fronte al “no” di César Alierta, cui il 22,4 per cento di Telco basta e avanza, Fossati è insorto: ha varcato il Rubicone del 5 per cento, ha sollecitato l’alleanza con BlackRock e altri fondi e ha già avvertito la Consob che non si fermerà qui. Forse c’è da capirlo: Fossati ha visto andare in fumo i quattro quinti del miliardo abbondante investito a suo tempo in Telecom non esitando, nel 2009, a sacrificare lo 0,51 per cento di Apple (un tesoretto da tre miliardi o giù di lì ai prezzi di Wall Street) pur di non riconoscere di aver fatto un ben misero affare nella società italiana. Sarebbe stato meglio per lui, figlio della dinastia Star, farsi ammaliare dal fascino della “mela morsicata”.
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