I due eccessi
I ricavi delle privatizzazioni italiane degli anni Novanta sono misurati in circa 108 miliardi di dollari. In termini assoluti, si tratta dell’ammontare più alto tra i paesi avanzati, e il secondo più elevato in termini relativi (dopo il Portogallo). Nel complesso circa 10 punti percentuali di pil. Lo stock di debito pubblico, che nel 1992 aveva oltrepassato il valore del prodotto interno lordo ed era continuato ad aumentare in rapporto al pil raggiungendo un picco tre anni dopo, è stato ridotto di circa 17 punti percentuali nel decennio 1995-2004 (dal 121 per cento al 104 per cento).
I ricavi delle privatizzazioni italiane degli anni Novanta sono misurati in circa 108 miliardi di dollari. In termini assoluti, si tratta dell’ammontare più alto tra i paesi avanzati, e il secondo più elevato in termini relativi (dopo il Portogallo). Nel complesso circa 10 punti percentuali di pil. Lo stock di debito pubblico, che nel 1992 aveva oltrepassato il valore del prodotto interno lordo ed era continuato ad aumentare in rapporto al pil raggiungendo un picco tre anni dopo, è stato ridotto di circa 17 punti percentuali nel decennio 1995-2004 (dal 121 per cento al 104 per cento). Gli introiti delle privatizzazioni contribuirono per oltre la metà a tale riduzione del debito. Da questo punto di vista, la vicenda delle privatizzazioni italiane appare come una storia di successo. Tuttavia, com’è noto, dopo quella fase il debito pubblico italiano riprese a salire in rapporto al pil (con un effimero intervallo nel 2007). Ciò dipese anche dal fatto che una parte delle riduzioni del disavanzo pubblico era costituita da misure transitorie (come la famigerata “tassa per l’Europa”, 0,6 per cento del pil) e che, appunto, la metà della riduzione del debito era stata raggiunta attraverso i ricavi delle privatizzazioni. Tra i modi per affrontare l’eccesso di debito pubblico diversi dall’aggiustamento fiscale (ossia aumento di tasse o riduzioni di spese), la vendita di asset pubblici rappresenta senza dubbio un’opzione più benigna rispetto all’inflazione del debito o alla sua ristrutturazione. Posto che esistano le condizioni essenziali e di contorno per la vendita di tali attività, e si valuti appropriatamente l’impatto di medio termine sul bilancio pubblico derivante dalla conseguente riduzione di entrate. Ora, lasciando da parte questo secondo aspetto (che pure non è trascurabile), c’è da dire che sia le attività finanziarie sia quelle fisiche in mano al settore pubblico sono tutt’ora rilevanti. In Italia e nel resto del mondo. Secondo il Fiscal monitor del Fondo monetario internazionale dell’aprile scorso, i soli asset finanziari pubblici rappresentano in media circa 40 punti percentuali di pil nei paesi avanzati (metà in forma di azioni e quote), mentre le attività non finanziarie (edifici, infrastrutture, terre, ecc.) ammontano in media a circa il 67 per cento del pil.
Naturalmente, solo una parte di tali attività può essere messa sul mercato, senza contare che negli ultimi venti anni molte delle principali società pubbliche sono state già privatizzate, e le rimanenti partecipazioni sono spesso nelle mani dei governi locali e non di quello centrale, così come succede per quote consistenti degli asset non finanziari. Per quanto riguarda l’Italia, le partecipazioni finanziarie del governo centrale sono stimate in circa 8 punti percentuali di pil, e secondo uno studio di Intesa Sanpaolo la vendita di azioni quotate frutterebbe un introito pari a un punto percentuale di prodotto interno. Per le attività non finanziarie, lo stock italiano è un po’ superiore alla media dei paesi avanzati, ma la quota giudicata vendibile dalle nostre autorità è stimata in 4-6 punti percentuali di pil. In effetti, tra i vari annunci del nostro governo c’è anche un piano di dismissioni per circa 15-20 miliardi di euro l’anno per i prossimi cinque anni. Insomma, al massimo 100 miliardi in cinque anni. Comunque un risultato cumulato non certo disprezzabile – 6 punti percentuali del pil di quest’anno – se fosse davvero realizzato. Ora, ammettiamo che un piano del genere sia effettivamente messo in cantiere e portato a termine, anzi ipotizziamo che sia possibile persino fare meglio, in base per esempio alle stime più ottimistiche di ciò che è vendibile e di quanto ci si può ricavare che sono circolate sui giornali in questi giorni. Ma domandiamoci: è questa la strada che rende possibile ridurre le tasse, sostenere la crescita ed eliminare l’eccesso di stato?
Ridurre il debito senza crescita
Le privatizzazioni sono utili, indipendentemente dal contesto e dalla dimensione, ma non hanno un effetto permanente. Quindi, come dimostra proprio l’esperienza italiana degli anni Novanta, se non sono accompagnate da un programma sostenibile di aggiustamento fiscale che viene effettivamente applicato, non possono risolvere il problema, anche se lo attenuano. Anzi, possono essere usate come diversivo. Si noti che proprio l’esperienza italiana degli anni Novanta mostra, come osserva lo stesso Fmi, che la riduzione del debito è possibile anche senza una forte crescita. Un’esperienza del genere oggi non è ripetibile, ma in ogni caso non sarebbe desiderabile.
L’eccesso di stato è misurato in primo luogo dal bilancio pubblico piuttosto che dal patrimonio pubblico. L’eccesso di stato è rappresentato dal fatto che le entrate dello stato italiano hanno raggiunto quest’anno il 48 per cento del pil (una quota destinata a crescere nei prossimi anni), e le uscite il 51 per cento. E’ su questo che bisogna agire in modo radicale. Ciò detto, ovviamente privatizzare non guasta.
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