Il Pd, i forzati delle primarie e quell'inconfessabile repulsione per i gazebo
Dicevi “primarie” e la gente si illuminava: erano la panacea, la formula attira-elettori (o audience), il panno che spolvera e lucida, l’anticipo del mondo nuovo. Ma ora, nel Pd, dici “primarie” ed è come se il mondo nuovo fosse gravato da una specie di palla al piede: “Dobbiamo votare ancora?”, sbuffano mesti molti militanti (e a Roma un iscritto dice: “Se vota, se vota. E se nun se vota, semo lì a decide quando vota’”): militanti esacerbati, certo, dal clima pre-congressuale, dal pasticciaccio delle tessere gonfiate e dall’onda lunga del voto mezzo-vinto e mezzo-perso di febbraio, ma anche dal susseguirsi incessante di consultazioni “a mo’ di primaria”, come dicono i resistenti non renziani
Dicevi “primarie” e la gente si illuminava: erano la panacea, la formula attira-elettori (o audience), il panno che spolvera e lucida, l’anticipo del mondo nuovo. Ma ora, nel Pd, dici “primarie” ed è come se il mondo nuovo fosse gravato da una specie di palla al piede: “Dobbiamo votare ancora?”, sbuffano mesti molti militanti (e a Roma un iscritto dice: “Se vota, se vota. E se nun se vota, semo lì a decide quando vota’”): militanti esacerbati, certo, dal clima pre-congressuale, dal pasticciaccio delle tessere gonfiate e dall’onda lunga del voto mezzo-vinto e mezzo-perso di febbraio, ma anche dal susseguirsi incessante di consultazioni “a mo’ di primaria”, come dicono i resistenti non renziani, quelli che preferivano scegliere il segretario del partito con diversa procedura. “Non c’è tensione ideale, la vera scissione sarà quella silenziosa, quella della stanchezza”, dice un dirigente esperto nelle vesti di malinconica Cassandra. “Un conto è scegliere un candidato premier, con tutto il contorno di vitalità nei circoli, un conto è rendere la vita intera del partito una primaria continua”, dice Fausto Raciti, deputato e segretario dei giovani pd (cuperliano e di area “giovani turchi”), convinto che “i congressi, per come si sono svolti, siano un po’ delle primarie a quindici euro: si vota, si vota, e non c’è mai un luogo e un tempo di discussione”. Dopodiché, dice Raciti, “il clima si smonta anche da sé, non essendoci elezioni in vista, ed essendoci un governo di larghe intese. Le primarie appaiono per quello che sono: non il modo migliore per scegliere un segretario. Stavolta non si potevano cancellare, che servano almeno a mettere un punto”.
Nell’universo dei forzati delle primarie, gente che nonostante i lanci di stracci reciproci dei dirigenti andrà ogni due settimane (più o meno) al macello e al voto nella vecchia sezione diventata “circolo” per motivi affettivi, perché si sente male senza tessera (non gonfiata) in tasca, serpeggia un sentimento misto: un po’ rassegnazione, un po’ soddisfazione alla “ve l’avevamo detto”. Ve l’avevamo detto che il partito – inteso come carrozzone, baracca, casa e radice – non è roba da primaria. C’è chi ora spera nella saggezza collettiva dell’iscritto che, come dice sempre Ugo Sposetti, senatore Pd, ex tesoriere storico e pilastro della critica alle primarie a tappeto, “ha il diritto di sapere dove sta il partito e come ci sta, perché l’iscritto ama il partito”. E c’è chi, come Chiara Geloni, direttore di YouDem e co-autrice con Stefano Di Traglia del volume ex-post-neo bersaniano “Giorni bugiardi”, vede nella saturazione da primarie la scia del “caso 101” (che affossarono Romano Prodi) e dell’inatteso scenario post elezioni, “demoralizzante per la nostra gente”. Visto che non si è potuto “mettere mano a uno statuto un po’ barocco”, dice Geloni, “bisogna risolvere il problema del rapporto tra iscritti ed elettori, perché così, con primarie fatte in questo modo, si sta dicendo in un certo senso agli iscritti che non contano nulla, che chiunque arrivi con due euro vota. E allora a che cosa serve iscriversi?, pensano. Il problema è la coesistenza di modelli di partito diversi nello stesso Pd: questo ibrido crea confusione nel militante, anche in quello a cui, nel caso di primarie per la premiership, piaceva persino mettersi in fila, che è come dire: io ci sono”.
Nell’universo del bravo democratico obtorto collo, quello che alla fine si presenta sempre anche al congresso locale, pur meditando per troppo attaccamento fuga o vendetta, “le primarie a nastro”, come dice un iscritto di lunga data, “sono diventate paradossalmente il simbolo della mancanza di un ‘noi’”. “Ci sono problemi oggettivi legati all’inflazione dello strumento”, dice l’eurodeputato dalemiano e docente di Storia contemporanea Roberto Gualtieri, che attorno a quelle che non vuol chiamare neppure “primarie” (“tecnicamente si tratta di elezione diretta del segretario”) pensa si debba “riaprire la riflessione sulla congruenza della platea elettorale rispetto al tipo di carica che si vuole eleggere”. E il cruccio-primarie si fa più dolce al pensiero di rimetterle un giorno (almeno per il segretario), nel cortile di casa se non nel cassetto.
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