Non basta Draghi

Enrico Cisnetto

Nel giorno in cui Draghi ha ancora una volta stupito con una decisione, il dimezzamento dei tassi d’interesse, portati allo 0,25 per cento, che tutti si attendevano per dicembre, presa al prezzo di spaccare la Bce, sono due le domande che è bene porsi. La prima riguarda la salvezza dell’euro e con esso dell’Europa: fino a quando Draghi sarà in grado di farlo, considerato che la Commissione europea stima inflazione bassa (sotto il tetto dal target del 2 per cento considerato dalla Bce), prevedendo addirittura un’ulteriore discesa dei prezzi nel 2015?

    Nel giorno in cui Draghi ha ancora una volta stupito con una decisione, il dimezzamento dei tassi d’interesse, portati allo 0,25 per cento, che tutti si attendevano per dicembre, presa al prezzo di spaccare la Bce, sono due le domande che è bene porsi. La prima riguarda la salvezza dell’euro e con esso dell’Europa: fino a quando Draghi sarà in grado di farlo, considerato che la Commissione europea stima inflazione bassa (sotto il tetto dal target del 2 per cento considerato dalla Bce), prevedendo addirittura un’ulteriore discesa dei prezzi nel 2015? La seconda è tutta italiana: se è vero, come ha sostenuto ieri il presidente della Bce, che l’Europa non corre il pericolo di una deflazione, ma solo di una prolungata disinflazione, siamo sicuri che invece l’Italia, come ha paventato il presidente di Confindustria Squinzi, non sia preda di quella sindrome nipponica fatta di inflazione negativa e recessione che tra il 2000 e il 2006 ha costretto il Giappone a livelli di debito pubblico mostruosi? E tra l’altro con un’esiziale differenza a nostro danno: loro avevano la pressoché piena occupazione, mentre noi abbiamo la disoccupazione al 12,2 per cento (ma diventa molto più alta se si aggiungono i cassintegrati privi di possibilità reali di reintegro) che sale oltre il 40 per cento se si considera solo quella giovanile.

    Al primo quesito è difficile rispondere. C’era chi aveva scommesso sul fallimento della linea Draghi, e fin qui è stato clamorosamente smentito. Ieri, rompendo gli indugi, annunciando che i tassi potrebbero ancora scendere e facendo sapere che il board della Bce ha pure discusso della possibilità di tagliare il tasso sui depositi, attualmente a zero, mandandolo in negativo per spingere le banche a impiegare la liquidità “parcheggiata” a Francoforte, Draghi ha dimostrato di essere ancora il più forte. Però, la Bce, da quando è guidata da lui, ha utilizzato ogni strumento possibile per allargare la base monetaria dell’Eurozona (acquisti dei titoli di stato sul mercato secondario, il Ltro, “whatever it takes”, il “bazooka” dell’Omt, il taglio record dei tassi), quasi esaurendo tutte le munizioni “convenzionali” pur senza imitare le politiche ultra-espansive della Fed e dell’Abenomics giapponese. Quali altre armi ha a disposizione? Fino a quando i tedeschi gli permetteranno le forzature che sta facendo? Draghi sostiene che la deflazione non è dietro l’angolo, come fenomeno europeo complessivo, ed è possibile – non so se probabile – che abbia ragione. Tuttavia, l’euro troppo forte è un problema non di poco conto – anche se, attenzione, non danneggia gli interessi della Germania (per loro merito, sia chiaro, la competitività i tedeschi se la sono conquistata a suon di riforme) – visto che alimenta la già scarsa capacità di crescita dell’Eurozona.

    Naturalmente a patire maggiormente questa situazione sono i paesi a più bassa crescita e a più alto debito. E qui siamo al secondo quesito. L’Italia, in questa fase, ha un’inflazione calante dovuta, al di là dei fattori esogeni, alla contrazione dei consumi, che è ormai un fenomeno strutturale (la vita “frugale” degli italiani, come ha scritto Carlo Carboni sul Sole 24 Ore di ieri). A questo fenomeno somma la perdurante recessione, che nel migliore dei casi l’anno prossimo potrà diventare stagnazione. Insomma, se anche l’Europa non dovesse correre il rischio deflazione, a correrlo concretamente è di sicuro l’Italia. E la deflazione accompagnata da un euro troppo forte – ieri è sceso dopo le decisioni della Bce, ma siamo ben lontani dal livello ottimale di una sostanziale parità con il dollaro – oltre a limitare ulteriormente i consumi e gli investimenti, rende ancora più pesante il fardello del debito pubblico. Insomma, siamo di fronte a un cortocircuito economico-politico-istituzionale senza precedenti: caso più unico che raro abbiamo altissimi tassi di disoccupazione e una incombente deflazione, cui si somma una latente crisi politica dell’unico (e ultimo) sistema praticabile, quello delle larghe intese, che a sua volta produce un collasso istituzionale.

    C’è un solo modo per uscirne: più Europa. Come? Abbandonando l’ossessione del pareggio di bilancio, ma nello stesso tempo producendo riforme strutturali comuni – ribadisco: comuni – ben più incisive di quelle fatte in alcuni paesi e chiacchierate in altri (Italia). Creando quella governance federale, dall’unione bancaria fino alla creazione di un governo federale eletto direttamente dai cittadini europei, la cui assenza ha prodotto squilibri profondi. E’ pensabile che la contraddizione di avere una moneta in comune tra paesi dai salari reali in picchiata e altri con un eccessivo surplus commerciale (quello della Germania da quando è partito l’euro è arrivato a 1.400 miliardi, il 50 per cento del suo pil), o tra chi è costretto a finanziare a tassi altissimi i proprio debiti pubblici (Italia, Grecia, Spagna, Portogallo) e chi, come la Germania, finanzia il proprio a tasso zero, sia superabile dalla pur straordinaria politica monetaria della Bce? Occorre ben altro: revisione dei trattati, cessioni di sovranità, Stati Uniti d’Europa.