I diversamente milanisti

Beppe Di Corrado

Adriano Galliani vive di calcio. Lo dicono gli altri, lo dice lui. E’ un problema e una risorsa, allo stesso tempo e a seconda della prospettiva. Perché l’esperienza si alterna sempre all’abitudine, come accade in tutte le altre cose: nella politica, nel costume, nella società, nell’economia. Le generazioni che si sovrappongono fanno esattamente come le placche della crosta terrestre: scivolano una sopra l’altra, scatenando piccoli o grandi terremoti. E’ l’inevitabile che si rinfaccia alla vita: il calcio non può sfuggire alla diatriba tra giovani e vecchi, tra innovazione e tradizione, tra novità e conservazione.

    Adriano Galliani vive di calcio. Lo dicono gli altri, lo dice lui. E’ un problema e una risorsa, allo stesso tempo e a seconda della prospettiva. Perché l’esperienza si alterna sempre all’abitudine, come accade in tutte le altre cose: nella politica, nel costume, nella società, nell’economia. Le generazioni che si sovrappongono fanno esattamente come le placche della crosta terrestre: scivolano una sopra l’altra, scatenando piccoli o grandi terremoti. E’ l’inevitabile che si rinfaccia alla vita: il calcio non può sfuggire alla diatriba tra giovani e vecchi, tra innovazione e tradizione, tra novità e conservazione. Ecco, allora: vivere di calcio che cos’è? La domanda non ha risposte oggettive. L’oggettività sta nella constatazione, nella presa d’atto che questo signore, all’alba dei 70 anni, ha passato più di metà della sua vita nel mondo del pallone, ma se qualcuno glielo chiede, si sentirà dire una cosa in più. La storia da cui nasce tutto, almeno a sentire lui: “Avevo 10 anni. Era l’estate del 1954, primo anno di trasmissione della televisione in Italia: io e mia sorella in vacanza con mia madre ad Arenzano, in Liguria. Lessi sul Secolo XIX che quel pomeriggio sotto la sede del giornale a Genova avrebbero messo un grande televisore: quel pomeriggio c’era la finale della Coppa del mondo, Germania ovest-Ungheria. Sotto la pensione nella quale soggiornavo passava l’Aurelia, montai sulla prima corriera e andai a Genova per vedermi quella partita. Al rientro mia madre era arrabbiata e preoccupatissima: pensava fossi annegato in mare”. Il cazziatone se lo ricorda ancora oggi, con una punta di dolore che affonda le radici nel ricordo della morte della mamma, che sarebbe arrivata solo cinque anni più tardi: “Eravamo una famiglia atipica. Padre funzionario pubblico, madre imprenditrice. Il contrario di ciò che accadeva in tutte le altre famiglie dell’epoca: mio papà aveva paura che mia madre fallisse. Quando è morta è stata una perdita enorme. Io non avevo ancora quindici anni”.

    Ne aveva diciannove, invece, il giorno in cui scappò un’altra volta per una partita di pallone. Era il 1963. C’era la finale di coppa dei Campioni Milan-Benfica. A Wembley. All’epoca, la tv italiana non trasmetteva le partite in diretta. Adriano e un gruppo di amici partirono dalla Brianza, sconfinarono a Chiasso, trovarono il primo posto disponibile con un televisore e si accomodarono a guardarsi alla tv svizzera la prima vittoria della coppa più importante d’Europa da parte di una squadra italiana. Attenzione: non era la sua squadra. Nel libro “I padroni del pallone”, Maurizio Crosetti racconta di un vecchio calore del giovane Adriano per la Juventus, con un virgolettato che sembra una conferma: “Bé, in Brianza una certa passione bianconera è diffusa…”. Il Milan sarebbe entrato nella sua vita un po’ di tempo dopo e soprattutto dopo l’inizio di una carriera da dirigente pallonaro cominciata a Monza. Calcio e tv, molti hanno scritto che è un segno del destino e moltissimi hanno ricamato. “Conobbi Berlusconi il primo novembre 1979: diventammo soci e io gli dissi che avevo solo un problema. Cioè dovevo poter seguire in casa e in trasferta ogni domenica il Monza”. Quella data, il giorno di Ognissanti dell’ultimo anno dei pessimi Settanta, la ricorda sempre. La storia precedente è più o meno questa: il geometra Adriano Galliani, dopo otto anni di puntuale servizio da dipendente al Comune di Monza, assecondò l’indole ereditata evidentemente più dalla mamma che dal papà. Voleva fare l’imprenditore, mettere su un’aziendina tutta sua, come tante ne vedeva attorno a sé. Cominciò con i citofoni e non andò un granché bene. Poi gestì uno stabilimento balneare a Vieste, sul Gargano, dove arrivò su una per niente fiammante Cinquecento. L’affare, però, fu un altro: decidere di ipotecare il suo appartamento per farsi finanziare l’acquisto della Elettronica industriale. L’azienda era di un tal ingegner Barbuti, uno che forse non aveva intuito che le antenne sarebbero state il business degli ultimi vent’anni del Novecento. Galliani sì, e a quanto scrive lo stesso Crosetti l’aveva intuito anche suo papà che smessi i panni del dipendente pubblico tirò anche lui fuori lo spirito d’impresa dei brianzoli. L’idea, grosso modo, era questa: si appaltavano pezzi di colline e montagne della zona, fino al confine con la Svizzera e si piantavano antenne per la ricezione del segnale televisivo. Qualcuno sostiene che l’allora trentacinquenne Adriano abbia capito che le televisioni avrebbero avuto un boom guardando la tv svizzera e TeleCapodistria. D’altronde da noi, di televisioni nazionali c’era solo la Rai e già allora era modesta. Con le sue antenne, in pratica, Galliani diventò una specie di monopolista degli apparecchi per la ricezione per l’intera Brianza. Volevi vedere la benedetta tv svizzera, alternativa alla paludata e spenta Rai? Dovevi passare dagli aggeggi dell’Elettronica Industriale. Il 31 ottobre 1979, il proprietario di TeleMilano 58, Silvio Berlusconi, lo chiamò: “Ci potremmo vedere domani a cena?”. Il seguito l’ha raccontato Galliani medesimo in un’intervista a Panorama dopo l’ultimo campionato vinto dal Milan: “Per molto tempo la mia vita è stata tutta nel microcosmo Monza-Vedano al Lambro-Lissone: la mia terra, la Brianza lavoratrice. A Milano andavo pochissimo. Poi l’incontro con Silvio Berlusconi ha cambiato tutto.

    Avevo già 35 anni, avevo la mia fabbrichetta, l’Elettronica Industriale, lavoravo come un matto: diventammo soci e ci intendemmo da subito. Io ero uno dei tanti signori Brambilla della Brianza, lui era un fuoriclasse. Sembra piaggeria, ma non è così. Berlusconi è davvero un genio. Nel calcio, Berlusconi mi coinvolse perché avevo già a che fare col mondo del pallone da dirigente del Monza. La sua avventura nel Milan è cominciata a febbraio 1986, ma la vera data di inizio è il primo luglio. Disse: voglio vincere tutto. A giugno 1988 eravamo campioni d’Italia, a maggio 1989 campioni d’Europa, a dicembre 1989 campioni del mondo. Sembrava un visionario, Berlusconi. Invece... Ventisette trofei. Sono tantissimi: 14 in Italia, 13 all’estero. Ma se ci penso trovo qualcosa di ancora più straordinario: perché in questi anni abbiamo anche avuto 16 secondi posti, tra campionato e coppe europee. Quarantatré volte tra primo e secondo per una squadra è qualcosa di quasi incredibile”. Nel frattempo i numeri sono cambiati. La frase di Galliani si ferma al 2011, ma nel 2012 è accaduto ancora qualcosa: secondo posto in campionato e vittoria della supercoppa italiana. I calcoli aggiornati, quindi, sono: 28 trofei, 15 in Italia e 13 all’estero; 45 tra primi e secondi posti tra campionati e coppe. Ciò che non è cambiato è il merito che Galliani attribuisce. “Il merito? E’ di Silvio Berlusconi. Ha preso questa squadra da un’aula di tribunale e l’ha portata a essere la più vincente del mondo”.

    Strano rapporto quello tra Berlusconi e Galliani. I due, almeno in pubblico, si continuano a dare del lei. Si conoscono da una vita, ma hanno mantenuto i canoni dell’ufficialità delle relazioni. Fino a un certo punto, Adriano l’antennista, come lo chiamavano i detrattori, ha continuato a dividersi tra i suo ruolo televisivo e quello pallonaro: “Era il 1998, ne parlammo con Silvio Berlusconi: il presidente mi disse di scegliere con tranquillità. La decisione la presi parlando una sera a cena con mio figlio Gianluca. Mi bastò una sua frase: “Papà io in tutti questi anni non ti ho mai sentito parlare di televisione e ti ho sempre sentito parlare di calcio”. Malato di calcio. Grave: “Qualsiasi partita ci sia, io la guardo. Ricordo che nel 2002, il Mondiale si giocava spesso nel primo pomeriggio. Un giorno, tra un match e l’altro, c’era un film ambientato nella Scozia dei primi del Novecento: stavo per cambiare canale, quando vidi una scena con una partita. Niente più zapping: incollato al film per vedere calcio anche lì”.

    Nel Milan, come nella vita, ha fatto diversi errori. Non ne parla volentieri, ammette gli sbagli senza elencarli, tranne quelli personali. Dice di aver sbagliato con alcune persone che gli hanno voluto bene. Dice di aver avuto qualche insuccesso matrimoniale. “La mia vita è stata segnata dal calcio e dal lavoro. Non rimpiango nulla: l’ho scelto io”. Non ha un bel carattere e il solo fatto che qualcuno lo scriva non gli piacerà. Sono celebri alcune sue uscite in cui non condivide le analisi di commentatori e analisti. Alcune volte, s’è tolto auricolare e microfono e ha lasciato lì il giornalista che lo stava intervistando. Per i cronisti tv, il pre partita o il post partita con Galliani è il momento più duro. Non gli fa piacere neanche che si ironizzi sulle sue espressioni e gestualità durante le partite. Lo vedi no? Lo vedi in tribuna: trema, freme, esulta, prega, impreca. Di recente una telecamera l’ha ripreso nel momento in cui manda a quel paese un giocatore che ha appena sbagliato una punizione. S’è scusato.

    A chi gli chiede quale sia la sua caratteristica migliore, Galliani risponde “la concentrazione”. E poi continua: “Io non ho particolari qualità: conosco i miei pregi e i miei difetti. Sbaglio come tutti, ovviamente. Ma cerco di farlo pochissimo. Sono concentrato tutto il tempo: ho obiettivi e faccio di tutto per realizzarli. Lavorare mi piace da morire”. Alcuni degli errori li hanno fatti notare negli ultimi tempi i tifosi milanisti, seccati del rendimento mediocre della squadra. La stagione in corso è la peggiore della storia milanista dal 1986 a oggi. Ci sono diverse cose che non funzionano, inutile negarlo da parte di tutti. A leggere i giornali di questi giorni il rapporto tra la famiglia Berlusconi e Galliani sarebbe molto diverso da quello dei primi tempi. La gestione della parte tecnica, del mercato, dei rapporti con alcune icone del passato anche recente milanista, per arrivare agli aspetti economici: i costi e i ricavi, i contratti di fornitura, il valore del club e del brand Milan che oggi resta comunque il più importante del calcio italiano nel mondo. I temi sono tanti. Il tema di fondo è il futuro del club e soprattutto come renderlo forte finanziariamente oltre che sportivamente (le due cose, con il fair play finanziario che incombe dovranno seguire la stessa curva). Galliani ha già detto in passato come vede il calcio moderno: “Il calcio è lo specchio della società. Le squadre sono aziende. La cosa più vicina al calcio è una major cinematografica. La partita è una pellicola che dura novanta minuti. Attorno a questo film vanno create le attività collaterali. Venticinque anni fa le squadre vivevano soprattutto di botteghino, che rappresentava il 90 per cento del fatturato. Oggi il mix è 60 per cento diritti tv, 25 per cento sponsorizzazioni e attività commerciali, 15 per cento biglietteria. E’ cambiato tutto anche sul campo: è un gioco molto più fisico. Ma il bello di questo sport è che le emozioni e la passione non hanno tempo”. Ciò che davvero passa nella testa dei protagonisti che sono poi lo stesso Galliani, Barbara Berlusconi e Silvio Berlusconi lo sanno soltanto loro. I giornali raccontano verità e retroscena che riescono a raccogliere. Qualcuno ci monta su anche molto altro. Tipo L’Espresso di questa settimana che ha messo Galliani in copertina, come il capo di una cospirazione attraverso la gestione dei diritti televisivi vorrebbe gestire tutto il mondo del pallone. Ciò che il settimanale non chiarisce è se Mediaset e quindi Berlusconi siano vittime o complici. Il che funziona sempre no? Perché l’importante è che l’antiberlusconismo dilaghi, a prescindere. Galliani può essere l’amico che si vuole staccare o l’ultrafedelissimo a seconda delle esigenze di copione. Accadeva anche quando era il commissario della Lega calcio. In quel ruolo ci sono state tre cose per le quali è maggiormente ricordato: l’affermazione del principio dell’assegnazione dei diritti televisivi su base individuale (cioè: Milan e Chievo non possono avere gli stessi proventi perché generano ricavi molto diversi); l’idea della superlega europea per club, una specie di Champions ristretta in cui i migliori venti club d’Europa fanno un campionato loro; ma soprattutto la stretta di mano formale fatta fare a Inter e Juventus in uno dei due momenti di maggior tensione tra le due società che la storia del pallone italiano ricordi. Era il 1998, l’arbitro Ceccarini negò il rigore all’Inter per fallo di Iuliano su Ronaldo, a Torino. Secondo i nerazzurri, quel rigore avrebbe potuto dare all’Inter il primo scudetto dell’era morattiana, molto prima di quanto poi sarebbe avvenuto in realtà. Tutti ricordano la reazione di Moratti e la controreazione di Antonio Giraudo: ne scaturì una lite che sembrava in quelle ore insanabile. Ebbene, Galliani fece da mediatore. Per interesse collettivo, non per bontà: i club, proprio nei giorni successivi, avrebbero dovuto mettersi d’accordo per stabilire le linee strategiche con cui organizzare gli accordi futuri nella gestione del campionato. Se fosse stata lunga quella lite, sarebbe stato un guaio. Galliani riuscì a pacificare almeno per convenienza i due litiganti: i rapporti tra le tifoserie rimasero compromessi per sempre, quelle tra le società formalmente accettabili proprio fino allo scoppio dell’inchiesta Calciopoli.

    Se ciò che raccontano i giornali è vero e se quindi la tensione adesso non è più tra i club, ma all’interno di un club, cioè il Milan, Adriano Galliani farà ricorso a tutte le risorse da mediatore di cui dispone. Il calcio è la sua vita, dice. Il Milan lo è diventato. Non è difficile immaginare che voglia fare ancora tutte quelle smorfie che le telecamere adesso trasmettono in alta definizione, nonostante sia una sofferenza. Non è difficile che voglia continuare a indossare quella divisa che è diventata una certezza: “Non è scaramanzia. E’ un fattore cromatico. E non ho grande fantasia: indosso sempre giacca blu, camicia bianca, pantalone grigio scuro, scarpa marrone scuro, cravatta gialla”. Non è sempre la stessa, ne ha centinaia.