Il segno meno della Francia

A Hollande “Mr. 15 per cento” non resta che coccolarsi Paul Krugman

Paola Peduzzi

Non bastavano i berretti rossi dei bretoni, da ieri nelle piazze di Francia ci sono anche i gilet gialli, indossati dai genitori e dagli insegnanti che hanno scioperato contro la riforma scolastica voluta dal ministro dell’Istruzione Vincent Peillon. Tanti colori, tanti simboli, tante insofferenze e un unico bersaglio: il presidente François Hollande con il suo governo guidato da Jean-Marc Ayrault. Le conseguenze sono già quantificabili in quel 15 per cento di consensi che, secondo l’ultimo sondaggio, è rimasto attaccato all’inquilino socialista dell’Eliseo, un altro record negativo della V Repubblica.

     Non bastavano i berretti rossi dei bretoni, da ieri nelle piazze di Francia ci sono anche i gilet gialli, indossati dai genitori e dagli insegnanti che hanno scioperato contro la riforma scolastica voluta dal ministro dell’Istruzione Vincent Peillon. Tanti colori, tanti simboli, tante insofferenze e un unico bersaglio: il presidente François Hollande con il suo governo guidato da Jean-Marc Ayrault. Le conseguenze sono già quantificabili in quel 15 per cento di consensi che, secondo l’ultimo sondaggio, è rimasto attaccato all’inquilino socialista dell’Eliseo (il 12 per cento è “piuttosto” contento dell’operato del presidente, il 3 per cento “molto” contento), un altro record negativo della V Repubblica. Il Point in edicola oggi pubblica un suo sondaggio – più benevolo: 21 per cento di popolarità, che in qualsiasi altro caso farebbe ridere, ma che qui sembra quasi rassicurante – e nell’elenco delle ragioni di tale infelicità ci sono le tasse soprattutto, che naturalmente non piacciono mai a nessuno, ma che durante il governo socialista sono diventate un incubo: annunciate, poi ritrattate, poi ritoccate, poi sospese, poi reintrodotte. A Hollande viene in sostanza chiesto di “fare il presidente”, cioè di non farsi trascinare dalle proteste o dalle critiche o dalle lotte di Palazzo (il ministero dell’Economia è un campo di guerra permanente, per non parlare delle speculazioni sui “giorni contati” di Ayrault) ma di chiarire una strategia e poi rispettarla. Lo stesso messaggio arriva dal Nouvel Observateur, sintetizzato dall’analisi del politologo Stéphane Rozès: “Hollande non dice ai francesi dove vuole portare la Francia”.

    La mancanza di una direzione è ravvisabile nei numeri. Dopo una ripresina nel secondo trimestre del 2013 (+0,5), il terzo trimestre ha registrato un “recul” che ha riportato il pil in rosso (-0,1), secondo i dati pubblicati ieri dall’Institut national de la statistique e des études économiques (Insee): il contributo della domanda interna è stato “nullo”, i consumi sono diminuiti e sono crollati gli investimenti delle aziende. Il ministro dell’Economia, Pierre Moscovici, ha minimizzato dicendo che il rallentamento era previsto, ma in realtà gli economisti avevano fatto stime tra lo 0 e lo 0,1 per cento. I dati dell’occupazione, secondo l’Insee, sono peggiorati, e soltanto una settimana fa la Francia è stata declassata da Standard & Poor’s (da AA+ ad AA), a causa di una spesa pubblica – al 56 per cento – che è la più alta del mondo sviluppato dietro alla Danimarca e di una politica fiscale fatta di continue retromarce.

    La dittatura dell’austerità
    La malattia francese è rappresentativa di una malattia continentale, ma c’è chi pensa che l’accanimento contro Parigi sia ideologico. Tra questi c’è Paul Krugman, keynesiano per eccellenza, premio Nobel e columnist del New York Times, che difende la Francia con il suo solito stile fatto di grafici, ironia e aggressività. Per Krugman in Francia c’è “una non crisi”: “S&P’s non ha in realtà considerato il rischio di default della Francia, ma ha schiaffeggiato la Francia perché non è abbastanza impegnata a smantellare il suo welfare state”. L’economista torna sul “France-bashing”, l’accanimento, spiegando che il paese ha sì dei problemi – la disoccupazione, le piccole imprese che chiudono, i francesi che invecchiano – “ma guardando quasi tutti i dati che ho trovato, la Francia non pare così messa male rispetto agli standard europei”. Il problema è che non si piega all’austerità: “Il peccato francese non è il debito eccessivo, la crescita bassa, la produttività stagnante o la disoccupazione. Il suo peccato è che vuole mettere a posto i conti alzando le tasse e non tagliando i benefit. Non c’è alcuna prova del fatto che questa sia una politica disastrosa – e infatti i mercati non sembrano preoccuparsi – ma chi le vuole, le prove?”.

    Un articoletto dal titolo “Les misérables” nella column Lex del Financial Times, mercoledì, ribadiva il fatto che i mercati e gli investitori non sono allarmati quanto i francesi stessi, che fischiano il loro presidente. La Francia non ha problemi più gravi di molti altri partner dell’Eurozona, e i numeri di mercato tengono. Ma la Lex è molto più concreta di Krugman, non pensa a un complotto, pensa piuttosto che le aspettative dei francesi siano decisive: se non ci credono loro, come possiamo farlo noi? La Francia dovrebbe trasformarsi in un “riformatore volenteroso” come la Spagna, per non dare seguito alle malelingue tedesche che dicono (e come al solito le notizie non sono buone nemmeno per noi) “che il loro ‘partner’ in Europa si sta trasformando in un’altra Italia”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi