L'Albania non vuole ospitare il disarmo chimico di Assad. E ora?
Non sarà l’Albania il luogo in cui saranno accolte e distrutte oltre mille tonnellate di agenti chimici siriani. Da una settimana migliaia di persone manifestano nelle strade delle città albanesi con maschere antigas e bandiere rosse con l’aquila nera. In pochi giorni è sorto un movimento spontaneo, apolitico e variegato che ha spinto il premier di centrosinistra Edi Rama, al potere da soli due mesi, a fare un passo indietro, nonostante l’Albania sia un robusto alleato degli Stati Uniti e un membro della Nato.
Leggi l'editoriale Era questo il piano americano con Assad?
Gerusalemme. Non sarà l’Albania il luogo in cui saranno accolte e distrutte oltre mille tonnellate di agenti chimici siriani. Da una settimana migliaia di persone manifestano nelle strade delle città albanesi con maschere antigas e bandiere rosse con l’aquila nera. In pochi giorni è sorto un movimento spontaneo, apolitico e variegato che ha spinto il premier di centrosinistra Edi Rama, al potere da soli due mesi, a fare un passo indietro, nonostante l’Albania sia un robusto alleato degli Stati Uniti e un membro della Nato.
Il rifiuto albanese è un colpo all’intesa siglata da Mosca e Washington a settembre per smantellare l’arsenale chimico del regime di Bashar el Assad. L’accordo, che ha congelato la possibilità di un attacco militare americano sulla Siria, prevede il trasporto al di fuori dei confini siriani di tutti gli agenti chimici entro la fine dell’anno. Il “no” di Tirana lascia russi e americani senza un piano B. Sarebbe troppo pericoloso neutralizzare l’arsenale direttamente in Siria a causa dei combattimenti. L’Albania, finita sulla lista degli esperti, non è stata una scelta casuale. Ci sono pochissimi luoghi al mondo dotati di installazioni per eliminare agenti chimici. Il paese adriatico è uno di questi, racconta al Foglio Daniel Kaszeta, esperto di armi chimiche, ex membro dell’Army Chemical Corps e dei Secret Service degli Stati Uniti. Nel 2002, l’Albania scoprì in un bunker abbandonato oltre 16 tonnellate di agenti chimici, retaggio degli anni del regime comunista e iper militarizzato di Enver Hoxha. Il governo cercò l’aiuto internazionale. Gli Stati Uniti finanziarono il programma di smantellamento con 45 milioni di dollari, inviarono scienziati e costruirono a Qafemolle, non lontano da Tirana, un’installazione per la distruzione del materiale. Ed è proprio questa base, che esiste ancora oggi, ad aver diretto l’attenzione verso una soluzione albanese. “E’ spazzatura – dice al Foglio Kozara Kati, storica attivista per i diritti umani e tra i leader del nuovo movimento di piazza – Se vedessi cosa c’è a Qafemolle te ne renderesti conto. E’ un terreno dove circolano animali selvaggi, non c’è nulla”. Sul posto, ha scritto la stampa internazionale, sono ancora visibili i resti della distruzione degli agenti chimici – conclusa nel 2007 – racchiusi in container che qualche anno fa hanno cominciato a perdere liquido, prima di essere sostituiti. “Siamo mal equipaggiati” per gestire tonnellate di materiale, ha detto il premier ieri.
A Qafemolle, l’Albania ha smaltito 16 tonnellate di agenti chimici, dalla Siria ne sarebbero dovute arrivare mille. Secondo Kaszeta, ci vorranno anni per distruggere una quantità simile. L’esperto è convinto però che per l’Albania accettare il carico – già rifiutato dalla Norvegia – sarebbe stata un’opportunità: sul piano finanziario la retribuzione internazionale sarebbe stata importante per un paese con un’economia debole e sul quello politico avrebbe potuto spingere i desideri d’integrazione europea di Tirana. I rischi nella fase di distruzione sarebbero per Kaszeta relativamente bassi e il livello di controllo del processo da parte dell’Onu alto.
Ora, la comunità internazionale resta con un problema: gli unici altri paesi ad avere installazioni per la distruzione di agenti chimici sono la Russia e gli Stati Uniti, ma in entrambi i casi sono basi isolate, complicate da raggiungere. Mille tonnellate di materiale chimico possono viaggiare soltanto via mare ed è difficile pensare che la Turchia lasci passare un carico così sensibile attraverso la sua principale città, Istanbul, o che la rotta del canale di Suez e dell’instabile Egitto sia oggi una via facilmente percorribile.
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